Dal segreto, passionale amore inglese degli anni giovanili alle diverse corti di devoti che si sono periodicamente rigenerate attorno alla sua carismatica presenza, Elsa Morante è stata amata o idoleggiata lungo tutto il corso della sua vita . Un fascino, il suo, che si sprigionava fortissimo a dispetto di un carattere esigente e difficile. Eppure una sete inappagata d'amore percorre come un potente leitmotiv la sua biografia, consumandola fino ai suoi esiti estremi. Da un archivio di oltre 5000 documenti e da 300 lettere di Elsa acquisite successivamente presso i destinatari, Daniele Morante ha scelto e composto con un lungo e paziente lavoro circa 600 testimonianze esemplari della corrispondenza della scrittrice con gran parte dei suoi interlocutori più simpatetici e più assidui. Grazie a questa massa di materiali emergono fasi fin qui poco note della vita di Elsa Morante, le molte sfaccettature del lungo e complesso rapporto con Moravia, l'irrequietezza delle sue passioni umane e intellettuali, le ragioni del precoce invecchiamento autoindotto, la sublimazione della propria femminilità nel ruolo di "alma mater" di ragazzini di vario talento o altri "Felici Pochi". E poi, naturalmente, la sua scrittura, le sue opere, i suoi lettori che le scrivono lettere spesso colme di ammirazione e gratitudine, anch'esse testimoniate nel volume. Un libro che restituisce l'immagine più vera della grande scrittrice, così lontana dai cliché stereotipati che ci vengono troppo spesso riproposti.
Giustizia, libertà, diritti delle persone sono ideali cui Moni Ovadia ha dedicato tante delle sue battaglie. Ma la dignità li precede tutti, ne è il fondamento, senza il quale gli uomini, nella loro concreta vita di ogni giorno, sono in balia della sopraffazione, della schiavitù, del nichilismo. Il merito di questo breve libro è proprio quello dì sbatterci davanti agli occhi il rischio che corre la dignità nel discorso comune quando viene banalizzata e data per ovvia. La dignità prescinde dalle nostre origini, dalla condizione sociale, dal censo, dall'etnia. È un attributo etico universale. Essa è un dono dell'assoluto. Stranieri, ribelli, reietti, fuorilegge, la "schiuma della terra", tutti partecipano di questo dono, che è prima di tutto "onore verso sé stessi". Passando dal commento dei testi sacri delle grandi religioni monoteistiche, alle storie di ogni giorno, ai conflitti etici, alle parole dei poeti, fino a "La dignità del carnefice", Ovadia ci consegna un breve prontuario contro l'abisso spalancato sotto di noi. Non solo nei grandi eventi della Storia, ma nel compiersi quotidiano della propria missione di esseri umani.
Nel Pacifico meridionale, a ottocento chilometri dalla costa del Cile, c'è un'isola vulcanica dalle inaccessibili pareti verticali, lunga undici chilometri e larga poco più di sei, popolata da milioni di uccelli marini e da nessun essere umano. Si chiama Masafuera, "più lontana". Spinto da quell'inquietudine che solo certi viaggi riescono a placare, Jonathan Franzen, qualche mese dopo l'uscita di "Libertà", decide di raggiungere Masafuera e trascorrervi alcuni giorni. Insieme a lui soltanto una tenda, un GPS presto inutile, una copia di Robinson Crusoe e le ceneri di un amico morto suicida. Nella solitudine, non priva di avventurose e quasi mortali complicazioni, Franzen farà i conti con ciò che lega l'isolamento e il romanzo (il genere che insegna "come stare soli"), la modernità tecnologica con la sua valanga di stimoli superflui e la noia quale passaggio indispensabile per trovare se stessi. Ma farà anche i conti con il lutto, la perdita e la necessità, dolorosa, di parlare con i propri fantasmi. Sia che raccontino di animali in pericolo e della minaccia che l'umanità rappresenta per la loro sopravvivenza, di come cellulari, Internet e social network trasformino i rapporti interpersonali, di amici o di maestri, le ventuno riflessioni che compongono "Più lontano ancora", non importa se in forma di saggio, ricordo autobiografico o reportage, affrontano tutte lo stesso problema di fondo: come rimanere umani.
Gli italiani non sono portati per la rivoluzione. Bravissimi nel tiro al piattello e irraggiungibili nell'arte culinaria, la rivoluzione non rientra però nell'elenco delle loro specialità. In centinaia d'anni, mentre francesi, americani e russi si ribellavano all'andamento della propria Storia, gli italiani sceglievano strade alternative quali la diplomazia, l'iniziativa individuale, l'attesa della dipartita naturale del nemico, il superenalotto. "Il piantagrane" si svolge in un Paese che somiglia molto all'Italia dei giorni nostri. Narra la vicenda di un individuo qualunque che, suo malgrado, si trova a innescare un grande, strabiliante, radicale cambiamento. A causa della sua semplice presenza, tutti cominciano ad agire secondo logica e buonsenso. Addirittura secondo coscienza. Si tratta di un pericolo enorme, che nessuna società occidentale può permettersi di affrontare: il pover'uomo, quindi, diventerà ben presto oggetto di una feroce caccia da parte dei servizi segreti. Qualcuno cercherà di aiutarlo, inviandogli l'angelo custode più grottesco e maldisposto che si possa immaginare: un omino forzutissimo, che frulla parole storpiate dall'ignoranza e da un'oscura sapienza. E così il destino del pianeta e la possibilità stessa di una rivoluzione saranno nelle piccole mani di una coppia stralunata.
Come dieci capitoli di un anomalo romanzo di formazione, i racconti di questa raccolta delineano il personaggio di Rose, privilegiando il ruolo che il rapporto con la matrigna Flo ha avuto nel complesso definirsi della sua identità. La voce da cui riceviamo le storie è quella di un narratore provvisoriamente onnisciente il quale organizza in ordine cronologico episodi della vita di Rose lasciando che emerga dalla loro successione il conflitto tra desiderio di fuga e consapevolezza della necessità di restare. Rose è la bambina ribelle e pensosa del primo racconto, punita a cinghiate da un padre imperscrutabile e chiuso; Rose è l'avida lettrice che tiene a bada il pensiero del padre ammalato e l'insofferenza alle meschinità di casa a furia di Shakespeare e Dickens; è l'adolescente in viaggio dalla piccola West Hanratty a Toronto, vittima e complice di una sordida iniziazione sessuale ad opera di un impassibile ministro del culto. Ma Rose è anche la giovane innamorata del modo in cui sembra amarla Patrick Blatchford, dottorando in Storia presso la stessa università che le ha aperto le porte grazie a una borsa di studio; è la donna coinvolta in una relazione extraconiugale destinata a concludersi nell'amarezza; è la madre nervosa di una bambina più saggia di lei, ed è infine la donna matura che torna là dove tutto era cominciato e ritrova, nel tono brusco e inclemente di Flo il filo ininterrotto di un'esistenza interiore, e il ricordo dell'unico amore mai raccontato.
"In ogni pagina di questo libro c'è il modo di essere donna (di Natalia Ginzburg): un modo spesso dolente ma sempre pratico e quasi brusco, in mezzo ai dolori e alle gioie della vita... Tra i capitoli del volume si ricorda 'Ritratto d'un amico', certo la più bella cosa che sia stata scritta sull'uomo Cesare Pavese. E le pagine scritte subito dopo la guerra, che riportano con una forza più che mai struggente il senso dell'esperienza d'anni terribili (e sanno pur farlo, serbando, come 'Le scarpe rotte', un quasi miracoloso senso del comico). Poi, le prove (come 'Silenzio' e 'Le piccole virtù') d'una Natalia Ginzburg moralista, dove una partecipazione acuta ai mali del secolo sembra nascere dalla matrice d'un calore familiare. E soprattutto, perfetto capitolo d'una autobiografia in chiave obiettiva e ironica, 'Lui e io', in cui la contrapposizione dei caratteri si trasforma, da spunto di commedia, nel più affettuoso poema della vita coniugale." (Italo Calvino) L'edizione è corredata dal saggio di Domenico Scarpa "Le strade di Natalia Ginzburg" e da un apparato comprendente le Notizie sul testo, un'antologia della critica, una bibliografia e una cronologia della vita e delle opere. Prefazione di Adriano Sofri.
"Il destino assegnò a Fernando Pessoa questo nome fatale, 'Pessoa, Persona': proprio a lui, che era una e mille persone, innumerevoli flatus vocis imprendibili e senza neppure un nome [...]. Nella nostra civiltà la Persona si installa come funzione prima di tutto linguistica, in delicato bilanciamento fra l'individuazione pronominale e la processualità di un soggetto inafferrabile se non come flusso, ritmo danzante, 'forma del movimento'. Il drammatico 'Je suis l'autre' che Nerval scrisse sotto un suo ritratto e l'estremistico 'Je est un autre' di Rimbaud, che in Pessoa risuonano alla lettera nel 'Viver é ser outro' (255) e in molti altri luoghi del 'Libro dell'inquietudine', fanno esplodere l'equilibrio instabile: il più profondo, autentico desassossego di Pessoa, l'inquietudine più devastante del Novecento, è questo porsi del Soggetto come altro da sé, questa non solo esistenziale, ma metafisica perdita della presenza. Pessoa è Persona e Personne, Tutti e Nessuno nel contempo, 'Todos os Nomes' e Anonimo assoluto: 'Everyman', Chiunque, Ognuno di noi." (dalla prefazione di Corrado Bologna). Con un testo critico di Jerònimo Pizarro.
"Dio è considerato trascendente e irrappresentabile: è un punto sul quale i tre monoteismi, detti abramici, concordano. Possiamo però immaginarlo, o meglio renderlo visibile attraverso l'immagine, cioè disegnarlo, dipingerlo, scolpirlo? O bisogna pensare che sia al di là di qualunque immagine e definirlo radicalmente inimmaginabile? Abbiamo pensato che, con questo libro, fosse possibile fare la storia del significato di tale domanda e al tempo stesso dei diversi aspetti della risposta". Moltissime immagini hanno rappresentato Dio nel corso dei secoli. Alcune sono state ritenute legittime e hanno goduto di un successo duraturo, altre sono invece state considerate fraudolente, blasfeme, e sono incorse anche in pesanti condanne. Ancora oggi, la questione della rappresentazione di Dio appare profondamente controversa e costituisce un costante argomento di divisione. François Boespflug ripercorre i secoli di storia e di storia dell'arte che hanno al centro la figura del Dio unico. Pur focalizzandosi maggiormente sull'arte medievale, Boespflug non manca di affrontare l'epoca moderna e dedica l'ultimo capitolo a "l'arte d'ispirazione cristiana al di fuori dell'Europa".
Al centro di questo romanzo misterioso e potente, che scorre in una lingua tersa dove sembrano risuonare insieme gli echi delle vite dei mistici e la poesia di Emily Dickinson, c'è la figura di Ildegarda. Una donna che viene lasciata dal marito amatissimo ma devastato nello spirito. La sua solitudine è illuminata solo dall'amore per il figlio che adora. Quando l'ombra della morte sembra sfiorare il bambino, Ildegarda si interroga sul male del mondo, sulla paura di vivere, di perdere l'amore, di perdere il figlio. Lo strazio per l'abbandono e soprattutto l'angoscia per non saper proteggere il figlio portano Ildegarda a cercare nella sua fede irrequieta una strada di salvezza. Un patto con quel Dio che appare impotente di fronte al dolore dell'uomo. È la lotta che ciascuno di noi, credente o no, un giorno si trova a combattere. Un nuovo inatteso incontro, nell'incanto di un paesaggio di neve dalla bellezza struggente, porta Ildegarda a vivere una passione del corpo e dello spirito che ha in sé un'attesa di eternità. Di un'altra vita e giorni nuovi. Perché il sogno di ogni amore è che il miracolo non abbia fine. Forse è solo una promessa, ma una promessa è molto più potente di un sogno.
Mai un intero paradigma produttivo, il nostro, era stato così fortemente messo in discussione come oggi, squassato dallo spostamento dell'asse mondiale della ricchezza. Enormi diseguaglianze e una guerra su scala mondiale per il lavoro ci hanno portato a una situazione peggiore rispetto agli anni Settanta. È doveroso, tuttavia, non arrendersi e cercare strade nuove, avere una capacità di visione. Possiamo farlo se dedicheremo ogni risorsa verso ambiziose opere di ricostruzione del futuro. Come in una partita a scacchi, dovremo poter contare su due buone torri d'attacco, un alfiere attento, e una regina che si svegli dal suo torpore: giovani, imprenditori, opinione pubblica e soprattutto una buona politica. Una visione del mondo e del proprio Paese, in nome di quella che Piero Gobetti chiamava "una certa idea dell'Italia".