
«Scrivo per individuare un ascolto possibile di ciò che del vangelo non è stato ancora udito»: così Dominique Collin. Ecco allora un saggio tonificante che invita a intendere il vangelo con un altro orecchio. Se l'idea diffusa è che il vangelo sia un racconto mitologico sorpassato, qui si sostiene che oggi è invece divenuto possibile percepirne l'inaudito, «quelle cose che orecchio non udì» (1 Cor 2,9). E la "buona notizia" che tipo di inaudito annuncia? Una possibilità di uscire dalle catene che ci siamo forgiati noi stessi, una possibilità di essere "sé" anziché essere asserviti al proprio "io" infantile e regressivo. Ed è urgente cambiare la nostra maniera di pensare: il vangelo è la parola che ha la funzione di non risolvere problemi, ma di far venire voglia di pensare in modo diverso. Di fronte al caos che incombe, resta da intendere l'inaudito del "buonsenso" aperto dal vangelo. Buonsenso di pensare all'Altro. Buonsenso di vivere una conversione alla gioia. Buonsenso di tendere l'orecchio al vangelo inaudito. «Non dobbiamo forse unicamente ricordare ciò che è dimenticato, cioè l'indimenticabile? La vocazione della "buona notizia" non è risolvere problemi, ma far sentire al mondo ciò che il mondo non ha sentito».
Una cristologia articolata in modo originale attorno al concetto di eredità: Gesù, il Figlio libero e adulto, ha ricevuto tutto dal Padre e lo vive nella libertà. Apre così uno squarcio imprevisto su una dinamica di figliolanza, di eredità e di libertà che coinvolge tutti.
Descrizione
Sulla scena si staglia un uomo. Un uomo libero. Propone un modo nuovo di rapportarsi con il Dio di Israele. Non si tratta di una novità totale, ma di una potente ripresa di temi già presenti nella tradizione del suo popolo, che lui spinge fino alle conseguenze più estreme: la paternità di Dio verso tutti e tutto, la dignità di sentirsi figli amati, il compito esorbitante di trattare gli altri da fratelli. È l’erede. Colui che sa ricevere e trasmettere ciò che ha ricevuto imprimendovi il suo tratto unico.
Da questa figura molti sono affascinati. Per altri tutto questo è semplicemente troppo: pericolosissimo dal punto di vista sociale e quasi blasfemo dal punto di vista teologico. Gli eventi precipitano senza che nessuno li controlli realmente e quest’uomo viene ucciso.
Tuttavia, proprio nella morte, questa figura sprigionerà la propria visione di Dio in tutta la sua forza. Una visione che da allora non smette di attrarre, di scandalizzare, di provocare la realtà. Oggi, come ieri. Da questa vicenda esce per sempre stravolta l’idea di Dio e con essa le forme del potere, della libertà, dell’identità umana.
Una visuale della cristologia innovativa, coinvolgente come lo può essere un romanzo.
In breve
In quattro fra i suoi testi spirituali più belli, Karl Rahner insegna che c’è una “Quaresima della vita”, che non ha niente a che fare con l’astenersi da ogni piacere. Ma nella quale conta piuttosto sperimentare che ci manca un’esperienza di cui avremmo cogente bisogno: la presenza di Dio. Il digiuno quaresimale serve non a dimagrire, ma a cambiare il nostro metabolismo spirituale. Ne va di una fede matura che dà sempre più profondità al quotidiano, superandone le lacerazioni.
Descrizione
Chi di noi non si aspetta miracoli dal digiuno? Peso forma ideale, aspetto giovanile, sensazione di benessere! Ma se il senso della Quaresima fosse questo, non avrebbe posto nella chiesa: avrebbe a che fare piuttosto con le polizze sanitarie offerte dalle compagnie assicurative.
Che cosa significa, allora, quel “tempo di penitenza e digiuno” che inizia il Mercoledì delle ceneri e finisce alle soglie del Triduo pasquale? Risponde questa pubblicazione, che raccoglie quattro testi spirituali fra i più belli di Karl Rahner. Il gesuita tedesco, considerato uno dei più grandi teologi del XX secolo, mostra che la Quaresima non ha nulla a che fare con la rinuncia al consumo, con la semplice morigeratezza, ma tocca la fede nel profondo del nostro cuore. Il digiuno quaresimale non ha di mira il dimagrimento, ma un mutamento del “metabolismo spirituale”. Ne va di una fede cristiana che matura e che dà sempre più profondità al quotidiano, superandone le lacerazioni.
In breve
In una rinnovata veste grafica, un bellissimo testo per la meditazione e la preghiera: il commento di un gigante della teologia al dramma della croce, seguendo le pennellate dei disegni in bianco e nero di Josef Hegenbarth per la cattedrale di S. Edvige a Berlino. Non un commento estetico, ma una riflessione aperta sul dramma del dolore del Cristo.
Descrizione
All’inizio degli anni Sessanta un maturo Josef Hegenbarth (1884-1962) realizzò le quattordici stazioni della Via crucis per la cattedrale S. Edvige a Berlino, appena ricostruita. A quell’opera l’artista – pittore, grafico, illustratore e ritrattista tedesco – diede forma dopo lunghe esitazioni: senza preparazione, contrariamente al suo solito, e inseguendo con passione una visione artistica e religiosa, egli abbozzò i quattordici disegni a pennello in bianco e nero, un foglio dopo l’altro, impiegandoci poche settimane.
Hans Urs von Balthasar è entrato in una sorta di sintonia letteraria e teologica con i disegni dell’artista e ne ha scritto un commento, accompagnando le immagini parola per parola. Ne è nato un bellissimo testo per la meditazione e per la preghiera: non un commento estetico, ma una riflessione aperta sul dramma del dolore del Cristo, scritto dall’autore della Teodrammatica.
In breve
I padri della chiesa raccomandavano una “sobria ebbrezza”. Perché la fede conosce entrambe le cose: sia l’estasi sia la rinuncia. Entrambe si trovano nella vita di Gesù, così come nella storia della spiritualità cristiana. La via della sobrietà fa dunque raggiungere una condizione esistenziale che si rivela non grigia, ma piena di brio.
Descrizione
Sobrietà è un concetto che di primo acchito suona un po’ sorpassato. Ad un esame più attento, tuttavia, è ciò che ci augureremmo non di rado come risposta a certi stili di vita, oggi diffusi, che indicano nell’eccesso l’unica fonte della felicità.
In ambito spirituale, la sobrietà svolge un ruolo importante da millenni e significa molto di più che avere semplicemente lo stomaco (parzialmente) vuoto. Si tratta, piuttosto, di una condizione nella quale si riesce a guardare le cose dal basso, a riconoscere ciò che è autentico, senza essere distratti dalle proprie o dalle altrui opinioni e intenzioni.
In questo libro Mauritius Wilde invita allora a riscoprire la virtù cristiana della sobrietà. Egli prende in esame le diverse sfaccettature di questo concetto antico eppure così attuale e mostra quale significato spirituale e pratico possa avere per noi oggi – al di là dei luoghi comuni.
Queste pagine presentano sotto il profilo teologico quell'ambito esperienziale che è la musica. La musica è linguaggio singolare che, oltre ad essere altamente espressivo, si mostra "universale" perché capace di affratellarci; è linguaggio che come nessun altro sa far percepire il Mistero nella dimensione simbolico-estetica dell'arte. Non c'è espressione dei sentimenti umani più grande della musica. Sulla sua magia hanno riflettuto tanti uomini e donne di cultura lungo la storia (matematici e filosofi, musicisti e teologi...), aspirando a decifrare le orme della Bellezza che si rivela nella "teofania" dei suoni. Sulla loro scia, questo studio - nato dall'esperienza didattica - si pone a sua volta l'obiettivo di introdurre a un discorso teologico sull'intero fenomeno musicale, dalla sua genesi ispirativa fino alla sua realizzazione scritta, dalla sua esecuzione al relativo riscontro sull'uditorio, quale recezione contemplativa entro le categorie estetiche dell'arte. «La riflessione non si restringe all'ambito della musica sacra o della musica liturgica. Allarga, invece, l'orizzonte speculativo al "fenomeno musicale" in senso lato, là dove appaiono con evidenza possibili incidenze spirituali» (Sergio Militello).
Il presente commento al più antico dei quattro vangeli intende assecondare un'autorevole indicazione dell'esortazione apostolica Verbum Domini di papa Benedetto XVI (n. 34). Di fatto, esso si propone di avviare a una rinnovata lettura "canonica" del testo evangelico, collocandolo nell'orizzonte complessivo dell'unica e molteplice "parola di Dio". Questo genere di lettura viene suggerito mediante due specifiche attenzioni aggiuntive nella spiegazione del testo, che per il resto segue il modello consueto e rodato dei commentari: a) una citazione tratta da un commento dei Padri della Chiesa, la cui funzione è quella di illustrare in modo esemplificativo l'esegesi della grande trazione; b) una esplorazione delle risonanze del testo di Marco nell'insieme delle Scritture: di volta in volta ci si sofferma su di un singolo tema, il più significativo per quella pericope, dando forma a un Excursus dedicato. Se un'esegesi sempre più specialistica rischia di smarrire la ricchezza del testo biblico, sciupandone la fecondità, questo nuovo commento evidenzia come il racconto di Marco appartiene a un discorso unitario che dalla Genesi giunge all'Apocalisse e le cui singole parole acquistano il loro pieno significato se ricondotte a quella parola che è il Verbo fatto carne. Un commento al Vangelo di Marco che conduce alla scoperta di un orizzonte più arioso, suggestivo di molteplici attualizzazioni.
Prendendo le mosse dalla Prima lettera ai Corinzi, letta attraverso il decostruzionismo di Derrida, il saggio offre una prospettiva di riconcettualizzazione radicale: rifiutare l'idea metafisica di Dio come Ente supremo, onnisciente e onnipotente, per riconoscerne la natura di "evento" che si concretizza nei termini elusivi e folli di una "chiamata". Caputo rigetta il teismo metafisico classico e avanza il programma di una "teologia debole". Quest'ultima scalza la dicotomia fra secolarismo e religione o fra ateismo e teismo, per innervarsi in ogni aspetto della vita umana; e adotta come proprio linguaggio caratteristico una "teopoetica". Riscrivendo i paradigmi teologici, Caputo riscrive anche il senso e la possibilità stessa della fede. Di qui l'idea di un regno di Dio «non ha bisogno di Dio» e che si traduce in una ricerca appassionata dell'agápe e della giustizia nel mondo. Un progetto provocante e visionario, "radicale" perché intende "scavare alle radici", destinato a rivoluzionare il modo abituale di pensare Dio. «Tanto irriverente quanto serio, tanto irragionevole quanto avveduto, tanto teologico quanto a-teologico, La follia di Dio domanda fino a che punto siamo disposti a inoltrarci nella teologia della croce e cosa siamo disposti a lasciar cadere» The Christian Century.
Nei suoi discorsi davanti al Parlamento europeo e al Consiglio d'Europa papa Francesco non ha esitato a tratteggiare l'immagine di un'Europa ferita, che sta attraversando una profonda crisi di fiducia e di speranza. Anche il cristianesimo è toccato da questa crisi: la sua forza ispiratrice sembra indebolita. Siamo dunque posti di fronte all'alternativa: estinzione o riforma. Christoph Theobald coglie l'occasione di questa sfida per farne l'innesco di una traduzione contemporanea della fede, della speranza e della carità biblico-cristiana. Egli si lascia guidare dalla domanda: come testimoniare oggi una speranza comune e come rendere possibile una fiducia reciproca? Le sue riflessioni lo conducono a comprendere l'essere cristiano come una maniera di vivere secondo una santa ospitalità, suscettibile di costruire fiducia, di generare speranza e di rivitalizzare, in tal modo, un continente ferito. L'attenzione di Theobald, uno fra i teologi cattolici più apprezzati e seguiti al mondo, cade nello specifico non solo sulla fede esplicitamente cristiana, ma anche su quei momenti decisivi dell'esistenza in cui si manifesta una "fede nella vita": lì si dà una vera e propria apertura al vangelo di Cristo. Ne discende, così, una teologia della fede e della grazia che risultano incarnate in un preciso contesto storico e geografico: quello del Vecchio Continente.