
Gli Agnelli sono l'unica tra le dinastie storiche del capitalismo italiano ad aver conservato una posizione paragonabile a quella dei tempi d'oro, della nascita delle grandi industrie moderne tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, e sono un simbolo del capitalismo famigliare non solo in Italia. In questo libro si racconta chi sono gli eredi del senatore Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, attraverso più di cento microritratti di fratelli, cugini, nipoti, zie. Sono bozzetti fatti di ritagli, notizie laterali, cenni personali, aneddoti, in cui vengono tratteggiati personaggi noti, ma anche meno conosciuti. Si raccontano le loro parentele, le professioni che svolgono, i luoghi dove vivono o hanno vissuto. Le vicende dell'economia e dell'industria italiana si intrecciano alla storia dei rami della famiglia, nel tentativo di definire lo spazio di questa dinastia nell'immaginario del nostro paese.
Dopo l'ultimo devastante caso che l'ha vista in azione in Florida, Kay Scarpetta si trasferisce a Charleston, nel South Carolina, dove apre uno studio di patologia forense con l'irrinunciabile aiuto della nipote Lucy e del fidato Pete Marino. Proprio quando sembra prendere avvio una tranquilla esistenza nella routine della provincia americana, Kay è chiamata a Roma per collaborare alle indagini sull'orrenda fine di una giovane campionessa di tennis statunitense. Un caso che sembra collegarsi a quello di un bambino morto proprio a Charleston in seguito alle privazioni e ai maltrattamenti. E a tutto ciò non sembra essere estranea una vecchia nemica di Kay, la psichiatra Marilyn Self. Cosa lega questi casi? Perché l'assassino scrive alla dottoressa Self prima di uccidere le sue vittime e di accanirsi con inaudita ferocia sui loro corpi? Ancora una volta Kay Scarpetta dovrà mettersi sulle tracce del colpevole, interpretandone i messaggi prima che sia troppo tardi.
È delizioso ascoltare a primavera il canto del cuculo che annuncia il ritorno alla vita. Ma se il cuculo facesse sentire il suo richiamo d'inverno? Allora gli uomini dei boschi si sbircerebbero di sottecchi nelle cucine fumose, dove i cani sonnecchiano inquieti, in attesa del peggio. Perché gli animali conoscono meglio dell'uomo il mistero della vita e della morte. Al centro di questo libro, che per situazioni e atmosfere è da annoverare tra i più caratteristici di Corona, c'è il rapporto tra l'uomo e gli animali: una relazione aspra, scontrosa, fatta di incomprensioni, quando non di vere e proprie crudeltà. Ma anche di amicizie che resistono senza bisogno di parole, di intimi legami che raggiungono un'intensità sublime. Tanto più straziata quanto più silente. Racconti di fatti, di gesti e di silenzi, storie tramandate da generazioni che, come sempre in Corona, ritornano circolarmente e di nuovo e per sempre affascinano, tra verità e leggenda.
Pubblicato a puntate su una rivista femminile nipponica nel 1966, "Abito da sera" (Yakailuku) è un'opera atipica nel panorama della produzione dello scrittore giapponese, solitamente incentrata sui temi alti ed eroici. Rimasto finora inedito in Italia, il testo costituisce una feroce, irresistibile satira dell'alta borghesia giapponese nel dopoguerra, prona ai desideri degli occidentali, stregata dal fascino di modelli di vita viziati e dimentica dell'antica, nobile tradizione del paese dei samurai.
Somma voce poetica della lirica italiana - e non solo - nel Novecento, Eugenio Montale è stato anche un prosatore raffinato ed elegante. In questo volume sono raccolti i suoi scritti narrativi, quelli che egli stesso chiamava i libri di "fantasia e d'invenzione", dai quali emerge l'immagine di un Montale viaggiatore, elzevirista e ritrattista, osservatore sempre acuto e curioso della realtà che lo circondava. Le "Prose narrative" ci permettono quindi di cogliere un aspetto meno noto del grande scrittore, componendo di lui un'immagine più sfaccettata e completa e conoscendo meglio il suo mondo. Il volume contiene anche un saggio di Cesare Segre e uno scritto di Emilio Cecchi.
Chi non ha mai sentito parlare dei cavalieri templari, della loro tragica fine, dell'inesauribile leggenda e del loro favoloso tesoro? Eppure, l'esuberante bibliografia sui "Poveri cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone", nati a Gerusalemme nel 1120, ha pressoché tralasciato la storia della loro nascita. Attraverso gli indizi storici, filologici, codicologici, testuali che si trovano nei nove manoscritti superstiti della regola del Tempio, Simonetta Cerrini ricostruisce l'ideale che animò la prima comunità templare, con l'obiettivo di sfatare le leggende fiorite nel corso dei secoli, di abbandonare i luoghi comuni storiografici e soprattutto di intraprendere nuove vie di ricerca. Proprio quando si era ormai affermata la separazione tra chierici e laici, e i chierici avevano assunto il monopolio del sacro, i templari sostennero la loro piena appartenenza al mondo dei chierici pur restando assolutamente laici. Al di là dell'impegno militare nell'esercito crociato, questa loro autonomia spirituale - di cui ancora non si sapeva nulla - si attuerà nella diffusione della cultura religiosa in lingua volgare e nel confronto con altre esperienze religiose, come l'islam o il cristianesimo d'Oriente.
Composte da Ovidio negli ultimi anni della propria vita, a partire dal 12 d.C. durante l'esilio a Tomi sul Mar Nero, le "Epistulae ex Ponto" sono quarantasei lettere in distici elegiaci che il poeta invia alla moglie, ai famigliari, agli amici o a personaggi influenti della Roma augustea, supplicandoli perché si adoperino per farlo rientrare in patria. Tutta l'opera è pervasa da una straordinaria complessità di sentimenti nei confronti, prima di tutto, del potere, che viene adulato e smascherato insieme. Ma anche degli amici, soprattutto poeti, e di se stesso, protagonista di un'elegia che, nei forti tratti autobiografici, non cessa mai di essere letteratura di alto rango. Sono versi, questi delle Epistulae, che hanno sempre suscitato intense reazioni nei lettori e sono stati un modello per autori, spesso grandissimi, che l'esilio lo hanno vissuto in prima persona, da Seneca a Brodskij. La costruzione letteraria apparentemente facile lascia intatto un denso nucleo di irrisolta umanità, nel quale ogni lettore finisce per ritrovare un'immagine di sé.
II volume è interamente dedicato a Giacomo da Lentini (1210 ca-1260 ca), il "fondatore" della lirica italiana, oltre che caposcuola dei poeti siciliani, autore di sorprendente maturità e di altissimo valore poetico, "inventore" del sonetto. Nel Meridiano sono riprodotti tutti i componimenti (canzoni e sonetti) attribuitigli con verosimiglianza dalla tradizione manoscritta: tra questi si possono ricordare le canzoni "Madonna", "dir vo voglio" (che apre il codice Vaticano Latino 3793, il più importante canzoniere delle origini, ed è citata da Dante nel "De vulgari eloquentia"), "Meravigliosamente" (la canzone più celebre di Giacomo, presente in tutte le antologie), "Troppo son dimorato" (archetipo delle canzoni di lontananza italiane) e i sonetti "Io m'aggio posto in core a Dio servire" (forse il più bel sonetto di Giacomo), "Madonna a 'n sé vertute con valore" e "Angelica figura e comprobata" (che intessono una poesia di lode della donna amata straordinariamente anticipatrice dello Stilnovo).
Il secondo volume propone i poeti della corte di Federico II (a esclusione di Giacomo da Lentini), che possono essere distinti in due generazioni: la prima legata all'imperatore e ai suoi funzionari di maggiore spicco, come lo stesso Giacomo e Pier delle Vigne, e più radicata in Sicilia e nel sud; la seconda sviluppata intorno al figlio di Federico, Manfredi, e con ramificazioni verso la Toscana. Tra gli autori presentati nel Meridiano, oltre allo stesso Federico, si segnalano Guido delle Colonne (di lui sono citate da Dante nel "De vulgari eloquentia" le canzoni "Amor, che lungiamente m'ài menato" e "Ancor che l'aigua per lo foco lasse"), Rinaldo d'Aquino (autore tra l'altro di "Giamäi non mi conforto", lamento della donna per la partenza del crociato), Pier delle Vigne (cantato da Dante nella Commedia), Stefano Protonotaro (la sua canzone "Pir meu cori allegrari" è l'unico testo integrale che ci sia stato tramandato nel siciliano originale), Cielo d'Alcamo (autore del famoso contrasto "Rosa fresca aulentissima"), Giacomino Pugliese (sua la canzone "Morte, perché m'ài fatta si gran guerra", uno dei più antichi esempi di pianto per la morte dell'amata) e Re Enzo (che, figlio naturale di Federico II, passa gran parte della sua vita prigioniero a Bologna ed è quindi figura importante per la diffusione della poesia siciliana nell'Italia del centro-nord).
All'esaurirsi dell'esperienza sveva o addirittura quando la dinastia non è ancora tramontata, alcuni poeti nati e operanti in Toscana ripropongono con adattamenti il modello siciliano, mentre altri (quali Guittone d'Arezzo e Bonagiunta Orbicciani) tentano più decisamente il distacco e avviano la sperimentazione di forme relativamente più autonome: per comodità si possono chiamare Siculo-toscani i primi. Toscano-siculi i secondi. Ai Siculo-toscani è dedicato questo volume. Pur nella continuità con la Scuola, i testi dei Siculo-toscani presentano innovazioni indicative dell'avvio di una stagione poetica relativamente diversa: al cosmopolitismo della Magna Curia si sostituisce un evidente municipalismo che in parte si travasa nelle poesie, nelle quali ai tradizionali temi amorosi d'impronta lentiniana se ne affiancano altri che sono espressione della nuova coscienza cittadina e dei gruppi borghesi emergenti.