
Una spettacolare rapina in via Montenapoleone - il salotto buono della città - dà il via a una nuova indagine che porterà il giornalista hacker Enrico Radeschi e il vicequestore Loris Sebastiani a scoprire un nesso con un'altra rapina milionaria svoltasi quindici anni prima nel Diamond Center di Anversa, i cui colpevoli non sono mai stati arrestati. Uno dei banditi implicati in quel colpo memorabile era stato ucciso dai compagni, e oggi le sue impronte vengono ritrovate all'interno della gioielleria che ha appena subito la rapina nel centro di Milano. Com'è possibile? Nel tentativo di catturare i colpevoli e di far luce sul mistero di quelle impronte, il capo della polizia di Anversa invia in Italia Julie De Vos, una conturbante poliziotta dell'Interpol che instaurerà un rapporto speciale con Sebastiani, mettendosi a disposizione per aiutarlo a risolvere il caso. Nel frattempo, Radeschi si farà coinvolgere dal Danese - il suo amico greco dall'animo da bandito - in uno strano sequestro di persona maturato negli ambienti della mafia russa...
Gesù Cristo non disse mai «Lazzaro, alzati e cammina!» .Galileo Galilei non esclamò «Eppur si muove!». L'adagio «A pensar male si fa peccato, ma spesso s'indovina» non è di Giulio Andreotti. Sarà vero l'aforisma di Winston Churchill secondo cui a Londra «un taxi vuoto si è fermato davanti al numero 10 di Downing Street, e ne è sceso Attlee»? No, falso: infatti si trattava di una carrozza e ne discese, a Parigi, Sarah Bernhardt. «Vivi come se tu dovessi morire subito, pensa come se tu non dovessi morire mai» sarà del filosofo Julius Evola o della pornostar Moana Pozzi? Sono passati più di vent'anni da quando Paolo Mieli, per due volte direttore del «Corriere della Sera», minacciò: «Una citazione latina sbagliata in un discorso o riportata erroneamente in un articolo dovrà diventare un'onta perenne, un guaio peggiore di un avviso di garanzia». Purtroppo, da allora, poco è cambiato, se non in peggio. Giornalisti e politici continuano ad attribuire pensieri in libertà a personaggi che non si sono mai sognati di esprimerli. Convinto che il "citazionismo" sia la deriva che più ha tolto credibilità alla casta degli scribi cui egli stesso appartiene, Stefano Lorenzetto ha sottoposto a radiografia detti, non detti e contraddetti, cercando di scoprire, per i più celebri, come e perché si siano diffusi in modo errato. I risultati dell'indagine risultano sconcertanti e al tempo stesso divertenti. L'esclamazione «Elementare, Watson!» non è mai uscita dalla bocca di Sherlock Holmes né tantomeno dalla penna di Arthur Conan Doyle. E, a dispetto dell'aneddotica circolante su Mike Bongiorno, la signora Longari ha spiegato all'autore di questo libro che non è mai caduta sull'uccello. Materia sterminata, infingarda, magmatica, cangiante. Forse perché «la vita stessa è una citazione», diceva Jorge Luis Borges (ma l'avrà detto davvero?).
«Venticinque anni fa siamo tornati in un nuovo Paese. Io incontravo quella società nella quale il volere della sorte mi aveva fatto nascere ma non crescere. Non avevo particolari associazioni d'idee col passato e neppure rappresentazioni del possibile futuro di quei luoghi. Ne facevo semplicemente la conoscenza. Ma per mio padre tutto era ovviamente molto più complicato. Nonostante la sua esperienza personale e la conoscenza del passato, sognava una Russia del futuro guarita dai suoi mali. Lo spiegava così: anche in assenza di evidenti motivi per essere ottimista, l'incontro di quell'estate con centinaia di persone gli aveva restituito forze e fede. Era tornato a casa, e la sua casa era quanto aveva di più caro. Nei successivi quattordici anni non era più uscito dai confini del Paese». Gli interventi, introdotti da uno scritto del figlio Ermolaj e curati da Sergio Rapetti, contengono le riflessioni che Aleksandr Solzenicyn maturò negli ultimi anni della sua vita, in cui la prima e pressante preoccupazione fu tornare a parlare con la gente, ricomporre il quadro della situazione economica e sociale della Russia, per riprenderne la narrazione da dove si era interrotta. Non smise di evidenziarne eccessi e contraddizioni, di proporre letture che dessero conto delle mille facce di quella società: nazionalismo, panrussismo e rapporto con l'Occidente. Come ebbe a scrivere Vittorio Strada, «in questo mondo imprevedibile Solzenicyn è un possibile orientamento tra i pochi superstiti. Leggerlo, tra consenso e dissenso, aiuta a vincere il vuoto dell'indifferenza e a cercare una via verso qualcosa che non c'è più o forse non c'è ancora».
Grazie non poco alla sua scuola - in particolare grazie alle sue maestre che per prime affrontarono l'ignoranza nazionale - l'Italia del Novecento, partita da condizioni miserabili, arrivò a essere tra le principali economie del mondo. Ma oggi quella stessa scuola è lo specchio del declino del Paese. Abbandonata dalla politica con la scusa dell'«autonomia», essa appare sempre più dominata dal conformismo intellettuale, da un'inconcludente smania di novità e da un burocratismo soffocante che ne stanno decretando la definitiva irrilevanza sociale. Ernesto Galli della Loggia cerca di comprenderne le ragioni sullo sfondo della nostra storia indagando le origini e l'impatto, deludente quando non distruttivo, che hanno avuto le riforme succedutesi negli ultimi decenni e smontando le interpretazioni più convenzionali su cosa fecero o dissero veramente personaggi chiave come Giovanni Gentile e don Lorenzo Milani. Chi l'ha detto che cambiare sia sempre meglio di conservare? E che la prima cosa sia necessariamente di sinistra e la seconda di destra? Il libro mette sotto accusa i miti culturali responsabili della crisi attuale: l'immagine a tutti i costi negativa dell'autorità, l'obbligo assegnato alla scuola di adeguarsi a ciò che piace e vuole la società (dal digitale al disprezzo per il passato), la preferenza del «saper fare» sul sapere in quanto tale, la didattica «attiva» e di gruppo. Altrettanti ideologismi che sono serviti a oscurare il ruolo dell'insegnante, la misteriosa capacità che dovrebbe essere la sua di trasmettere la conoscenza e con essa di assicurare un futuro al nostro passato.
Lo psichiatra che più di tutti ha esplorato e descritto le contraddizioni del mondo moderno affronta una nuova sfida: un «viaggio immaginario nella testa di Freud». Vittorino Andreoli ci riporta nella Vienna di fine Ottocento, per poi attraversare il Novecento e arrivare ai giorni nostri, alla ricerca delle radici di concetti e riflessioni che hanno profondamente influenzato il nostro modo di guardare alla storia dell'uomo e del suo comportamento. Con il tono della divulgazione scientifica, le vicende del padre della psicoanalisi vengono ripercorse in sette tappe: dai fondamenti della teoria - psiche, sessualità, inconscio, rimozione, complesso di Edipo, libere associazioni -, ai pilastri della tecnica psicoanalitica, dai sogni ai casi specifici, dal transfert alle critiche, iniziali e più recenti, fino al rapporto con la psichiatria e al tentativo di individuare quel che resta della sua eredità e cosa invece si può serenamente abbandonare. Nella consapevolezza che, per quanto il risultato dell'indagine porti a dubbi fondati, si tratta di una figura cardine della cultura moderna: «Non so quante guarigioni si possano attribuire alla psicoanalisi freudiana, non so se Dora sia stata felice dopo l'analisi, ma certo, al di là dei risultati terapeutici, Freud ha offerto un'idea capace di sconvolgere il modo di pensare di un'epoca».
La geografia dei flussi migratori che stanno ridisegnando il Vecchio continente raccontata attraverso le storie di chi sfida la sorte nella speranza di una vita migliore, per portare in superficie ciò che etichette come «richiedenti asilo» e «migranti economici» non sono in grado di restituire. Alla ricerca di risposte su una questione così complessa, emergono soprattutto domande: «Vogliono raggiungere l'Europa perché ci vive uno zio. E voi, non lo fareste? Ne hanno bisogno per guadagnarsi da vivere. Perché nel loro paese non possono farlo? Perché in Europa invece potrebbero riuscirci? Che rapporto c'è tra il posto da cui provengono e quello in cui sono diretti? Perché dovrebbero tollerare queste condizioni? A chi conviene regolare i loro spostamenti? E quante probabilità ci sono che gli Stati che trattano i migranti con tanta insensibilità si comportino allo stesso modo anche nei confronti dei loro cittadini?». Mettendo al centro le singole testimonianze dei migranti e seguendone gli spostamenti attraverso città, Stati e continenti, Daniel Trilling traccia una cartografia della migrazione e dell'Europa chiusa da confini nazionali, dove il mito dell'Unione europea garante di pace tra le nazioni e prosperità si sta sfaldando di fronte all'incapacità di tutelare quei principi di tolleranza e rispetto per i diritti umani su cui è stata fondata. In questo percorso l'autore include la sua stessa famiglia, scappata prima dalla Russia scossa dalla guerra civile e poi dalla Germania nazista.
In tutto il continente, come in una sorta di caccia alle streghe, le forze politiche emergenti si stanno coalizzando per mettere fine al progetto di un'Europa «unita nella diversità». In Italia, in particolare, siamo passati da Roma ladrona allo spauracchio della perfida Bruxelles, mentre chi inveiva contro la Casta ora siede nei banchi del governo, mettendo ogni giorno a repentaglio tenuta economica e reputazione internazionale del paese. Ma a chi giova davvero inimicarsi l'Unione europea? E qual è il suo peso reale nella vita di tutti i giorni? Per raccontare un fenomeno tra i più subdoli e destabilizzanti degli ultimi anni, con tono irriverente David Parenzo accompagna il lettore in un viaggio nelle istituzioni europee, con le loro virtù e contraddizioni, e smaschera le bufale dei «falsari» che lanciano accuse infondate contro i presunti lobbisti che si nasconderebbero nell'Europarlamento e gli sprechi dei burocrati di Strasburgo. Attraverso interviste esclusive, dati e analisi delle questioni più scottanti, Parenzo mostra gli ingranaggi che reggono la macchina comunitaria e muove un atto d'accusa contro i complottisti di tutta Europa, da Marine Le Pen a Viktor Orbán, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni. Per fare chiarezza e, soprattutto, per capire che direzione prenderanno l'Italia e il mondo nei prossimi anni.
A Leonardo il cappello è stato messo in testa o tolto a seconda che si volesse raffigurare l'immagine del pittore (con cappello) o del genio universale (senza). Oggi prevale questa seconda interpretazione, e quello che è stato a lungo considerato il suo "autoritratto" altro non è che il disegno di un vecchio saggio. Certamente opera di Leonardo, ma realizzato quando non aveva ancora quarant'anni, mentre pensava ai lavori dell'"Ultima cena" e al sigillo dell'"Uomo vitruviano". Da questo spunto e motivo iconografico, dall'ossessione di trovare un cappello rivelatore, parte la ricerca suggestiva, colta e appassionante di uno storico dell'arte tra i più brillanti. Che interesse può avere il cappello di Leonardo? Si corre il rischio di vederne ovunque, e non dove sono realmente. Ma il cappello che generalmente si mette e si toglie ai personaggi non gioca forse con lo stesso principio di ricezione e di obliterazione, delineazione e cancellazione che consiste nel montaggio e smontaggio dei singoli elementi che compongono l'immagine? Diventando così motivo di svelamento e rivelazione nella sovrapposizione delle sue singole parti: antica e modernissima strategia di tutte le arti, impossibilitate a prescindere da lacerti e memorie di ciò che è solo apparentemente scomparso.
La mostra "Verrocchio, il maestro di Leonardo" a Palazzo Strozzi celebra, in occasione del cinquecentesimo anniversario della scomparsa di Leonardo da Vinci, la figura di un artista che fu geniale interprete dei valori del Rinascimento nella Firenze medicea di Cosimo il Vecchio, di Piero e di Lorenzo il Magnifico e che, con la sua bottega e la sua multiforme attività, influenzò un'intera generazione di maestri in Italia e in Europa. Il catalogo della mostra, edito da Marsilio, si apre con un album di immagini in bianco e nero dei monumentali capolavori di Verrocchio non in mostra poiché inamovibili dalle loro sedi, e con i saggi dei due curatori che ricostruiscono magistralmente l'impegno artistico instancabile e versatile del maestro: Francesco Caglioti mette in luce la complessità della figura di Verrocchio scultore, analizzandone la formazione, i generi figurativi, gli allievi e i seguaci; Andrea De Marchi prende in esame la produzione pittorica verrocchiesca e la fondamentale influenza che esercitò su alcuni tra gli artisti più brillanti del Quattrocento fiorentino, da Bartolomeo della Gatta a Perugino, da Ghirlandaio a Lorenzo di Credi, fino all'immenso Leonardo. Il catalogo delle opere è suddiviso in undici sezioni che rispecchiano il percorso espositivo, creando un contrappunto costante fra sculture in marmo, figure in bronzo, in terracotta e in altri materiali plastici, pitture e disegni e restituendoci, tra autografi di Verrocchio e opere dei suoi tanti allievi, seguaci e imitatori, l'affresco di un'intera epoca. Chiude il volume un'ampia e documentata bibliografia raccolta da Francesco Caglioti. Catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Strozzi, 8 marzo-14 luglio 2019.
Nell'epoca desiderosa di oblio che fu il secondo dopoguerra italiano, la storia di Telesio Interlandi, l'intellettuale che più spudoratamente approvò le leggi razziali in Italia, fu dimenticata con un certo sollievo. Eppure la sua figura rimane centrale per capire il contesto culturale di quegli anni. Se infatti, grazie al rapporto personale con Mussolini, da direttore dal 1938 al 1943 della «Difesa della razza» Interlandi fu portavoce del fascismo più intransigente e fanatico, allo stesso tempo sulle colonne del «Tevere» e «Quadrivio» diede spazio alle migliori firme dell'epoca, da Vincenzo Cardarelli a Mario Soldati, da Luigi Pirandello a Corrado Alvaro, mostrando un fiuto giornalistico e una raffinatezza editoriale eccezionali. Nella sua vicenda Mughini si imbatté quasi per caso. «Perché non lo scrive lei il libro su mio padre che Sciascia non potrà mai scrivere?», fu la richiesta che, all'indomani della morte dello scrittore siciliano, Mughini si sentì rivolgere dal figlio di Interlandi, la cui figura avrebbe dovuto essere al centro di un volume concepito come un secondo Affaire Moro. Nacque così "A via della Mercede c'era un razzista", che, sfuggendo alla distinzione tra saggio e romanzo, ricostruisce gli ambienti di una Roma degli anni trenta come una piccola Atlantide sommersa, ricca di fermenti, di battaglie di idee e di esperimenti che appartengono a pieno diritto alla cultura europea dell'epoca, e riesce allo stesso tempo a rivelare l'origine profonda di alcuni moti che scuotono ancora oggi l'Italia.