Faccio un miracolo e torno! - dice Lea a Totto, suo marito, e si tuffa nella realizzazione del suo primo film. Il miracolo lo fa. Ma quanto a tornare...
Roma, Rio de Janeiro, l'Area 51 in Texas, il Mediterraneo «vichingo» del Montenegro: sono solo alcuni dei set sui quali Lea rimbalza, alla ricerca di una soluzione per ogni problema e di un problema per ogni soluzione. Jeremy Irons, Harvey Keitel, Gérard Depardieu, Goran Bregoviç, Rupert Everett - nei panni di se stessi - sono solo una parte del cast. Perché il vero protagonista di questo romanzo è il sogno di Lea: fare «il film che cambierà il mondo». Ma di che cambiamento si tratti, non può nemmeno immaginarlo. Ecco perché in questo romanzo s'impreca in quattro lingue, c'è tequila a gogò, e Lea inaspettatamente non si presenta alla proiezione romana del suo film davanti ai produttori hollywoodiani.
Sulle sue tracce si fiondano Totto (marito strampalato e geniale direttore della fotografia), l'ex segretaria Sandra (una griffata acchiappavip con il pallino della scrittura) e il produttore Dark Matter (che sa che nel magico mondo del male tutto è lecito). In una giostra vertiginosa di colpi di scena, «la realtà inizia lo striptease», trascinandoci verso un finale esilarante che svela la logica illogica che governa il mondo, anche quello del cinema.
Un libro fuori dagli schemi, che gioca coi generi letterari: commedia, autobiografia, romanzo d'avventura, chick-lit, thriller fantascientifico. Un libro sulla possibilità di realizzare i propri sogni.
O sulla capacità di riderci su, quando si infrangono.
C'è un'idea - di casa persino al ministero dei Beni culturali italiano in questi anni - secondo cui l'Italia potrebbe diventare una grande «Disneyland culturale»: ma è davvero a questo che serve il tessuto artistico e paesaggistico che abbiamo ereditato e che stiamo rovinando?
Per rispondere, si può partire dalla storia di un crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato dal governo Berlusconi per piú di tre milioni di euro: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell'inadeguatezza degli storici dell'arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del perverso sistema delle mostre, del miope opportunismo dell'università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione.
Il degrado del ruolo della storia dell'arte nel discorso pubblico accompagna la metamorfosi del ruolo del patrimonio storico e artistico: da gratuito strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, a parco dei divertimenti a pagamento.
L'opera di Sigmund Freud ha rivoluzionato a tal punto la cultura contemporanea da potersi annoverare tra gli eventi capitali del Novecento. La ferrea impalcatura teoretica, la rivoluzionaria novità dell'approccio scientifico, la peculiarità del lavoro terapeutico del medico viennese, unite al magnetismo della sua personalità, sono state in grado fin da subito di attrarre seguaci e di assicurarsene in molti casi una fedeltà quasi assoluta. Rispetto all'abbondante produzione storiografica dedicata alla psicoanalisi, e in particolare al monumento agiografico Vita e opere di Sigmund Freud di Ernest Jones, Freud e i suoi seguaci di Paul Roazen possiede un'originalità di impostazione e una vivacità di esiti narrativi che l'hanno trasformato con il tempo in un punto di riferimento obbligato per la ricostruzione di quello straordinario momento di gestazione del sistema di pensiero freudiano e del suo divenire "impresa" culturale, grazie soprattutto allo sforzo congiunto del gruppo di collaboratori di cui il maestro seppe circondarsi.
Nulla mi ha fatto tanto piacere nella vita come passare mesi e anni a costruire una storia, dal suo incerto sbocciare, quell’immagine che la memoria aveva salvato da una qualche esperienza vissuta, che si trasforma in inquietudine, in entusiasmo, una fantasia germinata poi in un progetto, fino alla decisione di cercare di tramutare quella nebbia popolata da fantasmi in una storia. «Scrivere è un modo di vivere», scrisse Flaubert. Sí, certamente, un modo di vivere con entusiasmo e allegria e con un fuoco scoppiettante nel cervello, battagliando con le parole ribelli fino ad addomesticarle, esplorando il vasto mondo come un cacciatore in cerca della preda desiderata per alimentare la finzione in embrione e placare quel vorace appetito di ogni storia che, crescendo, vorrebbe inglobare tutte le storie.
Mario Vargas Llosa, Elogio della lettura e della finzione
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Ventotto anni dopo l’assegnazione del Nobel per la letteratura a García Márquez, nel 2010 l’Accademia di Stoccolma ha premiato un altro autore sudamericano, Mario Vargas Llosa, per «la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua acuta immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell'individuo».
Con il discorso pronunciato in occasione della premiazione e riproposto in Elogio della lettura e della finzione, Vargas Llosa ci regala un capitolo inedito della sua autobiografia: la storia di un bambino curioso e intelligentissimo, che trova il suo «paradiso dell’infanzia» nella casa di famiglia a Cochabamba:
... in compagnia delle mie cugine e dei compagni di scuola potevamo giocare a rappresentare le avventure di Tarzan e di Salgari, e nella prefectura di Piura, dove nei sottotetti si annidavano i pipistrelli, ombre silenziose che riempivano di mistero le notti stellate di quella terra rovente. In quegli anni, scrivere fu come giocare un gioco che si svolgeva in famiglia, un piacere che faceva meritare applausi.
Cresciuto nella convinzione di essere orfano di padre, il bambino Vargas Llosa custodisce sul comodino la foto di un bell’uomo in uniforme, e ogni sera, prima di dormire, la bacia e le rivolge una preghiera. Ma un giorno la favola dell’infanzia si sgretola e fa spazio alla solitudine, alla paura, alla scoperta dell’autorità e della vita adulta.
Una mattina piurana, da cui tuttavia credo di non essermi ancora ripreso, mia madre mi rivelò che quel signore, in realtà, era vivo. E che quello stesso giorno saremmo andati a vivere con lui, a Lima. Io avevo undici anni e, da quel momento, cambiò tutto.
Da quel momento, racconta Vargas Llosa nell'Elogio, anche il suo rapporto con la letteratura «diventa grande». Se leggere è il rifugio, la nuova favola in cui vivere avventure esaltanti e sentirsi libero e ancora felice, scrivere è l’azione speculare, non di fuga ma di partecipazione.
... scrivere, di nascosto, come chi si concede a un vizio inconfessabile, a una passione proibita. La letteratura smise di essere un gioco. Si trasformò in un modo di resistere all’avversità, di protestare, di ribellarmi, di scappare dall’intollerabile, la mia ragione di vita.
Un testo toccante e appassionato, che mescola le riflessioni agli aneddoti e si muove tra storia e ricordo, presentandoci la letteratura come il luogo in cui convergono il desiderio di fuga e la volontà di cambiamento, l’incanto del sogno e la caparbietà dell’impegno civile. Oggi a parlare non è più un bambino: è un grande scrittore. Ma leggere e scrivere, per Vargas Llosa, hanno ancora lo stesso significato: «protestare contro le ingiustizie», e «dimostrare che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto».
Walter e Patty erano arrivati a Ramsey Hill come i giovani pionieri di una nuova borghesia urbana: colti, educati, progressisti, benestanti e adeguatamente simpatici.
Fuggivano dalla generazione dei padri e dai loro quartieri residenziali, dalle nevrosi e dalle scelte sbagliate in mezzo a cui erano cresciuti: Ramsey Hill (pur con certe residue sacche di resistenza rappresentate, ai loro occhi, dai vicini poveri, volgari e conservatori) era per i Berglund una frontiera da colonizzare, la possibilità di rinnovare quel mito dell'America come terra di libertà «dove un figlio poteva ancora sentirsi speciale». Avevano dimenticato però che «niente disturba questa sensazione quanto la presenza di altri esseri umani che si sentono speciali».
E infatti qualcosa dev'essere andato storto se, dopo qualche anno, scopriamo che Joey, il figlio sedicenne, è andato a vivere con la sua ragazza a casa degli odiati vicini, Patty è un po' troppo spesso in compagnia di Richard Katz, amico di infanzia del marito e musicista rock, mentre Walter, il timido e gentile devoto della raccolta differenziata e del cibo a impatto zero, viene bollato dai giornali come «arrogante, tirannico ed eticamente compromesso».
Siamo negli anni Duemila, quelli della presidenza Bush e dell'operazione Enduring Freedom, anni in cui negli Stati Uniti (e non solo...) la libertà è stata come non mai il campo di battaglia e la posta in gioco di uno scontro il cui fronte attraversa tanto il dibattito pubblico quanto le vite delle famiglie. Che si combattano guerre imperiali o guerre domestiche, in gioco c'è sempre la libertà e il senso da dare a questa parola.
Nove anni dopo Le correzioni, Jonathan Franzen torna con un romanzo spietato e divertente, un vasto affresco storico capace di un'umanissima, malinconica attenzione per il dettaglio: una riflessione sulla libertà e sulle cose cui siamo disposti a rinunciare per essa, sull'ambiguità di un diritto che a volte si fonda sulla sopraffazione dell'altro, sulle catene che ci imprigionano e su quelle che in realtà ci rendono più liberi. Ma questo è anche un romanzo sul matrimonio, su ciò che ci lega a un'altra persona, e sulla politica, che è ciò che ci lega a tutti gli uomini. Sul desiderio e il risentimento, sull'invidia che fonda le amicizie, sul conformismo della società di massa e sulle aspettative deluse: tutte cose che, a ben vedere, sono modi diversi di pensare la libertà.
La prima settimana di libertà dell'irreprensibile maggiordomo inglese Stevens diventa occasione per ripensare la propria vita spesa al servizio di un gentiluomo moralmente discutibile. Stevens ha attraversato l'esistenza spinto da un unico ideale: quello di rispettare una certa tradizione e di difenderla a dispetto degli altri e del tempo. Ma il viaggio in automobile verso la Cornovaglia lo costringe ben presto a rivedere il suo passato, cosi tra dubbi e ricordi dolorosi egli si accorge dì aver vissuto come un soldato nell'adempimento di un dovere astratto senza mai riuscire ad essere se stesso. Si può cambiare improvvisamente vita e ricominciare daccapo? Da questo romanzo di Ishiguro, acclamato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e vincitore del prestigioso Booker Prize, nel 1993 il regista americano James Ivory ha tratto un famoso film con Anthony Hopkins ed Emma Thompson.
La strada verso l'integrazione in Europa sembra, in questi anni, sempre meno percorribile e la sensazione è che questo paese, dotato di un'economia in forte crescita e sempre piú importante e attivo sul piano internazionale, si stia allontanando. C'è insomma, il rischio che l'Europa perda la Turchia: ma è solo colpa delle istituzioni e dei governi europei se ciò sta avvenendo? Non ci sono altrettante forze e spinte all'interno della nazione turca che cercano di allontanarsi dall'Occidente? Marco Ansaldo ha voluto, con questo libro, togliere il punto interrogativo alla domanda «Chi ha perso la Turchia?», «l'ipocrita punto di domanda sempre privo di risposte, e tentare un'individuazione del problema e l'incarnazione dei suoi responsabili. Qui si fanno i nomi. Di uno schieramento e dell'altro». Un viaggio nella storia, nella geografia e nella società di un paese cruciale, che forse l'Europa non può permettersi di tenere fuori dalla porta.
A Torino Biennale Democrazia raccoglie importanti intellettuali, numerose scolaresche e un pubblico vasto e interessato attorno ai temi e ai problemi dell’uguaglianza, della rappresentanza, della polis. Einaudi intende fornire ai partecipanti e ai lettori interessati i materiali di base della manifestazione, curati da Pier Paolo Portinaro e con un’introduzione di Gustavo Zagrebelsky. Con i contributi, fra gli altri, di Luciano Canfora, Carlo Galli, Ernesto Galli della Loggia, Nadia Urbinati, Gian Enrico Rusconi. Un piccolo manuale di democrazia, ricco di testi e interventi che girano intorno alla domanda: come si fa a impedire che i pochi tiranneggino i molti?
Un padre rievoca al figlio alcuni episodi della propria vita. Nel 1915 la sua famiglia, come tante altre, è migrata all’estero in cerca di fortuna. Il padre ricorda la morte del fratello Beniamino, la scoperta del mondo al di fuori delle mura domestiche (quando accompagnava il padre in giro per affari) e il lungo viaggio in nave che l’ha riportato a Genova. Dopo un anno passato in convento per mettere alla prova la vocazione religiosa che sente pulsare dentro di sé, l’uomo si immergerà nuovamente nel mondo, nella Storia: sono gli anni del fascismo e della resistenza. In seguito sarà un medico molto stimato. Alla morte del genitore, il figlio si ritrova con un’eredità di ricordi ed esperienze che cerca di mettere a frutto tenendo a bada il dolore per la perdita. Si rinchiude nella casa del padre e trova rifugio nella letteratura e nel mito, compiendo un immaginario viaggio catartico – in compagnia di Tristano e Lancillotto – che gli varrà come personalissima elaborazione del lutto.
A un anno dalla morte del padre, Siri Hustvedt tiene un discorso commemorativo nel college dove l’amato padre ha insegnato per anni. Ha da poco iniziato a parlare, quando si accorge di tremare: il suo corpo, dal collo in giù, è attraversato da spasmi così violenti e incontrollati che riesce a stento a proseguire la lettura o solo a stare in piedi. Il suo fisico è preda delle convulsioni nonostante la mente rimanga lucida: un contrasto che non fa che aumentare il panico per la sensazione di aver perso il controllo del proprio corpo. Utilizzando il racconto autobiografico come filo conduttore (le visite da dottori, neurologi, psichiatri e psicanalisti, le cure farmacologiche, l’auto-analisi...), Siri Hustvedt s’interroga con rigore e lucidità su quale sia il rapporto che ognuno di noi ha con la sofferenza e l’angoscia, con la memoria e l’Io. È costretta a fare i conti con la «Siri che trema», con ciò che quel doppio di sé vuole comunicarle con le sue convulsioni. Deve riuscire a riconoscersi anche nell’«altra» Siri. Un viaggio tutt’altro che scontato.