
Esistono innumerevoli parole ed espressioni che fanno parte del nostro linguaggio quotidiano e che spesso, erroneamente, consideriamo una recentissima acquisizione dalla lingua inglese. Quando ci sediamo davanti a un monitor, magari per seguire le lezioni di un tutor o per aggiornarci sull'andamento dell'ultimo summit internazionale attraverso i mass-media, ci sentiamo all'avanguardia e fieri di avere grande dimestichezza con il mondo anglosassone, dimenticando che dobbiamo tanta «modernità» al latino che parlavano i nostri avi. Nell'insolita veste di cultore di una lingua con la quale ha avuto l'opportunità di confrontarsi fin da giovanissimo, Vittorio Feltri risale alle origini di vocaboli e locuzioni di uso comune, illustrandone la genesi e il significato talvolta travisato nel corso del tempo. Molti resteranno forse delusi scoprendo che il celeberrimo alea iacta est - «il dado è tratto» attribuito a Cesare e da sempre usato per sottolineare con fare solenne l'irrevocabilità di una decisione presa - potrebbe essere frutto di un'errata trascrizione da Svetonio, e che la frase corretta (alea iacta esto, «si lanci il dado») era probabilmente un imperioso invito a gettare il cuore oltre l'ostacolo, in questo caso il Rubicone. Ma nelle belle pagine di Feltri, non certo un noioso compendio di letteratura latina, trovano posto anche gli inevitabili e pungenti accenni all'oggi, sia con poco edificanti esempi di quanto siano attuali il do ut des e l'homo homini lupus, sia, per nostra fortuna, con le storie di personaggi che dimostrano il valore del detto per aspera ad astra. Al di là del tono ironico che sempre contraddistingue Feltri, Il latino lingua immortale è in fondo un'appassionata dichiarazione d'amore per una lingua che, ben lungi dall'essere morta, dimostra ogni giorno, e lo farà ancora a lungo, la forza delle sue radici.
Perché sarebbe necessario un lungo cammino per diventare umani? Vivere appieno è un'opportunità che richiede impegno e consapevolezza, che ci spinge ad aprire gli occhi, su noi stessi e sul mondo. Come il piccolo Martino Testadura, protagonista di un racconto di Rodari, rifiuta di accettare la banalità e affronta «la strada che non porta in nessun posto» trovando ricchezze inaspettate, così anche noi siamo chiamati a sfidare l'ordinario e individuare nuove verità. Prendendo in prestito le parole dei grandi scrittori, don Paolo Alliata ci accompagna in un'esplorazione profonda e illuminante del cammino che ogni essere umano compie dalla nascita alla morte, un'avventura che non si esaurisce nel semplice trascorrere del tempo, ma che vuole conferire significato e direzione alla nostra esistenza. Nonostante i tempi cambino, infatti, la letteratura di ieri e di oggi offre un supporto prezioso nell'affrontare questioni esistenziali come la difesa della libertà e del bene comune, il confronto intergenerazionale, la responsabilità verso gli altri, la verità e l'ineluttabile esperienza della morte. Passando da Remarque a Umberto Eco, da Van Gogh a Tolstoj, Alliata ci guida in un viaggio letterario toccante e inedito ai confini tra terra e cielo. Un'opera che parla di fede, speranza e, quindi, dell'impegnativo e affascinante tragitto che approda alla scoperta di se stessi.
È ora che qualcuno lo dica: «Grazie, Occidente!». Ma sono due parole che non incontrerete altrove. Tutto il bene che abbiamo fatto, a noi stessi e agli altri, è il supremo tabù di questa epoca. Nelle scuole non si insegna più la storia vera del progresso, che è nato a casa nostra e dove ha avuto un ruolo anche l'Italia. Invece nelle piazze e nella cultura contemporanea siamo sotto un processo permanente. È ora di ribellarsi, in nome della verità. Cinesi o indiani, brasiliani o africani, il mondo è popolato da miliardi di persone che devono la loro stessa esistenza... a noi. La scienza occidentale, pensiamo alla nostra medicina e alla nostra agronomia, è stata copiata e applicata dal resto dell'umanità con benefici immensi. Se la longevità è aumentata, la mortalità infantile è crollata, il livello d'istruzione è cresciuto nel mondo intero, è perché l'Occidente ha esportato progresso. Dove si combatte per migliorare i diritti umani - per esempio la condizione della donna - il paradigma da emulare siamo noi. Il nostro modello industriale ha sollevato dalla miseria grandi nazioni. La sfida per un'economia più sostenibile e per decarbonizzare l'ambiente sarà vinta grazie alla ricerca scientifica e all'innovazione tecnologica dell'Occidente. Viviamo in un'epoca in cui pronunciare queste verità è scandaloso, è proibito. Il conformismo dominante impone una versione bugiarda della storia, in cui la «razza bianca», europea o nordamericana, ha seminato solo distruzione, oppressione, sofferenze. L'idea stessa di progresso è disprezzata, siamo sottoposti a un lavaggio del cervello quotidiano per inculcare la certezza che l'Apocalisse è dietro l'angolo (per colpa nostra). In questo viaggio tra la storia degli ultimi secoli e la geopolitica del mondo contemporaneo, Federico Rampini approfondisce quel che l'Occidente è stato davvero per l'umanità. Quali tratti originali della nostra civiltà hanno fatto sì che da mezzo millennio il progresso nasca qui e non altrove? Perché la Cina e l'Iran oggi si definiscono «repubbliche», un concetto che non esiste in Confucio o nel Corano? Una lezione di onestà storica è urgente per le nuove generazioni, aiuta a ricostruire la nostra autostima e a vedere il futuro con più fiducia.
«Una ragazza mi ferma nel cortile dell'università, mi parla della sua ansia, della paura di non essere all'altezza delle aspettative, piange silenziosamente e mi chiede come si può scegliere la strada.» Inizia da questa domanda il viaggio di Mario Calabresi in giro per l'Italia, alla ricerca delle storie di chi, attraverso la propria vita ordinaria e straordinaria, è stato capace di trovare una via nelle incertezze. Tra questi incontri ci sono un ingegnere che raccoglie i suoni più antichi della natura per trasmetterli alle generazioni future, una poetessa che impara dal silenzio ad ascoltare il visibile e l'invisibile, un professore di filosofia che insegna a vedere i limiti come occasioni, e un centenario che per tutta la vita si è preso cura di un bosco e ne ha ereditato il tempo. È un percorso lento, di ascolto, alla ricerca di un luogo in cui l'attimo presente non sia fine a se stesso ma si mescoli con il passato e ci parli di futuro, e di un'età in cui «essere grati è il primo passo per godere di ciò che è, e per averne cura». Una testimonianza preziosa, che ci fa riflettere su quanto abbiamo ancora bisogno di recuperare l'attenzione, il senso di un istante in cui esistono attesa e noia, e tornare a rimettere al centro delle nostre giornate le cose importanti e non quelle urgenti. Calabresi colleziona frammenti di vita, silenzi e gesti inattesi per rispondere a una giovane donna di cui non conosciamo il nome, ma della quale condividiamo i dubbi, che forse sono quelli di tutti noi.
Varcare le frontiere è la testimonianza di uno tra gli intellettuali più lucidi e vivaci del nostro tempo, e al contempo, un viaggio attraverso la migliore storia del nostro Paese dal dopoguerra a oggi, nelle cui pieghe si riconosce un'Italia laboriosa, mossa da princìpi saldi nel presente, fiduciosa sull’avvenire.
Interrogare la memoria è un esercizio diffi​cile, una sfida, a volte un azzardo. Senz'altro è un'occasione per trarre insegnamenti preziosi, come dimostrano queste pagine nelle quali Sabino Cassese, uno fra i più noti giuristi italiani, ripercorre la sua lunga carriera di studioso, anzi di "savant". Non una ricerca del tempo perduto, quanto un'autobiografia intellettuale, un ritorno su se stessi, per riannodare i fili del passato e ricomporre l'affresco delle idee, dei dibattiti, dei protagonisti che hanno animato non solo le scienze del diritto, ma la vita accademica, culturale e politica del nostro Paese. Vi si leggono le esperienze di una vita spesa con umiltà e curiosità. Dalla giovinezza durante il fascismo ai ricordi familiari, dagli studi alla Scuola normale superiore di Pisa agli anni all’Ufficio studi dell’Eni di Enrico Mattei, dagli incarichi presso le più prestigiose università italiane e straniere agli impegni nei settori bancario e giudiziario, Cassese dipinge una tela fatta di interessi e passioni, di viaggi e di incontri in primo luogo quelli con i grandi autori del passato, grazie ai libri più amati, studiati e meditati, di riflessioni e di analisi. E poi la politica ai vertici delle istituzioni, le ricerche di respiro internazionale, la collaborazione con giornali, riviste e case editrici come forma di impegno civile, l'etica del lavoro, la partecipazione informata e responsabile al dibattito pubblico nelle vesti di osservatore attento dei fatti sociali. Ne emerge, da ultimo, un accorto esame dell'Italia di oggi e un giudizio sullo stato della nostra Repubblica.

Il Vangelo di Giovanni è il più colto dei Vangeli ma anche il meno affidabile dal punto di vista storico. È questa un'opinione antica, diffusa, tenace. Ed è però un'opinione profondamente falsa.
Scrivere una storia d'Italia prima che Cesare passasse il Rubicone e Augusto realizzasse la pax romana può sembrare un'impresa azzardata. Fino alla battaglia di Sentino e alla vittoria su Pirro, infatti, Roma non aveva ancora un ruolo predominante nel Mediterraneo e la ricostruzione di una storia della nostra penisola è stata tentata solo raramente. In realtà, molto ci sarebbe da dire su questi secoli poco esplorati, ricchi di testimonianze che riecheggiano ancora oggi. Dalle leggende su Enea e Diomede, che riportano ai secoli attorno al Mille a.C., alle imprese dell'etrusco Tarconte o a Servio Tullio, il sesto re di Roma, alle gesta di personaggi storici come Furio Camillo, Dionigi il Grande di Siracusa o Annibale, protagonista dell'ultimo disperato tentativo di fermare l'avanzata romana. È in questa cornice che prendono vita le vicende dei popoli italici e delle loro imprese mediterranee, che suggeriscono come la storia del nostro paese sia tanto complessa quanto interconnessa. Valerio Massimo Manfredi e Luigi Malnati tornano a raccontare insieme la Storia in una nuova veste, con un approccio sia da storici dell'antichità che da scrupolosi archeologi. Un viaggio alla scoperta della nostra penisola prima del dominio romano, un racconto che fa luce su un'epoca ancora poco indagata, che rivela come l'idea di unitarietà geografica sia in realtà molto più antica di quanto pensassimo.
Dove sono finite oggi le nostre emozioni? Chiederselo non è un esercizio retorico, ma un interrogativo necessario. Viviamo in un mondo nel quale guerre, migrazioni epocali e nuove emergenze contribuiscono a creare un senso di precarietà, spingendoci a credere che le uniche modalità plausibili per sopravvivere siano la negazione e la paura. Solo che la prima ci condanna all'indifferenza, la seconda ci paralizza. In entrambi i casi, finiamo per relegarci in una solitudine che accomuna giovani e adulti, vecchi e bambini. Siamo all'età dell'atarassia, dell'insensibilità? Il rischio c'è, ed è sempre più concreto. Ai nostri giovani insegniamo a rimandare il momento di fare i conti con la vita vera. Li condanniamo a crescere fragili e spaesati. Rivendichiamo una scuola senza voti, riscriviamo per loro fiabe in nome del «politicamente corretto», privandoli della possibilità di far maturare le loro emozioni. Perché le nostre emozioni vanno allenate ogni giorno, ma, per crescerle e allevarle, occorre saperle sfidare, non negarle né rinunciarci. Preferiamo invece colmare quel vuoto emotivo con il cinismo e affidarci ciecamente ai nuovi prodotti dell'intelligenza artificiale, che minacciano di depotenziare le nostre capacità fisiche, cognitive ed emotive, la nostra meravigliosa imprevedibilità. La maggior parte di noi non è consapevole di questa diffusa anestesia dell'anima, ciascuno si limita a godere dei privilegi e del benessere materiale rinchiuso nel proprio bozzolo. Ignorando che in questo modo l'umanità intera rischia di imbarbarire. Ma, per chi lo volesse cercare, l'antidoto c'è. È l'empatia. Condividendo ricordi personali, incontri e riflessioni, Paolo Crepet ci esorta con passione a ribellarci all'indifferenza, a non aver paura delle nostre idee e neppure dei nostri inciampi. Ci invita a riappropriarci con audacia, quasi con sfrontatezza, delle nostre emozioni per tornare finalmente a «mordere il cielo».
Dark Isle è una piccola isola disabitata allargo della Florida non lontana da Camino Island, rinomato ritrovo di scrittori e intellettuali. Con la sua natura selvaggia e le sue spiagge incontaminate, Dark Isle ha tutto ciò che si può desiderare per una vacanza indimenticabile. Uno spregiudicato colosso immobiliare fiuta l'affare, determinato ad appropriarsene a ogni costo e a trasformarla in un mega resort turistico con un casinò. Intorno a quel paradiso aleggiano però leggende sinistre: annegamenti, sparizioni, storie di fantasmi e riti vudù da sempre hanno scoraggiato chi avrebbe voluto avvicinarsi. Solo una persona conosce la verità: la formidabile e indomita Lovely Jackson. Ottant'anni, ultima discendente degli schiavi che quasi tre secoli prima erano riusciti a liberarsi e avevano eletto Dark Isle a loro rifugio, Lovely è nata e ha vissuto lì per quindici anni e sostiene di essere l'unica legittima proprietaria dell'isola. Riuscirà a provarlo e a fermare la speculazione edilizia onorando la memoria dei suoi antenati? Ad aiutarla saranno il noto libraio antiquario Bruce Cable con la sua amica romanziera Mercer Mann, desiderosa di scrivere un libro sulla preziosa e commovente vicenda umana di Lovely, e Steven Mahon, avvocato esperto in battaglie ambientaliste, pronto ad affiancarla in una causa che si presenta dagli esiti davvero incerti. Dopo "Il caso Fitzgerald" e "L'ultima storia", John Grisham ritorna a Camino Island con una storia avvincente toccando alcuni dei temi che gli sono più cari: il razzismo, l'ingiustizia sociale e la corruzione.
In tutto l'Occidente, i primi vent'anni del XXI secolo sono stati segnati da una serie di movimenti di protesta e manifestazioni di frustrazione collettiva: dal movimento no-global d'inizio anni 2000 a quello no-vax durante la pandemia di COVID-19, passando per il «Vaffanculo-Day» di Beppe Grillo, gli Indignados spagnoli, Occupy Wall Street, il voto per la Brexit, l'elezione di Donald Trump, i Gilets jaunes francesi e le proteste legate a #MeToo e #BlackLivesMatter. Ciascuno di questi eventi ha ovviamente una storia particolare, ma c'è anche un filo rosso che li unisce: la rabbia nei confronti delle istituzioni. Nonostante la frenesia attivistica, queste mobilitazioni si sono rivelate, nella maggior parte dei casi, prive di finalità concrete, mentre è stata evidente la loro dimensione spettacolare e dimostrativa, volta a esprimere una condizione di risentimento diffuso nei confronti dell'ordine costituito, secondo una logica che tende a dividere la società in «amici» e «nemici», «buoni» e «cattivi». Ma come si spiega questa animosità crescente, dati i livelli di benessere materiale e di diritti acquisiti storicamente senza precedenti? Ridurre la rabbia odierna a un'espressione di emotività irrazionale o all'ignoranza delle masse, avverte Carlo Invernizzi-Accetti, è un errore. Per uscire dal vortice in cui siamo caduti è necessario comprenderne le ragioni. Nel fornire un'interpretazione di ciò che Hegel avrebbe chiamato lo Zeitgeist , cioè lo «spirito del tempo», "Vent'anni di rabbia" propone una rilettura storico-filosofica degli ultimi due decenni che apre nuove prospettive di azione sul futuro.