
Se si risale alla più remota antichità indiana, a un'epoca che precede il Buddha e quella cultura che gli occidentali sono soliti identificare con l'India stessa, si trovano, anziché vestigia di monumenti chiuse in un silenzio altero, null'altro che testi, spesso di dimensioni imponenti, i quali compongono l'immenso corpus chiamato Veda. E il Veda ruota intorno a un cardine, a un centro potente che non potrebbe essere per noi più misterioso: il sacrificio, che pur incarnandosi in riti molteplici "è diffuso ovunque; risiede allo stato latente in tutto ciò che è, poiché 'tutto ciò che è partecipa al sacrificio', ma, 'come gli dèi, sfugge ai sensi'". Chi voglia capire che cos'è questa mirabile architettura di parole e gesti minuziosamente codificati non può che rivolgersi ai Brahmana, i testi vedici di esegesi liturgica, che nel dar ragione di ciascun elemento dei riti intessono un reticolo vertiginoso di connessioni volto a catturare l'universo dei significati nelle maglie del sacrificio. Ma per mole e complessità i Brahmana sarebbero rimasti una foresta quasi impenetrabile per il non specialista se l'eminente indologo Sylvain Levi non avesse pubblicato, sulla base di lezioni tenute negli anni 1896-1897, questo libro: una guida al pensiero dei Brahmana costruita interamente attraverso il sapiente incastro di citazioni emblematiche, che nella sua scrupolosa esattezza induce qualsiasi lettore a riconoscere l'audacia e l'altezza speculativa di questi testi.
Quando qualcuno si accinge a scrivere la biografia di qualcun altro, parenti e amici del biografato cercano quasi sempre di ostacolare un'iniziativa che, in un futuro minacciosamente vicino, li costringerebbe a leggere la solita compilazione di svarioni, congetture e voli di fantasia non autorizzati. È quindi ovvio che né la moglie, né il fratello, né l'amante del defunto Jules Gund, autore di un solo e venerato libro, desiderano che il giovane Omar Rezaghi si rechi nella tenuta di famiglia in Uruguay, e s'inpicci di faccende che non lo riguardano. È solo l'inizio di una commedia dove nessuna combinazione di fatti, sentimenti o rivelazioni è esclusa in partenza.
Quando Paul Valéry fu accolto, nel 1925, fra gli "immortali" dell'Académie française, si vide costretto - lui che non aveva grande stima per l'arte del romanzo - a pronunciare l'elogio di Anatole France, suo predecessore. In un 'panegirico' divenuto leggendario, non solo riuscì a parlare di France senza mai menzionarne il nome, ma con squisita perfidia contrappose le sue opere a quelle di Tolstoj, Ibsen, Zola, tacciandole di leggerezza. Non c'è da stupirsi, ci avverte Kundera: difficilmente il romanziere rientra nella schiera di coloro che incarnano lo spirito di una nazione. Proprio in virtù della sua arte, il romanziere è per lo più "segreto, ambiguo, ironico", e celato com'è dietro ai suoi personaggi - difficilmente si lascia ridurre a una convinzione, a un atteggiamento: quel che gli preme non è la Storia (e tanto meno la politica), bensì il "mistero dei suoi attori". Come Beckett, è libero, persino dal virtuoso senso del dovere che lo vorrebbe prigioniero di un Paese o di una lingua; come Danilo Kis, respinge ogni etichetta, anche quella, proba e accattivante, di emigrato o dissidente; come Skvorecky, è pronto a rivolgere il suo "inopportuno humour" contro il potere e insieme contro il "vanitoso gesticolare" di chi protesta. E spesso finisce sulle liste di proscrizione che governano i gusti letterari: soprattutto quando, come Malaparte, ci rivela la cupa bellezza di una realtà diventata folle, la nuova Europa nata da un'immensa disfatta, e un nuovo modo, vinto e colpevole, di essere europei.
"Nel VI secolo interviene un fattore nuovo a trasformare in modo decisivo la vita spirituale della Grecia, cioè il fenomeno cosiddetto dionisiaco. Il fenomeno dionisiaco è stato prevalentemente studiato nel suo aspetto artistico e religioso, e quasi mai si è analizzata la sua relazione sostanziale con l'intera evoluzione spirituale greca, e soprattutto con la filosofia. Con un termine più filosofico si può chiamare misticismo questo movimento; mentre sin qui l'uomo aveva guardato il mondo e in questo aveva inserito come parte se stesso, ora si stacca da tutto, si volge alla propria interiorità, e ricercando in se stesso vi trova il mondo e la divinità. Vediamo così coesistere nel VI secolo in Grecia due visioni del mondo antitetiche, una politica e una mistica: dall'urto di queste forze nasce il miracolo della filosofia greca. Nel nostro studio seguiremo costantemente questa distinzione fondamentale, sviluppandola e giustificandola sui testi dei Presocratici e di Platone". Sarebbe difficile trovare parole migliori di quelle dello stesso Colli per presentare questo suo scritto, un'opera che soltanto dal punto di vista meramente cronologico si può definire giovanile, poiché già contiene in forma compiuta e matura interpretazioni ricorrenti in tutto il suo percorso filosofico. Interpretazioni che sono ancora oggi tanto misconosciute quanto fondamentali per "comprendere nella sua essenza l'origine della filosofia greca".
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce"; con questa dedica si apre "L'incendiaria" di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i "brividi silenziosi e cumulativi" che - per usare le parole di un'ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo "La lotteria". Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai 'cattivi', ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
Povero Maigret: mai, in tutta la sua carriera, si è sentito umiliato come quando, di fronte a un pivello di questore che gli sorride con amabile perfidia, è costretto ad ammettere con se stesso di essere caduto in una trappola - peggio: di essersi fatto fregare come un principiante, e per di più da una ragazzina di neanche diciott'anni, nipote di un pezzo grosso del Consiglio di Stato, che ha raccontato alla polizia di essere stata rimorchiata proprio da lui, Maigret, in un caffè, di essere stata trascinata in un albergo e di aver ricevuto pesanti avance. Ma la ragazza non può aver fatto tutto da sola. E anche quel giovanottino pretenzioso e arrogante, il nuovo questore (al quale Maigret avrebbe comunque dato volentieri un pugno in faccia quando gli ha suggerito di offrire immediatamente le sue dimissioni), è solo una pedina. È talmente abbattuto, il commissario, e anche schifato, che sulle prime non ha il minimo desiderio di difendersi, anzi, accetta la disfatta quasi con sollievo: basta responsabilità, basta nottate a interrogare malviventi ingoiando solo birre e panini della brasserie Dauphine... Ma avrà uno scatto d'orgoglio (tutti noi, del resto, stavamo aspettando questo momento con il fiato sospeso), e comincerà a chiedersi "chi c'è dietro", e per quale ragione è stata architettata quella ignobile messinscena. Mentre Parigi "frigge sotto il sole" di giugno, Maigret sa che vuole e deve scoprirlo. E che deve farlo, per una volta, da solo.
Munito solo di uno zaino da alpinista, un vecchio cappotto militare, stivali chiodati, l'Oxford Book of English Verse e un passaporto nuovo di zecca che gli attribuisce la professione di studente (anziché, come avrebbe auspicato, quella di vagabondo), nel dicembre del 1933 Patrick Leigh Fermor abbandona Londra e una carriera scolastica sciagurata e ribalda. Ha appena diciotto anni, vaghe ambizioni letterarie, ma un progetto nitido e grandioso: attraversare l'Europa a piedi come un palmiere o un cavaliere errante e raggiungere Costantinopoli - la «Bisanzio verde drago di Robert Byron, ossessionata dal serpente e tormentata dal gong». Quando vi arriva, il 1° gennaio 1935, è ormai un altro: non solo si è lasciato per sempre alle spalle disastri e misfatti, ma ha sviluppato una rara forma di nomadismo - viaggiare simultaneamente nello spazio e nel tempo - e l'arte, ancora più rara, di trasmetterlo agli altri. Che contempli lo splendore barocco dello Schloss Bruchsal o le nodose mani dei contadini fra cipolle tagliate, caraffe sbreccate e pane integrale; che dorma in un fienile steso come un crociato sulla tomba o nel 'capanno da caccia' del leggendario barone Pips Schey a Kövecses; che percorra il Reno su una colonna di chiatte che trasportano cemento o attraversi Vienna offrendosi come ritrattista a domicilio; che sperimenti il Katzenjammer, il 'doposbornia', a Monaco o elabori la «formula del Lanzichenecco» per spiegare l'architettura delle città tedesche prebarocche; tutto ci appare il dettaglio di un fantasmagorico affresco, tutto sembra ricomporsi in un gigantesco puzzle dove risorge, come un'emanazione di incredibile e accattivante splendore, il passato dell'Europa. E insieme scopriremo qui il modello ancora fragrante di quel modo di viaggiare (e di vivere) che sarà un giorno identificato con la fisionomia di un giovane amico di Fermor: Bruce Chatwin.
Il villaggio dei solenni Meo, nel Laos, pervaso dall'odore potente e «di immensa stravaganza » dell'oppio, dove tutto sembra sospeso; il lampo d'oro, destinato a durare per l'eternità, che gli occhi e i capelli di Ignazio, l'amico adolescente, mandano un giorno su un campo da tennis; la tigre avvolta dalla nebbia e come «distesa su piume o aria » che appare d'improvviso, alla luce dei fari, su una strada della Malesia; il pavillon fuori moda dove - fra spumeggianti bicchieri di Itala Pilsen, giovani donne fasciate di seta o rayon e ufficiali tedeschi col monocolo - pochi minuti di oscuramento e il fischio degli Stuka possono condensare la guerra; l'«arruffio di gesti tutti precisamente sintonici», facili e silenziosi, che nel ricordo si rivelerà essere l'amore; lo sguardo appannato, «come una pellicola selvatica poggiata sulla cornea», di una delle più famose spie, Kim Philby, colto in un albergo di Mosca. Sono gli inattesi lampi di verità, gli improvvisi scatti della memoria, le irripetibili manifestazioni dell'arte della vita offerti ai lettori del «Corriere della Sera» fra l'aprile del 1982 e il marzo del 1983: e non è un caso che, quasi a radunare idealmente questi brevi testi di massima densità in un terzo e più malinconico 'sillabario', Parise avesse scelto la rubrica Lontano. Perché quello che si impara - sembra dirci Parise - lo si impara di colpo, da un momento all'altro, ma per lo più nel ricordo, quando ormai è troppo tardi. E il mistero lo si può forse risolvere, ma una sola volta e per qualche secondo - e come «azzeccarlo, nella instancabile roulette»?
«Per decifrare il codice dell’anima e capire il carattere, la vocazione, il destino, nel suo best seller Hillman si ispira al mito platonico di Er: l’anima di ciascuno di noi sceglie un “compagno segreto” (daimon lo chiamavano i greci, genius i latini, angelo custode i cristiani). Sarà lui a guidarci nel cammino terreno. Eminenti modelli sfilano sotto l’occhio stregonesco di Hillman ... Il suo set è affollatissimo. Judy Garland, Joséphine Baker, Woody Allen, Quentin Tarantino, Hannah Arendt, Manuel Manolete, Henry Kissinger, Richard Nixon, Truman Capote, Gandhi, Yehudi Menuhin, Elias Canetti e tanti altri, con le loro storie d’infanzia e maturità abilmente sezionate dal bisturi analitico, testimoniano apoteosi e disastri. Ma nell’età della psicopatia il ruolo del protagonista spetta a Hitler: il suo demone gli ha cucito addosso la divisa di un prototipo, il criminale dei tempi moderni. Forse di tutti i tempi» (Enzo Golino).
«Vrades pro sempere!», fratelli per sempre: questo si giurano Zosimo e Nemesio il giorno in cui quest’ultimo lascia il paesino di Crapiles per andare a iscriversi all’università. Zosimo, che a Crapiles ci è nato, rimarrà a fare il pastore: come suo padre, come il padre di suo padre. Sebbene così diversi, i due ragazzi sono stati amici dal giorno in cui la famiglia di Nemesio è arrivata in paese dal «continente». Ed è stato proprio il piccolo forestiero, coi riccioli che sfuggivano da sotto il cappello foderato di pelliccia e «due occhi color prugna acerba», a staccare da una grondaia una lunga «spada di ghiaccio», a spezzarla e a regalarne una metà a Zosimo, che lo guardava stupefatto: «Questa è la spada del generale inverno,» ha dichiarato con la serietà di cui sono capaci i bambini «che si divide solo con un nuovo amico!». Da quel momento sono stati inseparabili: Zosimo ha portato Nemesio a casa sua, dove lo hanno accolto come un figlio, gli ha insegnato a mangiare formaggio di pecora con il pane crasau, e a cercare nei boschi i nidi dei colombacci. Nessun dubbio, nessun sospetto, nessun cattivo pensiero può scalfire nell’animo puro di Zosimo l’amore per l’amico. Così come nessuna malalingua potrebbe gettare un’ombra su quello per la bella Columba, di cui fin da piccolo è innamorato e che sta per diventare sua moglie. Dopo la partenza di Nemesio le loro strade si divideranno, ma solo per tornare a incrociarsi molti anni dopo: e allora, cadute le maschere, scoppierà il dramma.
In questo romanzo Niffoi ci racconta con mano sicura una vicenda di amore e di amicizia che conferma le sue straordinarie doti di narratore di storie, anzi, di vero e proprio cantastorie: uno di quelli ancora capaci di incantarci con una fantasia lussureggiante – e con la musica di una lingua potentemente suggestiva.