
La peculiarità del pensiero di Michel de Certeau è stata sempre l’attenzione a leggere la storia culturale e sociale intrecciando discipline e me­todi diversi, dalla filosofia alla psicoanalisi, alla linguistica. E questo non per una sorta di comodo eclettismo o di sincretismo conciliante, ma per la volontà di reinserire ogni momento storico nella molteplicità delle sue componenti, anche nelle contraddizioni dei suoi conflitti. Egli diffidava fortemente delle griglie costruite sul passato per ritagliare i saperi e rifiutava l’idea di azione cul­turale come pioggia benefica di briciole cadute dalla tavola dei sapienti e dei potenti.
Anche questo testo, che vede qui la sua prima traduzione italiana, è intriso della sua capacità di vedere sempre più lontano e in profondità, andando a scoprire le mille reti informali che permettono ai flussi di trasmissione culturale di circolare: unico modo per evitare che una società soffochi e muoia. Perché una cultura al singolare traduce sempre, dice de Certeau, il «singolare di un ambiente», imponendo la leg­ge di un potere, mentre la cultura plurale è crea­zione, magari deperibile, magari conflittuale, ma sempre relativa a una comunità che cresce e sa cambiare e, alla fine, durare.
Figlio del suo tempo (gli anni a ridosso del ’68 francese), il libro affronta argomenti ancora al centro delle nostre preoccupazioni: le forme del lavoro, la situazione nella scuola, la collocazio­ne sociale degli intellettuali e degli scienziati, lo spazio di convivenza urbana, le minoranze, il ruolo delle istituzioni culturali… Tutti stimoli per riflettere anche sull’oggi adottando il ‘metodo de Certeau’, il suo sguardo che smaschera il simulacro di ciò che è stato e non è più, ma che allo stesso tempo conosce e valuta i limiti del gioco plurale. Una lezione di libertà, un deside­rio attivo di creare possibilità, di allestire spazi concreti di movimento nella vita in comune.
Biografia dell'autore
Michel de Certeau (1925-1986), gesuita fran­cese, è stato una delle figure di maggior rilievo nel panorama culturale contemporaneo. Storico affascinato dall’avventura mistica, antropologo attento alla vita quotidiana delle persone, viag­giatore curioso delle diverse culture umane, ha indagato su vari ambiti del sapere, spesso mescolandoli in percorsi trasversali di grande originalità. Tra le sue molte opere tradotte in italiano: Fabula mistica, Storia e psicoanalisi, La presa della parola, L’invenzione del quotidia­no. Per Vita e Pensiero sono già usciti nel 2010 Lo straniero o l’unione nella differenza e nel 2020 La debolezza del credere.
Giuliano Zanchi, sacerdote, teologo ed esperto di estetica, crea qui una piccola ed intensa guida'per riscoprire, valorizzare e dare senso ai luoghi della liturgia cristiana, quegli ambiti in cui si dispiega il rito e che spesso vengono considerati come puri elementi di corredo. E invece essi sono spazi ricchi di senso, perché ospitano l'incontro della comunità dei credenti con Gesù: non semplici arredi funzionali (a volte francamente scadenti o malamente invecchiati), ma luoghi della presenza, espressioni materiali e concrete della grazia.
Ecco allora che predisporre un altare un ambone, disegnare soglie e luoghi di passaggio, dosare la luce e anche e soprattutto dare forma all'assemblea, riscoprire il corpo come primo logo della liturgia, sono gesti che già attivano la sostanza non puramente operativa dell'azione rituale.
Di questi spazi Zanchi disegna brevemente la storia, che si pone sempre come indice di evoluzione teologica e non solo artistica, come documento di ciò che cambia e testimonianza di ciò che perdura. E per ognuno traccia prospettive nuove di sguardo e di progettazione. Certo, l'incontro col Signore che si realizza nella liturgia è "vero" prescindere dalle architetture e dagli spazi.
I luoghi non sono la sostanza della liturgia, ma senza dubbio concorrono alla sua specifica qualità, e meritano per questo di essere guardati e presi sul serio. Vale la pena d assegnare loro pensiero e cura.
Alla galleria del realismo politico possono essere ricondotti pensatori tra loro molto lontani, da Tucidide a Sant'Agostino, da Machiavelli a Max Weber, da Thomas Hobbes a Carl Schmitt. A contrassegnare questa tradizione sono soprattutto due elementi: l'idea che la "natura umana" rappresenti un dato costante e la convinzione che una simile "natura" renda gli esseri umani perennemente insoddisfatti della loro condizione e tra loro irrimediabilmente in conflitto. Proprio in virtù di tale antropologia negativa, i realisti ritengono così che gli esseri umani puntino sempre a perseguire la sicurezza, a estendere la loro ricchezza e a difendere il loro onore. Il volume intende invece esaminare più in profondità questo pessimismo antropologico. E, in particolare, si propone di mostrare come, dietro un'apparente coerenza, si nascondano divergenze piuttosto nette. L'obiettivo è dunque esplorare le molteplici antropologie del realismo politico, riconoscendo e distinguendo le diverse modalità con cui è stata rappresentata e spiegata quell'inquietante "natura" - più o meno invariante - che conduce gli esseri umani a desiderare il potere e a inseguire la gloria. Contributi di: Oro Tapia Luis René;Patapan Haig;Continisio Chiara;D'Andrea Dimitri;Castellin Luca G.;Raschi Francesco;Zambernardi Lorenzo;Stefanachi Corrado.
Rivista culturale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.
L'esaltazione dell'estetica della fede, che al tempo dei primi scritti raccolti in questo volume non esisteva proprio, nonostante Han Urs von Balthasar, è improvvisamente diventata di gran moda. L'improvvisazione non è sempre garanzia di creatività. Di fatto, la conversione teologica di massa alla bellezza che ci salva, che torna romanticamente a concentrarsi intorno alla spiritualità dell'arte, chiede di essere liberata da molti equivoci. Il filo della esplorazione dedicata alla radicalità dell'estetica teologica - non ancora conclusa - si dipana fin dall'inizio sulle tracce di una solida fenomenologia della sensibilità spirituale (di cui l'arte è soltanto uno degli effetti). Il suo obiettivo finale - decisamente in controtendenza - è l'approdo a un'ontologia dell'essere-spiritualmente-sensibile, che istituisce il misterioso piano del Reale che precede quello stesso dell'Essere assoluto. Questo Reale, oggetto estetico e drammatico del desiderio, è l'oggetto rivelato, della parola biblica della creazione di Dio ("dal nulla") e della parola evangelica sulla generazione in Dio ("vita trinitaria"). La crisi attuale del pensiero occidentale è la crisi - finalmente arrivata! - di una metafisica perfettamente anaffettiva, incapace di estrarre pensiero e fede dalla bellezza, perché inadeguato all'estetica e alla drammatica dell'affezione di Dio e in Dio per l'umana creatura. Ricomporre nel grembo dell'ontologia affettiva l'esperienza della teofania (il sacramento cristiano) e l'immaginazione del sacro (l'arte religiosa) è oggi la sfida posta alla ricerca di un cristianesimo all'altezza della sua rivelazione.
«Molta morale, poca comunità, zero cultura»: questa frase di Pierangelo Sequeri è rimbalzata tra le pareti degli intellettuali cattolici o vicini al mondo cattolico sgretolando un muro di cartone che ha rilevato una certa voglia di discutere sinceramente del binomio cultura-fede cattolica, oggi molto trascurato. Da quell'articolo uscito su "Avvenire", che invitava "ad extra", a uscire cioè da un certo confinamento di idee, produzioni, azioni, è nato un ricco dibattito con protagonisti nomi della cultura quali Carlo Ossola, Roberto Righetto, Chiara Giaccardi, Silvano Petrosino, Antonio Spadaro, Sergio Massironi, Agostino Giovagnoli, Milena Santerini, Davide Rondoni, Roberta Rocella, Andrea Riccardi, Massimo Cacciari. Voci che, riviste, diventano ora una raccolta per provare ad andare tutti insieme oltre. Oltre una certa paccottiglia di pensiero che edulcora la realtà senza risolvere o aggiungere nulla. Oltre quei recinti che tengono sotterrati i tesori accumulati in questi decenni da una riflessione teologica incredibilmente più ispirata, da una spiritualità straordinariamente più vitale, da una concezione di chiesa più comunitaria. Una ricchezza che deve essere messa in circolo, oltre le dispute interne, con nuove forze e pensiero, con la capacità di dialogo che cerca di esprimere questo dibattito.
Il modello della giustizia fondato sulla corrispettività dei comportamenti - per cui quando si valuta negativamente l'altro, rispetto a qualche aspetto del suo agire, risulterebbe giusto, per il proprio bene, agire altrettanto negativamente verso di lui, onde sopraffarlo - è estremamente diffuso nella nostra cultura, che lo esprime attraverso l'immagine della bilancia. Tale modello, utilizzato lungo i secoli dal diritto penale, è tuttavia soggiacente anche alla logica della guerra: superarlo, dunque, è ormai impellente, se si vuole evitare, dati gli strumenti bellici oggi disponibili, la distruzione stessa dell'umanità. Quel modello, del resto, offre sempre l'alibi per agire contro qualcuno, in quanto potrà sempre ravvisarsi, in ogni persona e in ogni realtà umana, qualcosa di negativo. Proprio nel diritto penale è andato, peraltro, sviluppandosi, da alcuni decenni, un concetto diverso della giustizia: quello secondo cui alle situazioni che reputiamo negative non si risponde in termini di ritorsione del negativo, ma in termini progettuali o, se si vuole, in termini pur sempre di bene (ancorché impegnativi), dinnanzi al male. Col fine di tornare a rendere giuste, per tutti i soggetti coinvolti, relazioni che non lo siano state. Che questo modello relazionale non più retributivo, noto nel mondo come restorative justice, possa diffondersi dipende, in misura nient'affatto marginale, dagli stessi criteri educativi che sappiamo coltivare rispetto alle nuove generazioni. Per cui il presente volume rappresenta un tentativo pionieristico di riflessione - un vero e proprio inedito - su come la giustizia riparativa possa essere proposta quale modello di comportamento fin dai primi sei anni di vita: offrendo alle/agli insegnanti delle scuole d'infanzia, ma anche alle famiglie, autorevoli riflessioni pedagogiche e metodologie praticabili.
I gesti di disagio e di violenza giovanile riportati quotidianamente dalla cronaca mostrano una crescente emergenza emotiva che si manifesta in diversi ambiti e con differenti modalità. L'indagine su un campione di 800 adolescenti del nostro Paese, di cui il volume riporta i principali risultati, focalizza l'attenzione sulla rabbia, l'empatia, il timore di fallire provati nelle relazioni con le altre persone, l'empowerment e il mattering (la sensazione di 'contare') che questa generazione sperimenta nella vita quotidiana. Si propongono, infine, un approfondimento sulle ricadute operative della ricerca e alcune riflessioni sulle caratteristiche specifiche degli e delle adolescenti, sempre in equilibrio precario tra potenzialità e fragilità. Giunti all'ottavo anno di rilevazione dell'Osservatorio Giovani dell'Istituto Toniolo su questa fascia d'età, si è approdati a un punto di snodo: la Generazione Z è in uscita dall'adolescenza, mentre vi compie i primi passi la Generazione Alpha, con tutte le sue peculiarità.