
Questo libro segna l'ingresso in una regione dai confini oscuri dove il principio del terzo escluso perde la sua sovranità e, in forme e opere, si delinea l'idea di un universo come rete, composta da fibre infinite, innervata da una trama di rapporti impercettibilmente prossimi l'un l'altro, da nessuno intessuta, universale modello senza Creatore e senza Legislatore o Mente che lo regoli, ma organismo che opera secondo un ordine proprio, da nessuno impartito.
Mentre da ogni parte vengono a cadere, o per lo meno oscillano pericolosamente, i presupposti di ogni legge, il pensiero tende sempre più a concentrarsi, in ogni ambito, sulla Legge stessa. È questa una condizione al tempo stesso originaria e cronica del Moderno: qualcosa che sembra sempre succedere per l'ultima volta e invece continua a succedere ogni giorno.
Massimo Cacciari ha posto al centro di questo libro tale situazione paradossale e sfuggente, all'interno della quale tuttora viviamo. E, all'interno del nostro secolo, ha isolato, negli ambiti più diversi, dalla riflessione matematica (Brouwer) a quella giuridica (Schmitt), dalla pratica letteraria (Kafka) a quella pittorica (Malevic, Mondrian, Klee), dal pensiero artistico (Florenskij sull'icona) a quello religioso (Rosenzweig), alcuni casi esemplari di quell'ostinato cozzare contro la stessa parola: Legge. Ma non si tratta qui di scoprire influenze nascoste o contatti.
L'ambizione è ben più radicale: ogni volta si individuano sconcertanti isomorfismi fra gesti di pensiero che appartengono a regioni lontane. E così anche repliche e opposizioni trasversali. Si comincerà dal contrasto irriducibile fra il Nomos di Carl Schmitt, legato a un territorio e radicato in esso, e la Legge di Franz Rosenzweig, che impone un perpetuo esodo ed esilio da tutto ciò che è ancorato a una terra. In quel contrasto si danno già i termini che risuoneranno poi in tutto il libro. Ma il centro non può che essere Kafka. E qui, sottoponendo a un'analisi serratissima i testi (e soprattutto l'impianto stesso del Processo e del Castello), Cacciari è riuscito in un'impresa davvero improbabile: dire qualcosa di nuovo su Kafka. Da questo centro si irraggiano le fila di altri capitoli, tesi ogni volta a mostrare di quali ordini, di quali straordinarie decisioni sia capace una condizione, come quella nostra, sottratta a ogni presenza e affermabilità della Legge.
Immane Atlantide sommersa, le quasi duemila pagine dei Textos recobrados - recuperati e radunati dopo la scomparsa di Borges - rivelano le molteplici linee di forza di una riflessione critica di sconcertante novità. Rispetto ai fervori iconoclasti degli anni Venti (documentati in Il prisma e lo specchio, 2009), si colgono qui, già a partire dai primi anni Trenta, una tonalità e nuclei di pensiero e di interesse del tutto inediti: l'inconsistenza dell'io, giacché una persona «non è altro che ... la serie incoerente e discontinua dei suoi stati di coscienza» e «la sostanza di cui siamo fatti è il tempo o la fugacità»; la letteratura poliziesca, che riesce a conciliare «lo strano appetito d'avventura e lo strano appetito di legalità»; le immagini dell'incubo, «la tigre e l'angelo nero del nostro sonno», disseminate nella letteratura da Wordsworth a Kafka; il gaucho, «amato territorio del ricordo» e «materia di nostalgia»; il tramonto del concetto di testo definitivo, che «appartiene alla superstizione e alla stanchezza»; la rivelazione che Buenos Aires, un tempo oggetto di caparbie trasfigurazioni poetiche, può essere descritta solo «per allusioni e simboli». Ma quel che più affascina è la perfetta architettura di questi scritti, capaci, quale che sia l'argomento prescelto, di espandere il nostro orizzonte (talora con un semplice inciso: «Nel mondo immaginato da Walpole, come in quello degli gnostici siriani e in quello di Hollywood, c'è una guerra continua tra le forze del male e quelle del bene») e di ravvivare il dialogo fra due interlocutori che «lo scorrere del tempo avvicina e allontana, ma non separa»: il testo e il lettore.
«Antonio Damasio è un pensatore profondo e uno scrittore raffinato ... "L'errore di Cartesio" è un'esplorazione affascinante della biologia della ragione e del suo legame inscindibile con le emozioni». (Oliver Sacks)
Queste lezioni - qui pubblicate in italiano per la prima volta sulla base degli appunti di Alice Ambrose e Margaret Macdonald - sono essenziali per comprendere l'evoluzione delle idee di Wittgenstein, in particolare la lenta transizione dalla visione logicizzante del linguaggio che permeava il Tractatus a quella pragmatico-antropologica che dominerà le Ricerche filosofiche. La vivida testimonianza del suo pensiero in divenire, tuttavia, non esaurisce i motivi d'interesse di queste pagine, che ci offrono anche un punto di vista privilegiato su temi cruciali - e ancora oggi controversi - della filosofia del linguaggio novecentesca, come la critica dell'identificazione del significato di un'espressione linguistica con il suo riferimento, o il riconoscimento della dimensione intrinsecamente normativa della nozione di significato. Perno attorno al quale ruotano tutte le minuziose discussioni di Wittgenstein sono le sue convinzioni metafilosofiche: la concezione dell'origine e della natura dei problemi della filosofia, ricondotta alle confusioni che il linguaggio stesso genera; e l'individuazione degli obiettivi appropriati e dei metodi dell'analisi filosofica, radicalmente contrapposti a quelli delle scienze. Scopo della «buona» filosofia, ribadisce Wittgenstein ancora una volta, è infatti la chiarificazione dei pensieri - condizione necessaria non tanto per risolvere i tormentosi problemi della filosofia, quanto, più semplicemente, per dissolverli.
«La mia ombra è come un buffone / dietro la regina...» ha scritto la Szymborska, un buffone che si è preso «corona, scettro, manto regale», ma anche il «pathos». La gravità, la profondità esigono lo schermo della discrezione, della leggerezza giocosa, dell'ironia. Non a caso, in questa strepitosa silloge di testi inediti - fortunatamente sfuggiti al cestino della carta straccia, per la Szymborska la più utile suppellettile di un poeta -, la sua musa, quando si manifesta, sembra arrancare «per le scale, ansimante / ... in scarpette ormai misere», ispirandole una sorta di metafisica del minimo: in particolare una toccante sintonia con gli oggetti, protagonisti fra l'altro di dieci favolette morali irridenti e beffarde. Eppure la musa della Szymborska è anche austera, intransigente, e non esita a metterci di fronte alla nostra fragilità, alle nostre assurde fedi: solo, lo fa a modo suo, trasformando per esempio l'insignificante congiunzione e nell'emblema di tutto ciò che non può durare in eterno: «Teresa Piotr, mi fate compassione, / nella selva del mondo il tempo a ogni occasione / accende come a San Giovanni un fuoco / e voi dovete scavalcarlo per gioco. ... ditemi quali sono i vostri nomi. Teresa e Kazimierz. / Piotr e Weronika. // Teresa Kazimierz Piotr Weronika».
«Negli ultimi tempi aveva un modo particolare di guardarsi allo specchio dietro le bottiglie. Quando un uomo come lui comincia a scrutarsi negli specchi, mi creda, non è un buon segno». Una riflessione, questa del padrone del bistrot dove il suo amico Bob, morto da pochi giorni, andava a giocare a carte, che colpisce profondamente il dottor Charles Coindreau. Non appena ha saputo che quella di Bob non è stata una morte accidentale, come sulle prime si credeva, bensì un suicidio, ha deciso di condurre una sorta di indagine, e di interrogare chiunque l'abbia conosciuto, a cominciare dalla moglie e dall'ultima delle numerose amanti. Perché lui, come tutti, ma più di tutti gli altri, si arrovella sul motivo che ha indotto a togliersi la vita uno come Bob: sempre allegro, e allegramente sfaccendato, sempre pronto alla battuta, gran giocatore di belote e gran consumatore di «bianchini» a qualunque ora del giorno - non per caso lo avevano soprannominato il Grande Bob. Nella casa di Montmartre dove abitava insieme alla sua polposa, esuberante, forse un po' volgare ma radiosa moglie Lulu, la porta era sempre aperta, e vi si potevano incontrare persone di ogni estrazione sociale, e «ognuno era libero di comportarsi o di parlare a suo piacimento, con la certezza di non scandalizzare nessuno». Così come nessuno si scandalizzava del fatto che Lulu accettasse i tradimenti di Bob: le bastava che lui fosse felice. Scavando nel passato dell'amico, immergendosi nei lati oscuri di un uomo che a tutti sembrava l'immagine stessa della gioia di vivere, e persino, a volte, sovrapponendosi a lui, Coindreau finirà per scoprire la verità sulla morte di Bob - ma soprattutto qualcosa su sé stesso.
Come fa una giovane donna di appena trent'anni, qual era all'epoca Irène Némirovsky, a scavare così profondamente nell'animo umano? si chiese Bernard Grasset, il suo primo editore, leggendo questi racconti. Come fa a capire, e a descrivere in modo così empatico e al tempo stesso spietato, non solo le lusinghe e le illusioni della giovinezza, ma anche la nostalgia degli amori perduti, il rimpianto delle vite non vissute, l'acredine delle esistenze sbagliate, le ferite dell'ambizione frustrata, l'angoscia della solitudine, lo sgomento per i segni che lascia sul corpo il passare degli anni, la ferocia che si annida nel cuore degli uomini? Le prove giovanili di Némirovsky continuano a riempirci di stupore non meno di quelle della maturità: le quattro «scenette», per cominciare, di sapore quasi lubitschiano, dove due aspiranti attricette di incantevole amoralità mettono in opera comici e insieme patetici tentativi di trovare un uomo molto ricco che le mantenga; i tre «film parlati» - in realtà vere e proprie narrazioni, condotte con la mano sapiente di uno sceneggiatore navigato, in grado di dare indicazioni su inquadrature, stacchi, dissolvenze, montaggio; gli struggenti "Una colazione in settembre" e "Le rive felici"; il truculento affresco finlandese dei "Fumi del vino"... Fino al sorprendente "I giardini di Tauride", che appare qui in volume per la prima volta, e che, costellato di appunti in cui Némirovsky riflette sulla forma stessa del racconto, ci consente di gettare un'occhiata indiscreta nel suo laboratorio.
«Perché un corpo sia stabile è necessario che abbia almeno tre punti d'appoggio» dice uno dei protagonisti di questo romanzo, che George Steiner considerava il capolavoro di Bernhard e «fra i più importanti del Novecento». I tre punti d'appoggio sono qui l'anonimo narratore, il taciturno imbalsamatore Höller e soprattutto Roithamer, docente di scienze naturali a Cambridge, cui la figura di Wittgenstein presta più di un dettaglio biografico. Con lucida ostinazione Roithamer ha realizzato nel centro esatto della foresta del Kobernausserwald, dove lui e la sorella, la sola persona che abbia amato, sono cresciuti, un temerario progetto architettonico - un cono perfetto, utopistica dimora felice - che lo ha prosciugato di ogni energia. Alla sua morte Höller invita il narratore nella soffitta della casa dove abita, nel punto più impervio di una gola: lì, nel fragore assordante del fiume che si getta fra le rocce, Roithamer si era ritirato per lavorare al cono, lì sono conservati i suoi libri e le sue carte, fra cui un manoscritto ossessivamente riveduto e corretto. Sullo sfondo di una natura ostile e insieme familiare, la voce di Roithamer si intreccia alle parole e ai silenzi dei due amici, mentre la scrittura di Thomas Bernhard ci sospinge implacabile fino ai limiti estremi del pensiero, fino all'ultima correzione - quella che, nel tentativo di emendarla, estingue l'esistenza stessa.
Inaudita e ingannevole è la presenza di Dioniso, il nemico dei tessitori, il dio che scioglie e dissolve, «la cui manifestazione trascina gli umani alla pazzia». Attraverso pagine dense e affascinanti, Otto ci conduce alla scoperta di un dio straordinario, e, come già Nietzsche prima di lui, si fa esegeta della complessità dionisiaca per cristallizzare quell'irriducibile singolarità che è stata la forma greca del divino. Da semplice opposto della ragione, l'irrazionale assume nella lettura di Otto l'aspetto di Dioniso stesso, in cui la contraddizione è duplicità sensibile e piena di senso. E in quella che emerge come tesi portante, fra le più sorprendenti, del libro, Dioniso si rivela un dio genuinamente greco - non proveniente dall'Asia Minore come spesso ipotizzato -, dunque piena espressione di quel «divino grecamente sperimentato» che, secondo Otto, rappresenta «un'eccezione nella storia dell'umanità».
Nella primavera del 1928 Georges Simenon (che ha appena compiuto venticinque anni e ne ha già abbastanza della vita mondana che conduce a Parigi) si compra una piccola barca, la Ginette (lunga quattro metri e larga poco più di uno e mezzo), e parte, in compagnia della moglie Tigy, della domestica (e ben presto amante) Boule e del cane Olaf (un danese sui sessanta chili), per un viaggio attraverso i fiumi e i canali della Francia che durerà ben sei mesi: durante i quali gli capiterà di dormire sotto una pioggia sferzante, o di sguazzare nel fango, o di cercare di arrivare davanti alle chiuse prima delle grandi chiatte tirate dai cavalli, o di manovrare tra rocce a pelo d'acqua... Tre anni dopo, il settimanale «Vu» gli commissionerà quello che diventerà il suo primo reportage: insieme a un giovane fotografo di origine ceca, Hans Oplatka, Simenon ripercorrerà, in macchina questa volta, la «vera Francia», e tornerà a casa con un bottino di duecento fotografie. Solo una decina illustreranno, su «Vu», il racconto dell'esaltante navigazione a bordo della Ginette, ma in questo volume il lettore ne troverà molte di più; e scoprirà che senza quell'«avventura tra due sponde» non esisterebbero romanzi come Il cavallante della «Providence», La balera da due soldi, La chiusa n. 1 - per non parlare di tutte le locande in riva a un fiume dove il commissario Maigret, nel corso di un'inchiesta, va talvolta a trascorrere un paio di giorni, occasionalmente in compagnia della sua signora, fingendo a malapena di essere lì per rilassarsi.