Che la Qabbalah sprigioni un fascino difficilmente spiegabile è fuori di dubbio: chiunque entri in contatto con essa si sente interpellato, come se quelle oscure dottrine non aspettassero altri per sciogliere gli antichi nodi dell'irradiazione divina. Un fascino cui non hanno potuto sottrarsi molti lettori cristiani - da Giovanni Pico della Mirandola ai platonici rinascimentali, da Knorr von Rosenroth a Isaac Newton, dagli alchimisti ai «fratelli muratori» -, che con i dogmi segreti della mistica ebraica hanno avvertito una profonda affinità. Massimo studioso della Qabbalah, Gershom Scholem non ha mancato di dire la sua su questa robusta corrente del pensiero europeo. Persuaso com'era che la Qabbalah fosse la quintessenza dell'ebraismo, Scholem ha tentato di denunciare la sua versione cristiana come illegittima, frutto di un malinteso o di una frode, giungendo tuttavia a riconoscere, alla fine della vita, che la passione per quegli insegnamenti esoterici era stata accesa in lui proprio dalla lettura di un cabbalista cristiano. E così, nei tre illuminanti saggi qui raccolti, non solo troveremo una storia di quel pensiero sotterraneo, ma potremo anche scorgere in filigrana una riluttante autobiografia.
Nel romanzo di Sarban "Il richiamo del corno", un ufficiale della Marina britannica sperimenta l'incubo di risvegliarsi in un mondo nazificato, dove i prigionieri-schiavi sono selvaggina per la caccia di un feroce sovrano: un'allarmante rappresentazione della storia come avrebbe potuto svolgersi - o ucronia, come l'ha definita nel 1876 Charles Renouvier. Che nasca dal rimpianto o dalla ribellione, da un credo filosofico-religioso o dall'attrazione per gli infiniti possibili, ogni opera ucronica è destinata a falcidiare certezze, a dinamitare la nostra visione del mondo, giacché insinua il dubbio che la storia sia un gigantesco trompel'oeil e che anche la più confortante realtà possa di colpo vacillare, spalancando abissi angosciosi. A questo sovversivo genere letterario, cui lo lega una tenace passione, Emmanuel Carrère ha dedicato una seducente riflessione che, oltre a ripercorrerne le tappe salienti, ne addita le sconcertanti implicazioni: i regimi totalitari non hanno del resto adottato la tecnica ucronica per imporre una storia controfattuale? Ma c'è di più: proprio quando sembra rivestire i panni del teorico sottile e distaccato, Carrère ci trascina nel laboratorio da cui sono nati "I baffi" e "L'Avversario", dove vite parallele e alternative sgretolano quella fragile costruzione che è la nostra identità. E ci svela che, dalle più innocenti rêverie retrospettive fino alle devianze che sogniamo o paventiamo, l'ucronia è sempre dentro di noi.
Nella «vita precedente» a quella che lo avrebbe eletto massima autorità sul Covid-19 - pandemia di cui sarebbe diventato l'involontario profeta - David Quammen è stato anche, se non soprattutto, un avventuriero audace e insieme scanzonato. E, in quella veste, autore di una serie di memorabili reportage per «National Geographic», che nell'arco di vent'anni lo hanno portato nei luoghi più riposti (e spesso meno affabili) del pianeta: dall'«abisso verde» di paludi del Congo alle giungle impenetrabili del Gabon, fino alla Patagonia e alla Kamcatka. Scritti con taglio e stile memori dell'amato modello faulkneriano, quei reportage sono vere immersioni visionarie, non di rado esilaranti, nella «natura selvaggia» e nella sua abbagliante - ma ogni giorno più precaria - esibizione di biodiversità. Alcune regioni di questo tour de force sono già familiari ai lettori di altri libri di Quammen, a cominciare da Spillover. Qui, però, l'esotismo allucinato e la fauna variegata di quei luoghi non sono inquadrati come «serbatoi di terrore» nella nostra problematica convivenza coi virus; piuttosto, come un labirinto di delicati ecosistemi, sempre più minacciati dall'invadenza antropica. Questo libro si presta dunque a essere letto in molti modi: come «una serie di dispacci da una battaglia all'ultimo sangue» - la battaglia per il futuro della diversità biologica sul nostro pianeta - travestita da romanzo di avventure, o viceversa. Ma anche come un invito a risintonizzare il nostro battito cardiaco con quello nascosto nelle vastità dimenticate della natura di cui siamo parte. Dopotutto, scrive Quammen, è ancora possibile, basta restare in ascolto.
Le lettere di Kafka a Felice Bauer raccontano qualcosa di più di un'impossibile storia d'amore: Elias Canetti se ne rese conto nel 1967 leggendone una selezione sulla «Neue Rundschau», e immediatamente si accordò con l'editore della rivista per pubblicare un saggio sull'argomento. Fu l'inizio di un corpo a corpo, dove l'interpretazione chiamava in causa la vita dell'autore - la sua persona fisica, la magrezza, l'ipocondria, l'ossessione per la notte e il silenzio - e insieme quella dell'interprete. L'esito di tale scontro fu L'altro processo, che irritò per la spregiudicatezza con la quale Canetti riconduceva l'opera di Kafka (e la più ermeticamente sigillata, Il processo) alla sua biografia (la rottura del fidanzamento con Felice) - proprio lui che aveva sempre lottato perché quell'opera venisse presa alla lettera. Grazie agli appunti preparatori, molti dei quali inediti, qui raccolti insieme ad altri saggi e conferenze su Kafka, possiamo immergerci per la prima volta in quel «processo» di avvicinamento, fatto di violenze, fughe e sottomissioni, quasi ci trovassimo di fronte alla descrizione di una battaglia sovrapposta a una confessione cifrata. «Non credo che vi siano persone la cui condizione interiore sia simile alla mia, o almeno posso immaginarmi tali persone, ma che attorno alle loro teste voli continuamente il corvo segreto come attorno alla mia, questo non riesco neppure a immaginarlo» annotò una volta Kafka nei suoi Diari. Oggi, leggendo finalmente nella loro totalità queste pagine, possiamo dire che si sbagliava.
«Che cosa me ne faccio, ora, della mia vecchia vita, del mio lavoro ostinato e prezioso, di gioie e delusioni, dei miei pensieri, delle pagine che ho scritto?» si chiede Sergej Bogarëv mentre percorre il fronte nell'agosto del 1941, i tedeschi avanzano e le truppe sovietiche inesorabilmente retrocedono. È «una guerra mai vista prima», quella che si è abbattuta sul suo paese; una guerra che l'ha strappato all'insegnamento del marxismo e trasformato in commissario politico di un battaglione che, nel tentativo disperato di rallentare l'offensiva nazista, si ritroverà isolato oltre le linee nemiche; una guerra che per lui - come per tutti gli altri protagonisti del romanzo - segna una cesura netta e irreparabile. «Il popolo è immortale, la sua causa è immortale. Ma non si può risarcire la perdita di un uomo!» scriverà Grossman poco dopo la fine della guerra. E così, pur desideroso di infondere in chi combatteva ottimismo e coraggio, ci racconta i primi mesi dell'invasione tedesca - antefatto di "Stalingrado" e "Vita e destino" - attraverso pagine dure, che dipingono la distruzione e le disfatte, i pensieri dei soldati, la marcia dei contadini nella notte, sotto le "scie rosse dei proiettili traccianti che strisciavano lente verso le stelle», i campi e i boschi sottratti a chi ne conosceva da sempre ogni segreto e il vano eroismo di uomini semplici mandati a fronteggiare «l'esercito più forte d'Europa». Pagine di un 'romanzo sovietico', ma così audaci da abdicare a ogni ligia ortodossia. E, come sempre in Grossman, attraversate da un soffio epico che le trasforma in grande letteratura.
È l'autunno del 1926 quando Israel Joshua Singer, su invito del direttore del «Forverts» - quotidiano yiddish di New York -, si reca in Unione Sovietica per un reportage che lo impegnerà diversi mesi. «Queste immagini e impressioni sono state scritte di getto, sul momento, come accade nei viaggi» dirà, non senza understatement, a commento del suo lavoro, che invece costituisce una testimonianza eccezionale, per molti versi unica. Perché Singer, che aveva osservato a fondo il paese dei soviet già nel pieno della tempesta rivoluzionaria, non solo ci mostra ora uno scenario drasticamente mutato, ma coglie in nuce, con occhio penetrante, quelli che saranno i tratti peculiari del regime staliniano: la burocrazia imperante, la pervasività dell'apparato poliziesco, gli ideali comunisti sempre più di facciata, i rigurgiti antisemiti. Percorrendo le campagne bielorusse e ucraine punteggiate di fattorie collettive e colonie ebraiche, visitando le principali città del paese - Mosca, «grande, straordinaria e bellissima»; Kiev, che «non riesce ad accettare il nuovo ruolo di città di provincia»; Odessa, «cortigiana esuberante» divenuta «profondamente osservante e devotamente socialista» -, immergendoci in una prodigiosa polifonia di testimonianze, Singer ci restituisce un quadro vivido e composito, pieno di chiaroscuri, della nascente società sovietica. E porta così alla luce le feroci contraddizioni che proliferano sotto lo sguardo vigile e ubiquo delle nuove icone laiche del «santo Vladimir».
«Nella nostra anima c'è qualcosa a cui ripugna la vera attenzione molto più violentemente di quanto alla carne ripugni la fatica. Questo qualcosa è molto più vicino al male di quanto lo sia la carne. Ecco perché ogni volta che si presta veramente attenzione si distrugge un po' di male in se stessi. Un quarto d'ora di attenzione così orientata ha lo stesso valore di molte opere buone. L'attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all'oggetto, nel mantenere in se stessi, in prossimità del pensiero ma a un livello inferiore, e senza che vi sia contatto, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare. Nei confronti di tutti i pensieri particolari già formati, il pensiero deve essere come un uomo in cima a una montagna che, guardando davanti a sé, al tempo stesso percepisce, pur senza guardarle, molte foreste e pianure sottostanti. E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non deve cercare alcunché, ma essere pronto ad accogliere nella sua nuda verità l'oggetto che sta per penetrarvi» (Simone Weil)
«L'universo non cambia molto nell'arco di una vita umana, ciò che sappiamo dell'universo invece sì». Di questo adagio è un esempio eclatante la vicenda biografica di Pontzen, che, irresistibilmente attratto dall'astronomia sin dall'infanzia, è oggi uno degli specialisti più autorevoli nel campo delle «simulazioni» cosmologiche, elaborate con supercomputer sempre più sofisticati. Muovendo dalla inattesa e sorprendente continuità tra «proiezioni» meteorologiche e cosmologiche, Pontzen ci guida lungo le tappe cruciali della scienza previsionale: ci porta per esempio nell'«imponente edificio in arenaria rossa» dello Smithsonian Institution, «il Castello» neogotico di metà Ottocento dove il direttore, Joseph Henry, deliziava gli ospiti predicendo i temporali su Washington. E illumina, attraverso quelle stazioni di avvicinamento, ogni risvolto delle simulazioni cosmologiche in corso: l'avanguardia delle macchine (delle «scatole»), tra inedita potenza di calcolo, risoluzione sempre più alta e miglior conoscenza delle «condizioni iniziali»; la «ricetta eclettica» sottostante a ogni ricerca («parti uguali di fisica consolidata, trucchi computazionali e adattamento a ciò che è già noto»); e, soprattutto, il modo in cui vengono ridefinite «sostanze» elusive come la materia e l'energia «oscure», responsabili rispettivamente della rotazione delle galassie e dell'espansione dell'universo, al punto da risultare centrali nella «storia» qui delineata. Quella storia, cioè, «che unisce i puntini tra i primi istanti dell'universo, la ragnatela cosmica dalle dimensioni inimmaginabili, e le galassie, le stelle e i pianeti che la abitano».
«Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo?». Ad Alain Poitaud, direttore appena trentaduenne di un settimanale di enorme successo, bastano poche ore per smettere di essere l'uomo che è stato e «diventare un altro». Accade in una piovosa sera di ottobre, allorché, tornando a casa per cambiarsi in vista di una cena in compagnia della moglie Jacqueline e della piccola corte di cui è solito circondarsi, trova ad aspettarlo davanti al portone un ispettore della Polizia giudiziaria. Poco dopo, al Quai des Orfèvres, si sentirà dire che Jacqueline ha ucciso la sorella minore, Adrienne, con un colpo di pistola, chiudendosi poi in un mutismo assoluto. La stampa ci metterà poco a scoprire che con Adrienne, per parecchi anni, Alain è andato a letto regolarmente, e parlerà di «dramma della gelosia», ma lui - l'uomo cinico, superficiale, mondano, il donnaiolo incallito sempre pronto a fare dell'ironia - comincerà a chiedersi quale sia stato il vero motivo di quel gesto. E mentre la polizia conduce la sua indagine, si interrogherà su quella giovane donna accondiscendente e discreta (tanto che fin dall'inizio l'ha chiamata Micetta), che ha sposato quasi per gioco, che gli è sempre stata accanto senza chiedere niente - ma, soprattutto, in un crescendo di smarrimento e di angoscia, si interrogherà su se stesso.
Nell'ottobre del 1945 Georges Simenon sbarca a New York, ansioso di lasciarsi alle spalle le turbolenze degli anni di guerra, le accuse di collaborazionismo e le minacce di epurazione. Con la moglie Tigy e il figlio Marc si stabilisce in Canada, nel Nouveau-Brunswick - ma è agli Stati Uniti che guarda. E, per conoscere meglio il paese dove comincerà una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di cinquemila chilometri, che dal Maine lo porterà sino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Ad attirarlo, come sempre, non sono le città - anche se confesserà che a New York si sente perfettamente a suo agio -, ma la gente e «i piccoli particolari della quotidianità»: tutto ciò che può offrire ai suoi lettori «un'immagine più intima» degli Stati Uniti. Lui che aveva sempre captato, ovunque nel mondo, un disperato e insoddisfatto bisogno di dignità, finirà per essere conquistato dalla «forte tensione verso l'allegria e la gioia di vivere» che sprigionano le semplici ed essenziali case americane, dalla cordialità (o meglio: la familiarità) che regola i rapporti di lavoro, dalla fiducia in sé stessi che le scuole sanno inculcare negli studenti, dalla squisita cortesia degli abitanti del Sud - che nelle relazioni mettono «quel qualcosa di impercettibile e affascinante» che rende tanto preziosa l'esistenza - e scoprirà che proprio qui, nella sua nuova patria, vige «un tipo di vita che... tiene conto più di qualsiasi altro della dignità dell'uomo». Traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio. Con una Nota di Ena Marchi.