
Per riscoprire la fede cristiana nella sua qualità originaria, liberatrice e creativa, è necessario tornare alle sorgenti, dando voce a testimoni, i “padri”, che hanno vissuto un’autentica esistenza cristiana, una vita cioè trasfigurata dalla dinamica di resurrezione che Gesù Cristo incarnato, per l’amore e la condiscendenza di Dio, ha immesso nel mondo. È importante far percepire agli uomini e alle donne di oggi che il cristianesimo è filocalia, via di amore del bello, vocazione a fare della propria vita un capolavoro di amore. L’autore, un attento conoscitore e un amante del pensiero dei padri, ci presenta le sue riflessioni commentando i testi antichi e permettendoci di coglierne la particolarità, le bellezze a volte nascoste, il nesso profondo con la Scrittura e con l’insieme del pensiero cristiano.
Olivier Clément (1923-2009) si augurava che questo testo potesse narrare, grazie alla voce dei padri, l’essenziale di tutta la sua vita e del suo insegnamento: “Vorrei continuare a narrare il mio amore per gli uomini, segno dell’amore che Cristo ha per loro”. Nato e cresciuto in un ambiente ateo, accostatosi al cristianesimo da adulto, è stato uno dei testimoni più significativi dell’ortodossia in occidente nella seconda metà del xx secolo e uomo spirituale tra i più credibili dell’intero panorama ecumenico. Ha dedicato gran parte della sua vita alla ricerca per facilitare l’incontro tra oriente e occidente cristiani. Tra le sue opere le nostre edizioni hanno pubblicato Pregare il Padre nostro, Occhio di fuoco, Il potere crocifisso, Le feste cristiane e I volti dello Spirito.
“Gli Atti degli apostoli non intendono raccontare la ‘vita di Gesù’, né la storia della chiesa o la vita di santi come Pietro, Stefano o Paolo, l’attore principale è infatti Dio stesso che agisce attraverso le varie figure umane delle quali si parla ... La vera preoccupazione dell’autore è quella di spiegare come l’annuncio del Regno, iniziato da Gesù, continua dopo l’Ascensione fino a raggiungere noi e questo annuncio ci perviene tramite la chiesa che il Cristo ha istituito come testimone perché annunci dovunque e in tutti i tempi la gioiosa notizia del Regno”.
(dalla “Premessa” di Daniel Attinger)
Daniel Attinger (Neuchâtel 1943), monaco di Bose e pastore riformato, vive da trent’anni nella Fraternità di Bose a Gerusalemme, dove esercita anche un ministero di predicazione biblica. Presso le nostre edizioni ha già pubblicato Parlare di Dio o parlare con Lui?, commento esegetico-spirituale al libro di Giobbe, e i commenti alla Lettera agli Efesini, alla Lettera ai Colossesi e alla Lettera di Giacomo.
“Non sono sicuro di credere in Dio: però lo amo.
E, per non amare un’idea di Dio,
provo ad amare coloro che mi stanno accanto”.
Dio è sempre al di là delle immagini e delle parole con cui gli uomini cercano di rappresentarlo; è un Dio nascosto, che si può conoscere ma non “sapere” fino in fondo. Eppure, per evocarlo, l’uomo ha bisogno di “dirlo”, e il modo in cui lo racconta non è indifferente: un Dio falsato porta a una falsa visione della vita. Come discernere, allora, tra le diverse rappresentazioni di Dio? Con un linguaggio semplice e chiaro, l’autore indica e approfondisce un criterio fondamentale: ogni descrizione di Dio che va contro l’uomo e la sua vita, che lo sminuisce o lo distrugge è falsa. Un Dio per l’uomo e degno di lui, infatti, non può essere altro che colui che aiuta l’uomo a divenire più umano e che lo libera da quanto lo disumanizza.
Jean-Marie Ploux (Guéret 1937), presbitero e teologo, è stato vicario generale della Mission de France. Ha condotto studi di arabo e islamistica, opera nella formazione ed è impegnato nel dialogo interreligioso e nell’ecumenismo.
Se i cristiani non sono “del mondo”, tuttavia non devono dimenticare di essere “nel mondo”: oggi, infatti, a loro è richiesto di ripensare la fede cristiana all’interno della cultura postmoderna, senza alcun appiattimento acritico su di essa, ma in un’apertura al dialogo e al confronto. Possiamo così scoprire che la chiesa, nel contesto del mondo attuale, è chiamata a essere umile: la sua umiltà si radica nell’umiltà stessa di Dio, che in Gesù Cristo si è compromesso con la terra e l’umanità, e le permette di essere il popolo di Dio animato dallo Spirito santo. La chiesa è umile perché consapevole di essere “in relazione” e “dalla relazione”, perché non deve imporre una verità totalizzante, ma vuole proporre una verità che apre alla libertà.
Roberto Repole (Torino 1967), presbitero, insegna ecclesiologia e teologia sistematica presso la Facoltà teologica di Torino. Ha indirizzato buona parte della sua ricerca al ripensamento della chiesa nell’orizzonte della cultura contemporanea.
“I cristiani non abitano città loro proprie,
abitano la città nella quale è stato dato loro in sorte di vivere”
(A Diogneto)
“Si edifica una chiesa in una città affinché essa sia Chiesa per quella città, perché la città è sempre la destinataria della presenza della chiesa e mai un semplice mezzo né un mero strumento. Non c’è chiesa senza città perché la salvezza di Dio in Cristo è sempre propter nos homines. Il messaggio biblico sulla città ci invita a pensare che progettare ed edificare una chiesa non è semplicemente dotare la comunità cristiana di un luogo di culto, ma significa trasformare in realtà l’idea che ogni chiesa è metafora della presenza della Chiesa di Dio nella città degli uomini” (Enzo Bianchi).
La Chiesa di fronte alle grandi trasformazioni oggi in atto nelle città è chiamata a non subire questo cambiamento ma a interpretarlo e valutarlo criticamente, rivelando lo stile della presenza dei cristiani nella società che è di vicinanza nella differenza e di presenza nella diaconia. È questo contesto sociale ed ecclesiale a fare da sfondo e da orizzonte al VII Convegno liturgico internazionale di Bose, di cui questo volume raccoglie i contributi, che ha affrontato dal punto di vista sociologico, storico, liturgico, teologico, architettonico e urbanistico il tema del rapporto tra Chiesa e città.
“Bastava guardarlo
e vederlo passare:
per noi era pane”
Parroco dei lontani, voce dei poveri, profeta della pace, “contestatore per tutte le stagioni” o figlio “obbedientissimo” della chiesa: le diverse letture della figura di don Primo Mazzolari offerte nel tempo rivelano le tracce persistenti impresse dalla sua avventura cristiana nella storia del Novecento. Negli anni che vanno da Pio X a Giovanni XXIII, dal modernismo alle soglie del concilio Vaticano II, questo “parroco rurale” si impegnò in prima persona nel confronto che la chiesa stava vivendo con l’incalzante modernità, offrendo risposte e percorsi originali che gli guadagnarono censure e incomprensioni, ma insieme riconoscenza e affetto da parte di una nutrita platea di discepoli e lettori. Ripercorsa a cinquant’anni dalla morte, la sua memoria risulta ancora feconda e fonte di ispirazione per la vita cristiana di oggi, provocatrice delle salutari inquietudini che fanno del cristiano un “pellegrino dell’assoluto” immerso nel quotidiano, un cercatore di Dio intimamente solidale con le angosce e le attese dell’intera umanità.
Mariangela Maraviglia (Pistoia), pubblicista e saggista, si occupa di figure del cattolicesimo contemporaneo impegnate in ambito sociale e nel dialogo ecumenico. Membro del Comitato scientifico della Fondazione don Primo Mazzolari, al prete cremonese ha dedicato diversi volumi e studi. Per le nostre edizioni ha curato: Sorella Maria di Campello, P. Mazzolari, L’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959).
Un sapiente contributo alla rinascita
della cultura della speranza
Nel nostro paese la cultura della speranza sembra soccombere, vinta da un impasto di scoramento, depressione e cinismo che non risparmia neppure i cristiani. Occorre allora tornare a chiedersi di che cosa sia fatta la speranza, quale sia il suo fondamento. Attraverso riflessioni brevi e puntuali, l’autore mostra che la speranza è nutrita dalla nostalgia per la felicità: nostalgia che, preservata dal degenerare in angoscia, può divenire desiderio di vita vera e responsabilità verso il bene degli altri. Si spera, infatti, per gli altri: perché altri ci hanno insegnato a farlo e sono ragione di speranza per noi; perché altri contano su di noi e siamo responsabili del loro destino; perché la speranza genuina non si inventa, ma è la risposta a un invito che viene da un Altro.
Roberto Mancini (Macerata 1958), docente di filosofia teoretica all’Università di Macerata, è autore di numerosi saggi su tematiche fondamentali dell’esistenza umana quali l’ascolto, la pace, il bene e la libertà. Presso le nostre edizioni ha pubblicato Il silenzio, via verso la vita (2002), L’uomo e la comunità (2004) e L’umanità promessa (2009).