Che cosa significa amore? E se diciamo: «Ti amo», cosa desideriamo comunicare? Sono domande che avevano poco ascolto quando, in tempi non lontani, le grandi utopie storiche dominavano il discorso pubblico, mentre la sfera dei sentimenti era e doveva rimanere una questione privata. Poi, tramontate le speranze di trasformazione radicale della società, quel mondo di affetti personali relegati, quasi nascosti, in un angolo, è riemerso, mostrando la sua forza e condizionando la vita pubblica. Oggi «tutto avviene nel nome dell'amore», fino a esasperarne il significato e tradendo il valore di quelle domande. Il libro di Stefano Zecchi mette ordine a ciò che chiamiamo - con sincerità o ostentazione - «amore», accompagnandoci in un viaggio alla scoperta dei diversi modi di viverlo e comprenderlo. Dai grandi miti alla filosofia, ai testi della nostra classicità, passando per gli immortali romanzi ottocenteschi, film e canzoni dei nostri giorni, Zecchi ragiona sulla natura del sentimento più affascinante e contraddittorio: amore passionale, romantico, sentimentale, vanitoso; amori sbagliati, impossibili, disperati. Dopo aver indagato le trasformazioni che il linguaggio dei sentimenti ha subito dal secolo scorso a oggi, Zecchi riflette su come siano cambiate le relazioni in seguito alla rivoluzione sessuale, sul matrimonio e sul divorzio, ma anche sui nuovi significati della maternità e sulla continua evoluzione della figura paterna. E poiché «l'amore ci interroga sul senso del futuro, su ciò che lasceremo alle generazioni che verranno», esso si esprime anche nella cura della Terra dei figli. Il viaggio si conclude riannodando i fili che congiungono l'amore alla bellezza, perché «il bene si comprende attraverso il significato del bello e l'amore trova nella bellezza la sua espressione più vera».
Rita è una bambina sveglia, curiosa e a cui piace imparare. O meglio... le piace studiare quello che la appassiona! Fin da piccola, insieme al fratello Gino e alle sorelle Nina e Paola, ama esplorare la natura e osservare gli animali. Che si trovi a Torino, al Parco del Valentino, in montagna a Balme, oppure nel cortile di casa, Rita non può fare a meno di stupirsi di fronte alla imprevedibilità della vita. Gli anni passano, Rita cresce e con la sua determinazione, sorretta dal resto della famiglia, riesce a convincere il padre a permetterle di frequentare l'università, nonostante lui avesse in mente per lei un futuro diverso. Rita si iscrive così a Medicina. Il mondo nel frattempo cambia e purtroppo la guerra e i suoi orrori sono dietro l'angolo. Rita, in quanto ebrea, sarà costretta a nascondersi. Nulla però le impedirà di continuare a studiare e a sperimentare. L'incredibile storia della giovane Rita Levi-Montalcini, prima e unica donna italiana ad aver vinto il Premio Nobel per la Medicina: il tenero racconto della sua infanzia, testimoniato dalle lettere e dalle foto di famiglia, la passione vibrante per lo studio e la ricerca, sullo sfondo dei grandi eventi del Novecento. E di colpo, davanti a quel termometro che aveva visto innumerevoli volte, le sembrò che tutto il tempo trascorso da quando aveva finito il liceo s'illuminasse di un nuovo significato. L'inquietudine che veniva così spesso a trovarla si dissolse. «Io voglio studiare medicina. A qualsiasi costo.» Età di lettura: da 10 anni.
L'8 settembre 2022, a pochi mesi dalle celebrazioni per il Giubileo di Platino, si è spenta a novantasei anni tra le mura del castello di Balmoral in Scozia Elisabetta II, l'ultima grande regina. Perché «l'ultima»? Perché dopo di lei verranno tre re. Perché nessun monarca britannico ha regnato più a lungo. E perché ci ha accompagnato dal primo dopoguerra fino alla rivoluzione digitale, diventando una presenza costante per almeno tre generazioni, non soltanto nella vita dei propri sudditi ma del mondo intero. Eppure, in oltre settant'anni sul trono, Elisabetta II non ha concesso una sola intervista, ha pronunciato rari discorsi pubblici e non ha mai preso una vera decisione nelle scelte del Regno Unito. Nonostante fiumi di articoli, libri e film sul suo conto, ora che è scomparsa rimane il mistero di chi fosse davvero l'ultima grande testa coronata del nostro tempo: cosa le faceva battere il cuore, in che cosa credeva, per quale motivo ci affascinava tanto. Enrico Franceschini, che l'ha incontrata tre volte di persona e l'ha seguita per vent'anni come giornalista a Londra, racconta in queste pagine l'erede diventata sovrana per caso, la principessa salita una sera su un albero per ridiscenderne il mattino dopo nei panni di regina, i quattro matrimoni e il funerale che hanno segnato la sua monarchia. L'autore ricostruisce i tre ritratti che ne hanno rivelato l'anima, i soldi che spendeva e gli introiti che fruttava la sua «Ditta», i suoi viaggi e i suoi incontri con i grandi della Terra, il rapporto con l'amato Filippo, con il figlio Carlo, ora diventato re, con i nipoti e, non ultimo, con Diana, Camilla, Kate, Meghan, cosa la faceva ridere, arrabbiare e addolorare, il suo amore per i cavalli e gli adorati corgi. Una nuova biografia che ripercorre la vita di Elisabetta II fino agli ultimi istanti, per celebrare uno dei personaggi più significativi del ventesimo e del ventunesimo secolo. Una regina come nessun'altra
«Cent'anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l'aveva messo al mondo». Comincia così il racconto di Aldo Cazzullo su Mussolini. Una figura di cui la maggioranza degli italiani si è fatta un'idea sbagliata: uno statista che fino al '38 le aveva azzeccate quasi tutte; peccato l'alleanza con Hitler, le leggi razziali, la guerra. Cazzullo ricorda che prima del '38 Mussolini aveva provocato la morte dei principali oppositori: Matteotti, Gobetti, Gramsci, Amendola, don Minzoni, Carlo e Nello Rosselli. Aveva conquistato il potere con la violenza - non solo manganelli e olio di ricino ma bombe e mitragliatrici -, facendo centinaia di vittime. Fin dal 1922 si era preso la rivincita sulle città che gli avevano resistito, con avversari gettati dalle finestre di San Lorenzo a Roma, o legati ai camion e trascinati nelle vie di Torino. Aveva imposto una cappa di piombo: Tribunale speciale, polizia segreta, confino, tassa sul celibato, esclusione delle donne da molti posti di lavoro. Aveva commesso crimini in Libia - 40 mila morti tra i civili -, in Etiopia - dall'iprite al massacro dei monaci cristiani -, in Spagna. Aveva usato gli italiani come cavie per cure sbagliate contro la malaria e per vaccini letali. Era stato crudele con tanti: a cominciare da Ida Dalser e dal loro figlio Benitino. La guerra non fu un impazzimento del Duce, ma lo sbocco logico del fascismo, che sostiene la sopraffazione di uno Stato sull'altro e di una razza sull'altra. Idee che purtroppo non sono morte con Mussolini. Anche se Cazzullo demolisce un altro luogo comune: non è vero che tutti gli italiani sono stati fascisti. E l'antifascismo dovrebbe essere un valore comune a tutti i partiti e a tutti gli italiani.
Funzionario di Satana di lunga esperienza e grande efficienza, Berlicche invia al giovane nipote Malacoda, diavolo apprendista, una serie di lettere per istruirlo nell'arte di conquistare (e dannare) il suo "paziente". Ogni manifestazione della vita, dal pensiero alla preghiera, dall'amore all'amicizia, dal divertimento alla vita sociale, dal piacere al lavoro e alla guerra: tutto viene distorto a scopo diabolico e diventa un espediente per perdere gli uomini. Divertente, intelligentissimo, vero e proprio "catechismo infernale", Le lettere di Berlicche narra con arguzia la contesa di un'anima tra il bene e il male, sullo sfondo dell'Inghilterra bombardata della Seconda guerra mondiale. Uno scenario in cui l'inferno non è un buco nero pieno di fuoco, grida e forconi, ma un'azienda perfettamente efficiente; perché - scrive l'autore nella Prefazione all'edizione del 1961 - «il male supremo non è compiuto in quegli squallidi "covi del crimine" che Dickens amava descrivere. Non è compiuto neppure nei campi di concentramento e nei campi di lavoro. Lì vediamo il suo risultato finale. Invece viene concepito e ordinato (mosso, assecondato, portato avanti e scandito) in uffici puliti, caldi, coi tappeti e ben illuminati, da uomini tranquilli coi colletti bianchi, manicure perfetta e guance ben rasate che non hanno bisogno di alzare la voce». Un'immagine che, oggi come ieri, mette i brividi più di mille code biforcute e ali di pipistrello. Prefazione di Andrea Monda.
Aristotle Mendoza e Dante Quintana si sono innamorati, ma adesso devono imparare a coltivare il loro amore, in un mondo che sembra sfidare la loro stessa esistenza. Nessuno sembra capirli, ma i due ragazzi sono ben decisi a trovare la propria strada. Quando però Ari si trova a dover fronteggiare una perdita dolorosa, dovrà combattere come mai prima per costruirsi una vita che sia veramente, gioiosamente sua.
«Delle tre cantiche il Purgatorio è quella che più facilmente possiamo sentire nostra. Perché nostra, quotidiana, è la domanda drammatica da cui tutto il cammino del Purgatorio muove: si può ricominciare? Il male c'è, è innegabile, a volte sembra invincibile, per quanto ci sforziamo, ci ricadiamo sempre; ma davvero è l'ultima parola? Si può sperare di raggiungere il bene? Di tornare "puri e disposti a salire a le stelle"?» (Franco Nembrini)
«Credo che qui si nasconda il dono più grande di Dante che noi non possiamo assolutamente trascurare, perché ne va della nostra felicità. Dante scrive il Paradiso per aprirlo dentro di lui e dentro chi avrà la pazienza e il coraggio di seguirlo: di muoversi con lui. In paradiso non ci si va, ci si sta, solo se lo si vuole accogliere, o meglio liberare, dentro di sé.» (Alessandro D'Avenia)
Giovedì 2 settembre 1971. Un carro funebre, partito dal cimitero Maggiore di Milano, sfreccia lungo la Riviera italiana e francese in direzione del confine spagnolo. L'autista non sa ancora chi sta portando a Madrid. I documenti identificano la defunta come Maria Maggi vedova De Magistris, ma l'eccentrico personaggio che accompagna il feretro, e si presenta come il fratello, sa che quelle carte mentono. Nella bara c'è il corpo mummificato di Evita, che per quattordici anni è stata sepolta sotto falso nome. Sta tornando dal marito, Juan Domingo Perón, l'ex presidente dell'Argentina, esule nella Spagna di Francisco Franco dopo essere stato deposto nel 1955 dalla Revolución Libertadora. Inizia così, con i ricordi tuttora vividi dello chauffeur italiano che inconsapevolmente contribuì a trafugare la mummia più ricercata al mondo, la biografia della donna che in patria continua a essere venerata come una santa. Oppure odiata come un'arrampicatrice senza scrupoli. Quel viaggio, in fondo, è anche la metafora della vita di Eva Duarte: un'esistenza vissuta a tutta velocità, bruciata dall'ansia di arrivare. Viva o morta, il suo traguardo è sempre stato Perón. Le intense pagine di Elisabetta Rosaspina la seguono da quando, sedicenne, partì dall'anonimato e dalla povertà della pampa verso il suo riscatto, nella Buenos Aires degli anni Trenta e Quaranta. Cercava fortuna come attrice, l'avrebbe trovata come politica e filantropa, fino a diventare la donna più potente dell'America Latina, capace di riscuotere l'ammirazione dell'Europa intera, allorché, nell'immediato dopoguerra, girò la Spagna, l'Italia, il Vaticano, la Francia, il Portogallo e la Svizzera in settantanove giorni di lussi e di misteri. Ha «regnato» sull'Argentina appena sette anni, consacrandosi all'amore per i suoi descamisados e all'odio per l'oligarchia, eppure sarà sempre circondata da intrighi e sospetti, idolatria e maldicenza. Persino sulle sue spoglie, «eternizzate» da un medico spagnolo, si scateneranno battaglie, e sulla sua memoria continueranno a scontrarsi sostenitori e detrattori. L'enigma di Evita, agli occhi del mondo, non è mai stato svelato.
«Un nuovo commento alla Divina Commedia senza nessuna pretesa specialistica, nato dall'amicizia con un gruppo di ragazzi che ha accettato la sfida di un dialogo tra il Sommo Poeta e la loro vita di ogni giorno, con le sue ferite e le sue domande. Un commento che, arricchito dalle formidabili immagini di Gabriele Dell'Otto, spero possa contribuire allo scopo che Dante stesso si era prefissato scrivendo la Commedia: "allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità". Tutti, indipendentemente dall'età, dalla professione, dal grado di studi.» (Franco Nembrini)