Se dovessimo indicare una forma romanzesca capace di rivelare come si compone e come si manifesta quell'impasto vischioso del potere che la politica italiana ha avuto per lunghi anni il funesto privilegio di produrre, basterebbe rimandare alle asciutte pagine di "Todo modo", alla scansione crudele dei suoi episodi, che solcano come una traccia fosforescente una materia informe, torbida e sinistra. Non meraviglia dunque che questo libro, pubblicato nel 1974, possa essere letto come una guida alla storia italiana dei decenni successivi.
Studiato e interpretato, parafrasato e commentato infinite volte, l'"Organon" (in greco "strumento") è il libro in cui la tradizione ha radunato gli scritti aristotelici che forniscono le cognizioni indispensabili per condurre qualsiasi tipo di indagine, ovvero che illustrano le regole e le tecniche necessarie per ben ragionare e argomentare. Il libro di logica per eccellenza, dunque, il manuale adoperato fin dall'antichità in tutte le scuole, il trattato che qualsiasi uomo colto o di scienza era tenuto a conoscere e padroneggiare.
Che cosa sta all'origine della parola "nichilismo", che l'"intelligencija" russa fece dilagare nell'Europa ottocentesca? Nietzsche la definiva un "ospite inquietante", che inficia ogni atto. E al tempo stesso osava affermare di essere "il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé, fuori di sé". Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzittutto Heidegger. A partire dagli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente "Nietzsche", Heidegger individuò nel nichilismo il tratto peculiare dell'Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari dell'Ottocento, ma fin dalle origini greche.
Dopo l'ultima guerra alcuni ragazzi inglesi, fra cui l'autore di questo libro, chini sulle carte geografiche, cercavano il luogo giusto per sfuggire alla prossima distruzione nucleare. Scelsero la Patagonia. E proprio in Patagonia si sarebbe spinto Bruce Chatwin, non già per salvarsi da una catastrofe, ma sulle tracce di un mostro preistorico e di un parente navigatore.
Il 1° ottobre 1862 un "fatto criminale di orrida novità" funesta Palermo: alla stessa ora, in luoghi quasi equidistanti, vengono pugnalate tredici persone. A investigare su quella che subito appare come una sinistra macchinazione è il procuratore Guido Giacosa, di recente arrivato dal Piemonte e già impaziente e insofferente nei confronti dei palermitani. L'inchiesta conduce ben presto a individuare nel principe di Sant'Elia, ricchissimo e rispettatissimo senatore del Regno d'Italia, l'insospettabile mandante. Con crescente angoscia, con disperazione, fra complotti, doppie verità e "sommessi sussurri", avvalendosi solo della testimonianza di pentiti e spie, Giacosa affronterà l'immane difficoltà di costruire una solida accusa.
Il ticchettio della macchina da scrivere, per Giorgio Manganelli, nasce "dai capricciosi amori di un cembalo estroso e di una mite mitragliatrice giocattolo". Non è un caso, dunque, che i suoi corsivi posseggano sia un'incessante mutevolezza di melodie e fraseggi (ossia di temi e linguaggi) sia una tonalità ironico-umoristica percorsa da nere venature malinconiche. I punti di partenza (le "arie" su cui improvvisare) sono spesso un minimo fatto di cronaca, una polemica frivola, un provvedimento ministeriale bizzarro. In ogni passaggio queste improvvisazioni sono anche inversioni, capovolgimenti del senso comune, dove la quotidianità si eleva a dimensione fantastica e i massimi sistemi slittano in una dimensione grottesca e prosaica.
Il sessantunenne John Shade, professore al Worthsmith College dell'immaginaria cittadina americana di New Wye, sta ultimando un poema in cui i ricordi d'infanzia si mescolano a interrogativi metafisici sull'"osceno, inammissibile abisso" della morte, che incombe ossessivamente sul poeta dopo che la giovane figlia si è uccisa gettandosi in un lago. Tuttavia Shade sigla gli ultimi versi del poema con un'ironica ma serena dichiarazione di fiducia: si vive in qualche luogo anche dopo la fine, e l'armonia dell'arte ne costituisce la tacita promessa. A questo punto nel quieto scenario di New Wye irrompe, inaspettata, proprio la morte: uno sconosciuto spara a Shade in strada, pochi istanti dopo che ha scritto il suo ultimo verso.
In che senso la guerra cominciata in Afghanistan si possa definire nuova non è chiaro. Dagli schermi televisivi o sulle pagine dei giornali è parso piuttosto di assistere alla replica di un copione collaudato che prevede un'alternanza di immagini stereotipe e leggende talvolta risibili. Siamo di fronte a una regia anonima quanto sapiente che veicola un contenuto di informazione prossimo allo zero. Ma le cose cambiano se ci si sposta sul terreno di battaglia, come ha fatto per due mesi Tim Judah inviando alla "New York Review of Books" i quattro lunghi reportage che compongono questo libro.
Questo libro è il romanzo, intessuto di ricordi, rimpianti, incontri casuali, telefonate nella notte, dolorose rivelazioni, di una giovinezza e delle amicizie perdute. Il piccolo Mordecai Richler di sabato non poteva accendere o spegnere la luce, rispondere al telefono o ascoltare la radio. Nei giorni che precedevano lo Yom Kippur faceva roteare una gallina sopra la testa per scaricare sull'animale terrorizzato tutti i peccati dell'anno trascorso. A tredici anni, quando ormai è diventato un "apikoros", un miscredente, si converte alla fede laica, socialista e sionista degli Habonim, ansiosi di approdare quanto prima in Palestina e fondarvi uno stato ebraico. Alla fine Richler non emigrerà nella Terra Promessa. La visiterà due volte.