
Il testo della Storia di San Cipriano non e' stato tramandato nella sua interezza: la parte iniziale, rinvenuta e pubblicata solo nel 1982, viene qui per la prima volta ricongiunta a quella centrale, a stampa sin dalla meta' dell'Ottocento.
Sul finire degli anni Venti, in un indolente pomeriggio di primavera, una giovane ereditiera americana, che ospita nella sua casa di campagna in Francia un amico, scrittore fallito e io narrante, riceve la visita dei Cullen, perfetti esemplari, si direbbe, "di quella agiata genia britannica che infesta il mondo intero col suo eccesso di energia e di toni pacati". Sofisticati, blasé, gelidamente socievoli, i Cullen sembrano nutrire per se stessi e per ciò che li riguarda una passione debordante. Sul polso, Mrs Cullen regge un falcone incappucciato. Ieratico e solitario, feroce e insieme minato da una brama tormentosa, il falcone diviene il catalizzatore degli eventi di un pomeriggio brioso che inclina ben presto alla tragedia e alla catastrofe.
Irène Némirovsky non soltanto racconta la parabola del potentissimo banchiere ebreo il quale, malato, caduto in rovina e abbandonato da tutti, si lancia in un'estrema avventura che gli permetterà forse di ridiventare ricco, ma tratteggia senza indulgenza il mondo frivolo, scintillante e fasullo dei nuovi ricchi che svernano a Biarritz, il loro patetico snobismo, le loro case arredate con sfarzo pacchiano, i loro scalcagnati gigolo che ostentano blasoni più che offuscati. Per gusto della sfida, per noia e per amore di una figlia che forse non è neppure sua, il vecchio giocatore cinico e disincantato si metterà in viaggio ancora una volta - e sarà l'ultima.
Anni Venti. Una banda variopinta di esemplari della jeunesse dorée inglese, che il ricchissimo e affascinante Max ha invitato a sue spese a una partita di piacere in Francia, si è data appuntamento alla stazione. Un topos classico della narrativa: ma "questo libro non somiglia a nessun altro" avverte Tim Parks nel saggio che lo accompagna. Una fitta nebbia gravita sulla stazione e sulla storia; una materia grigia che pervade tutto in modo subdolo, provocando scompiglio e disorientamento. Henry Green, "maestro del sottinteso" oltre che "santo del mondano", coglie le sfumature del parlato perforando, nelle quattro ore in cui si svolge la vicenda, le pareti della coscienza, anche quella di classe, così peculiare della società britannica.
La letteratura classica nasconde alcune gemme che, per circostanze varie, non sono conosciute in maniera adeguata. In questo breve scritto, dedicato al commento di alcuni versi dell'"Odissea" sull'antro dove Odisseo nascose i ricchi doni dei Feaci, si trova la condensazione, nel minimo numero di parole, della sapienza simbolica dell'antichità classica. Quell'antro, spiega subito Porfirio, non si trova a Itaca né in alcun altro luogo. Quell'antro è geroglifico del mondo stesso, un'ostensione figurata della vita e della morte.
Sedici punti annotati su un taccuino engadinese: il profilo di un fenomeno su cui il mondo continua a interrogarsi.
Ancora oggi le schegge che compongono la raccolta dei Detti colpiscono con sorprendente precisione. Schegge le quali, tutte insieme, restituiscono un ritratto di Confucio che è fonte di stupore ininterrotto, ben diverso dall'immagine convenzionale che fu creata e venerata nel corso dei secoli, con l'accortezza di neutralizzare al tempo stesso il potenziale sovversivo dei suoi insegnamenti.
La scoperta della doppia elica del DNA nel 1953, cui Watson lavorava da anni, suggeriva la soluzione di due fra i più antichi misteri della biologia: l'archiviazione e la replicazione dell'informazione ereditaria. La doppia elica portava fin dentro la cellula una visione unitaria del mondo biologico e del mondo inanimato e, nella confusa complessità della biologia e nella sterminata varietà delle forme viventi, Watson introduceva un elemento materiale unificante e una nuova chiave interpretativa. Il cinquantenario della rivoluzione del DNA ha coinciso con la pubblicazione della prima sequenza del genoma umano e ciò ha offerto allo scienziato inglese l'occasione per una magistrale lettura della sua storia e dei suoi problemi.
Per anni, quando i suoi viaggi erano soprattutto quelli del filobus romano 62, da via Nomentana a piazza San Silvestro, Manganelli coltivò un sogno temerario: spingersi sino alle isole Faeròer. Nel 1978, vincendo timori e angosce, con una valigia munita di tutto quanto un "frequent flyer" giudicherebbe forse inessenziale - un Dickens come amuleto e "blande mani chimiche" che sappiano coccolare nei momenti difficili -, lo scrittore partì alla volta dell'arcaica Islanda, prima tappa della sua incursione nel grande Nord. E l'esito di quel viaggio è questo reportage: lo sguardo del traveller sembra capace di svelare la segreta essenza dell'"isola pianeta", dove il mondo è preumano, folle e criptico.
Il delitto seriale perfetto è possibile. Basta prendere una città in cui violentare, torturare e uccidere donne, preferibilmente giovani e immigrate dalle miserabili campagne circostanti. Quindi occorre assicurarsi la complicità della polizia, che si occuperà di depistare sistematicamente le indagini su alcuni presunti psicopatici. E infine bisogna muovere tutti i pezzi della scacchiera in modo tale che il governo non interferisca, e le multinazionali per cui le vittime nella maggior parte dei casi lavoravano non facciano domande. È possibile che una storia così concepita suoni troppo oliata e impeccabile per essere una finzione. E infatti è vera, fin nei minimi e raccapriccianti particolari.