
Inserito nell’ampio scenario degli studi sulle audiences, questo volume offre una chiave interpretativa della varietà di gusti, motivazioni e ‘letture’ di quel vasto pubblico italiano che quotidianamente si raccoglie di fronte alla televisione. La centralità attribuita all’appartenenza generazionale dei telespettatori e, quindi, all’esperienza di ambienti mediali che mutano nel tempo costituisce il filo rosso che attraversa e collega una serie di ricerche svolte nel triennio 1999-2001 dall’Osservatorio sulla Comunicazione dell’Università Cattolica su commissione della Struttura Scenari della Direzione Marketing RTI (Mediaset), condotte secondo una prospettiva capace di integrare approcci differenti: lo studio socio-storico dell’industria culturale, l’indagine qualitativa sul consumo, l’analisi semiotica dei testi. I risultati, frutto di un lavoro di confronto e interpretazione dei dati raccolti nel tempo, restituiscono i profili di quattro identità generazionali a cui è possibile ricondurre l’attuale pubblico televisivo, ciascuna caratterizzata da memorie mediali, aspettative e strutture di decodifica narrativa proprie. Tutto ciò costituisce il bagaglio esperienziale con cui ci si relaziona al medium televisivo e si costruiscono i significati di quanto si fruisce.
Piermarco Aroldi è ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e vicedirettore dell’Osservatorio sulla Comunicazione presso la stessa Università. Ha svolto attività di ricerca sui temi dell’industria culturale e delle comunicazioni di massa per la Fondazione Agnelli, l’Istituto Gemelli - Musatti, la Rai, la Camera di Commercio di Milano. Su questi temi ha pubblicato, tra l’altro, “La fabbrica di Pinocchio. Le avventure di un burattino nell’industria culturale” (con Fausto Colombo e Barbara Gasparini, 1994), “La meridiana elettronica. Tempo sociale e tempo televisivo” (1999).
Fausto Colombo insegna Teoria e tecnica dei media e Linguaggi e strumenti della comunicazione presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano ed è direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Le nuove tecnologie della comunicazione” (con Gianfranco Bettetini, 1993), “Dizionario della pubblicità” (con Alberto Abruzzese, 1994), “La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta” (1998), “Il piccolo libro del telefono. Una vita al cellulare” (2001), “Il prodotto culturale. Teorie, tecniche, case histories” (a cura di, con Ruggero Eugeni, 2001).
Nella società dell’informazione le agenzie culturali si moltiplicano e ci investono con messaggi di ogni genere; i mass media sono veicoli di saperi di consumo più efficaci e accattivanti di quanto possano ormai rappresentare, soprattutto per i giovani, i tradizionali mezzi di trasmissione della cultura, ossia la scuola e il rapporto tra le generazioni. Ma si tratta davvero di trasmissione della cultura oppure di semplice comunicazione di contenuti? Là dove, infatti, la comunicazione comporta lo scambio di un messaggio, la trasmissione chiama in causa dinamiche più complesse, implica un processo di rielaborazione e di riappropriazione dei contenuti appresi e non un semplice accumulo di informazioni. Per questo, afferma Mathiot, si ‘comunica’ un messaggio, ma si ‘trasmette’ la vita. In tal senso vanno rivalutate le conoscenze ‘grezze’ trasmesse dalla famiglia e dalla saggezza popolare, ad esempio quelle relative alle previsioni del tempo oppure alle abilità culinarie. È urgente, allora, interrogarsi sul vero senso del trasmettere che non è riproduzione pedissequa di una tradizione o rottura con il passato. La trasmissione è separazione e continuità, distruzione e sopravvivenza: un movimento che punta a costituire l’autonomia di colui che ne è coinvolto, che lo invita ad acquisire una distanza critica da ciò che apprende; che, infine, è proteso verso il nuovo senza tradire la fonte da cui scaturisce.
Pascal Mathiot, docente di lettere alle scuole superiori, è autore di saggi su Molière, Montaigne e Buzzati.
Poco più di dieci anni trascorsi tra la caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, e il crollo delle Twin Towers, nel settembre 2001, rappresentano una lunghissima cesura tra due epoche che si direbbero irriducibilmente opposte. Il mondo è cambiato dopo il 1989, con la fine del comunismo e l’avvento dell’era della globalizzazione e, ancora una volta, in modo assai più imprevedibile e meno rassicurante dopo l’11 settembre 2001. Quel giorno, un soggetto privato e non territoriale - l’organizzazione terrorista di Bin Laden - ha colpito duramente il più forte soggetto pubblico territoriale del pianeta - gli Stati Uniti - vanificandone il poderoso apparato di sicurezza e irridendone la sovranità. Da allora, antiche alleanze e sperimentate solidarietà si sono avvitate in una spirale di crisi dalle conseguenze ancora difficilmente prevedibili e nuove amicizie ridisegnano la carta geopolitica del pianeta. Mentre l’Atlantico si fa sempre più largo, gli Stati Uniti preferiscono affidare la propria sicurezza e l’ordine mondiale al concetto, rivoluzionario e controverso, di guerra preventiva, anche a costo di inasprire il proprio isolamento. Alcuni tra i più affermati e promettenti studiosi americani e italiani si interrogano su quanto profondamente sia cambiato il mondo da quella tragica mattina dell’11 settembre 2001.
Vittorio Emanuele Parsi è professore associato di Relazioni internazionali nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed è direttore del Master in Mercati e Istituzioni del Sistema globale presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI) di Milano. Con G. John Ikenberry ha curato la pubblicazione dei volumi “Manuale di Relazioni Internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale” (Roma-Bari 2001) e “Teorie e metodi nelle Relazioni Internazionali. La disciplina e la sua evoluzione” (Roma-Bari 2001).
Dai modesti esordi nei villaggi della Galilea all’inarrestabile espansione in tutto l’Impero romano, la storia del cristianesimo è attraversata da un sottile, ma resistente filo conduttore: i cristiani vissero come cittadini di due mondi, immersi nelle realtà caduche dell’esistenza e al contempo rivolti con lo sguardo all’eterno.
Se, infatti, da un lato, si radicò molto presto la convinzione che la loro vera patria non era di questo mondo, dall’altro essi professarono un credo unitario capace di influenzare fortemente la società e di regolare l’esistenza del singolo.
Fissate le coordinate spazio-temporali entro le quali si sviluppò e si diffuse il cristianesimo, Markschies delinea i tratti salienti della religiosità individuale, nei momenti cruciali dell’esistenza come nella normalità della vita quotidiana, e di quella comunitaria, scandita dalla celebrazione eucaristica e dall’esercizio della carità. Ne emergono le ragioni per cui la nuova religione seppe conquistarsi un numero rilevante di seguaci: la semplicità della sua dogmatica, il coerente monoteismo, la certezza del legame con Dio assicurata dai sacramenti.
L’annuncio di Gesù riduceva e spiegava così la complessità della vita e schiudeva all’uomo un orizzonte ultraterreno, un ‘di più’ che non si esaurisce nelle alterne vicende della storia.
Christoph Markschies ha studiato teologia evangelica, filologia classica e filosofia a Marburgo, Gerusalemme, Monaco e Tubinga. Dal 1994 al 2000 ha insegnato come ordinario di Storia della Chiesa all’Università di Jena. Dal 2000 è professore di Teologia storica (Cristianesimo antico) all’Università di Heidelberg e membro ordinario dell’Accademia delle Scienze di Berlino; tra le sue principali pubblicazioni: “Valentinus Gnosticus?” (Tübingen 1992), “Arbeitsbuch Kirchengeschichte” (Tübingen 1995), “Ambrosius von Mailand und die Trinitätstheologie” (Tübingen 1995), “Alta Trinità Beata. Gesammelte Studien zur altkirchlichen Trinitätstheologie” (Tübingen 2000), “Die Gnosis” (München 2001).
L’interrogativo che muove l’indagine qui proposta, condotta a molte voci ma espressiva di un disegno unitario, riguarda la pensabilità della libertà nella condizione postmoderna dell’esperienza. Dopo una prima parte esplorativa delle coordinate culturali e antropologiche in cui si collocano prassi e teoria della libertà nell’era della tecnica, la seconda parte inaugura un percorso alla ricerca di un profilo teorico persuasivo della libertà umana, colta nella sua struttura antropologica pluridimensionale, nel suo ‘paradosso’ ontologico-metafisico, nell’enigma tragico della sua defettibilità colpevole e nella sua vocazione teologica. La terza parte torna alle questioni dell’oggi, con un approccio critico e propositivo ad alcuni aspetti problematici rispetto all’idea o alla prassi della libertà. Si tratta di saperi che toccano in modo incisivo la possibilità della libertà, e insieme l’identità soggettiva, come avviene nella sociobiologia, nelle scienze cognitive, nella psicoanalisi. Si tratta poi di condizioni e problemi sociali in cui è in gioco la praticabilità della libertà nel suo esercizio pubblico, come avviene nella nuova organizzazione del lavoro, nelle tecnologie della comunicazione sociale, nelle attuali condizioni di pluralismo culturale e religioso, nel problema dell’educazione. Il risultato dell’indagine è multiplo. Emerge, in primo luogo, una rinnovata consapevolezza della centralità della questione tecnologica, risultando la tecnologia al tempo stesso occasione e insidia per la libertà. In questa condizione culturale epocale è di estrema importanza riscattare la libertà da una concezione astratta, per guadagnarne la pienezza antropologica quale organismo polisenso di scelta, finalità e relazione, e insieme l’unità trascendentale come autodeterminazione. Qui si delinea il problema dell’origine e del significato metafisico della libertà, la cui ricchezza antropologica e verticalità metafisica risultano congiunte e indispensabili per pensare la sua realizzazione storica, là dove si consuma anche il dramma della sua negazione colpevole e l’apertura della prospettiva teologica sulla novità radicale di una Libertà redentrice.
Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano, si è occupato di antropologia nella prospettiva della filosofia della storia, dapprima nell’ambito della filosofia francese contemporanea (“Struttura e soggettività. Saggio su Bachelard e Althusser”, Milano 1976), poi in G.B. Vico (“La sapienza della storia. G.B. Vico e la filosofia pratica”, Milano 1991), e dal punto di vista teoretico (“Per una filosofia dell’esperienza storica”, Milano 1986). Recentemente ha orientato la sua ricerca in campo antropologico-etico, con numerosi saggi, tra cui “Libertà e formazione morale” (2000), “Princìpi morali ed assoluti etici” (2001), “Pluralismo culturale e unità politica nella globalizzazione postmoderna” (2001), “Pluralismo sociale e sistema della libertà” (2002), “Scissione dell’esperienza e identità antropologica” (2002), “Il bene della relazione e i beni della persona” (2002).
Questo volume di studi in onore di Gianfranco Bettetini raccoglie testi di alcuni fra i suoi allievi più diretti, offrendo una prima e parziale testimonianza delle molte strade aperte dal suo magistero intellettuale, che va dalla semiotica dell’audiovisivo all’etica dell’informazione, dalla storia – e pratica – del cinema alla sociologia dei processi culturali, dalle riflessioni sui nuovi media agli studi sulla comunicazione interculturale, dal teatro alla comunicazione d’impresa.
La realtà dell’immaginario è quindi sia un omaggio affettuoso a un Maestro che è stato ed è un pioniere degli studi sulla comunicazione in Italia, sia un’aggiornata e innovativa riflessione su alcune frontiere della comunicazione stessa, fra ‘vecchi’ e nuovi media.
Gianfranco Bettetini (Milano, 1933), laureato in Ingegneria presso il Politecnico di Milano nel 1956, fra i primi studiosi delle comunicazioni di massa in Italia, svolge dagli anni Sessanta la sua opera accademica in prevalenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove – dietro impulso di Mario Apollonio – è stato fra gli iniziatori della Scuola Superiore di Comunicazioni Sociali, oggi Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo, che tuttora dirige. Fondatore e primo direttore dell’Istituto – oggi Dipar-timento – di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo presso questa Università, ordinario di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa, è stato per molti anni dirigente Rai, ha compiuto numerose ricerche e ha al suo attivo una vasta bibliografia scientifica su molti aspetti delle comunicazioni di massa, con volumi tradotti in varie lingue. Fra i fondatori degli studi semiotici in Italia, regista televisivo e cinematografico, ha pubblicato anche quattro romanzi.
Hanno collaborato al presente volume: Piermarco Aroldi, Maria Bettetini, Antonino Buttitta, Francesco Casetti, Fausto Colombo, Marco Deriu, Umberto Eco, Ruggero Eugeni, Armando Fumagalli, Chiara Giaccardi, Aldo Grasso, Anna Manzato, Silvano Petrosino, Gianni Sibilla, Giorgio Simonelli, Marina Villa, Nicoletta Vittadini, Ugo Volli.
Il principio di sussidiarietà occupa un posto di grande rilievo nella Dottrina sociale della Chiesa. Troppo a lungo dimenticato, viene oggi riscoperto quale centro del ‘crocevia istituzionale’ rappresentato dai complessi e delicati rapporti tra Unione europea, Stato e Regioni. Mediante i contributi di alcuni tra i massimi esperti della materia, questo volume ne analizza la portata e l’impatto, in riferimento all’esperienza concreta dell’Europa comunitaria e dell’ordinamento interno italiano. Vengono così messi in luce e analizzati i fondamenti e i precedenti istituzionali indispensabili per cogliere il reale significato del principio di sussidiarietà, sancito ora, tra l’altro, nel nuovo testo dell’articolo 18 della Costituzione.
Mario Napoli è ordinario di Diritto del Lavoro presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Per i tipi di Vita e Pensiero ha curato: “Costituzione, lavoro, pluralismo sociale” (Milano, 1998).
Negli anni Novanta era opinione diffusa che la caduta del muro di Berlino avesse decretato il trionfo della democrazia liberale e del capitalismo di mercato, cancellando l’ultima grande linea di demarcazione ideologica. Cominciava un’era di prosperità economica e di pace stabile, sotto l’egida dell’unica superpotenza planetaria rimasta: gli Stati Uniti. In questo libro avvincente e di grande visione prospettica, Charles A. Kupchan mette in luce l’inadeguatezza e i rischi di tale convinzione, come peraltro gli eventi di questo inizio secolo stanno mostrando. La fine della Guerra fredda ha segnato paradossalmente non la vittoria definitiva dell’America, ma l’avvio del suo declino e un periodo di forte instabilità. La tesi controcorrente sostenuta da Kupchan è che l’attuale ordine internazionale non durerà a lungo. In questa direzione preme l’avversione interna degli USA nei confronti del gravoso compito di guardiano globale. Se la lotta al terrorismo dopo l’11 settembre ha sospeso la storica tendenza isolazionista americana, essa tuttavia è destinata a riacquistare vigore nel tempo. Ma la sfida all’egemonia di Washington non è costituita dall’estremismo islamico, che oggi sta assorbendo le energie della sua politica estera. Va piuttosto profilandosi un ritorno della rivalità tra i maggiori soggetti dello scacchiere mondiale, con l’ascesa della Cina, aggressiva nel suo sviluppo economico, e soprattutto con il processo di integrazione dell’Europa che, dopo decenni di partnership, si pone come concorrente di pari forza, non solo sotto il profilo economico, ma anche, in prospettiva non remota, sul piano geopolitico. L’amministrazione americana – avventuratasi con la guerra all’Iraq nel pericoloso vicolo cieco dell’azione unilaterale – non mostra finora adeguata consapevolezza dei movimenti carsici che, sotto un’illusoria superficie di stabilità, stanno trasformando il contesto globale. Se si vogliono evitare rischiose derive, «la priorità americana dev’essere di preparare se stessa e il resto del mondo a questo futuro incerto. Gli Stati Uniti devono progettare ora, finché se lo possono permettere, una grande strategia per la transizione a un mondo fatto di molteplici centri di potere».
Charles A. Kupchan è associate professor alla Georgetown University di Washington e senior fellow presso il Council on Foreign Relations. È stato membro del Policy Planning Staff al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e, durante la prima amministrazione Clinton, Director for European Affairs presso il National Security Council. In passato ha collaborato con importanti centri di ricerca, tra cui il Center for International Affairs di Harvard, l’International Institute for Strategic Studies (Londra), e il Centre d’Etudes et de Recherches Internationales (Parigi). Tra le sue principali pubblicazioni: Atlantic Security. Contending Visions (New York 1998), Nationalism and Nationalities in the New Europe (Ithaca 1995) e The Vulnerability of Empire (Ithaca 1994).
Considerata nella tradizione del pensiero occidentale quale massima attività etica dell’uomo, la politica attraversa oggi un’innegabile e rischiosa fase di delegittimazione che tende a sminuirne il significato, riducendola a mera attività tecnica di gestione del conflitto, indifferente ai fini ultimi del proprio agire. E tuttavia – è altrettanto innegabile – non si può non ‘fare politica’. Ma laddove riemerge il desiderio di autentico impegno, spesso mancano conoscenze, nozioni e strumenti fondamentali per poter consapevolmente operare. Ecco perché questo volume, nel porgere l’invito al tavolo dove si costruisce la ‘città dell’uomo’, si configura come proposta di un percorso di formazione e di accompagnamento alla vita politica. Esso si fonda su una linea interpretativa di tipo antropologico, che riconduce tanto le teorie quanto i problemi concreti a una soggiacente visione dell’uomo; e a quest’uomo, in ultima analisi, si rivolge, sia che egli si ritenga «uomo del mondo e del tempo», sia che si consideri «uomo della creazione e della trascendenza». In questo cammino, si affrontano temi complessi, esposti in forma nitida e dentro una cornice sistematica. Questioni di estrema «attualità e urgenza», sulle quali, sottolinea Carlo Maria Martini nella sua presentazione, «gli autori ragionano e fanno ragionare, rimanendo sempre su un piano oggettivo e realistico, senza fughe utopiche, sforzandosi di saldare idealità e concretezza, progetti arditi e fattibilità».
Luigi Franco Pizzolato è ordinario di Letteratura cristiana antica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Allievo e successore di Giuseppe Lazzati, ne ha proseguito l’opera anche alla guida dell’Associazione di cultura politica «Città dell’uomo». Ha pubblicato una vasta serie di studi su questioni del Cristianesimo antico e, parallelamente, su problemi di politica, con spiccato interesse per gli aspetti antropologici. Filippo Pizzolato è ricercatore di Diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Tra le sue pubblicazioni: Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Vita e Pensiero, Milano 1999; Il sistema di protezione sociale nel processo di integrazione europea, Milano 2002.
Quale rilevanza può e deve assumere il fattore religioso tra i valori fondanti la nuova Europa? Quale il ruolo delle confessioni religiose nei futuri assetti dell’Unione? Il presente volume offre un importante contributo di riflessione su queste problematiche di singolare attualità mettendo in luce la vocazione europeista delle organizzazioni confessionali operanti nel continente. Raccoglie, infatti, gli esiti del workshop tenutosi a Milano, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel maggio 1999, durante il quale insieme a esperti del settore si sono confrontati esponenti degli organismi religiosi e ideologici accreditati presso la Commissione europea. L’esperienza maturata dalla Cellula di Prospettiva della Commis-sione europea nel dialogo con Chiese, comunità e organizzazioni religiose; l’incidenza del Trattato di Amsterdam, e in particolare della Dichiarazione n. 11 allegata all’Atto finale, sulle relazioni tra Unione e confessioni religiose; la struttura, le funzioni e le attività dei principali organismi cattolici a livello europeo COMECE e CCEE; il livello di libertà religiosa garantito e lo stato giuridico delle confessioni religiose nei Paesi dell’Europa centro-orientale, sono alcune delle questioni analizzate dai saggi proposti. Il volume è completato, oltre che da un’ampia appendice di recenti documenti, dalle risposte a un questionario preventivamente sottoposto ai diversi enti interessati, attraverso cui ogni organizzazione ha avuto modo di illustrare la propria posizione circa l’integrazione europea; le forme ritenute più opportune per una migliore rappresentanza delle istanze religiose nell’ambito delle istituzioni dell’Unione; le azioni che potrebbero essere assunte dall’Unione europea per la promozione dei valori comuni in materia di libertà di coscienza e di religione e, più in generale, dei diritti dell’uomo individuali e collettivi.
Antonio G. Chizzoniti è ricercatore confermato di Diritto ecclesiastico e canonico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e insegna Legislazione del turismo presso il Corso di Laurea in Scienze turistiche dell’Università IULM di Milano. Ha pubblicato, tra l’altro, il "Codice del turismo religioso" (Milano, 1999) e, presso Vita e Pensiero, il volume "Le certificazioni confessionali nell’ordinamento giuridico italiano" (2000).