
Mal di vuoto, terrore delle altitudini che in realtà è paura di cedere alla tentazione di lasciarsi cadere: tutti sanno che cos’è l’acrofobia, e molti ne sono affetti. Prima di Freud, le cosiddette «scienze dell’anima», tra cui la nascente psichiatria, riservavano alle vertigini un posto d’onore nel quadro delle patologie mentali, giudicandole l’elemento destabilizzante e intossicante – repulsivo e attrattivo insieme – senza il quale la coscienza stessa non era concepibile. Alcuni si spingevano fino a indurle nei pazienti attraverso minacciose terapie rotatorie. In modo non cruento, ma altrettanto radicale, la vertigine si accampa anche nella filosofia degli ultimi due secoli. Se a Montaigne e a Pascal poteva ancora apparire un perturbamento della ragione a opera dell’immaginazione, in seguito il pensiero smette di assimilarla a un’occasionale instabilità immaginativa da vincere, per riconoscerla parte del suo stesso procedere: l’identità si manifesta malferma, cinetica, opaca, vertiginosa appunto. La critica del paradigma coscienziale e della sua presunta fermezza attraversa, con tenore ed esiti differenti, la riflessione di Husserl, di Heidegger e dei francesi del secondo dopoguerra, da Sartre a Merleau-Ponty, da Levinas a Jankélévitch a Klein. Il cortocircuito folgorante di Andrea Cavalletti accosta le loro scansioni teoretiche alla resa cinematografica della caduta nel vuoto di un celeberrimo giallo di Hitchcock, La donna che visse due volte (titolo originale: Vertigo), dramma degli abissi identitari di cui Truffaut ammirava il ritmo contemplativo. La combinazione geniale, mai tentata prima, di dolly e zoom che lì realizza tecnicamente l’effetto del precipitare descrive quel doppio movimento di «spingere e trattenere» che è la condizione abituale del soggetto e dell’intersoggettività. Per raggiungere me stesso devo guardarmi dal fondo del baratro, con gli occhi altrui. «Il mio “qui”, allora, fugge laggiù e da laggiù mi attrae».
Ci sono storie che a sentirle raccontare, o a leggerle, non sembrano vere; il potere della loro fascinazione ci attrae, però, fino ad ammaliarci e a lasciarci senza fiato. La storia di Fernando Colombo, figlio naturale di Cristoforo Colombo, è una di queste: capace di irradiare meraviglia e stupore, e - al contempo - di ridisegnare la nostra conoscenza del mondo. Fernando Colombo, cadetto illegittimo dello scopritore delle Indie occidentali, Ammiraglio e conquistatore dei regni oltre il grande Mare Oceano per conto della Corona di Spagna. Hernando Colón, figlio bastardo, eppure profondamente amato, primo biografo di Cristoforo, viaggiatore avventuroso egli stesso, che con le "Historie della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo" ci ha lasciato il resoconto delle alterne fortune dei quattro viaggi del padre nelle Americhe. Fernando, lettore onnivoro e vorace, preso da bruciante passione per una nuova e dirompente invenzione, la stampa a caratteri mobili, che in pochi anni rivoluzionò il mondo, al pari delle scoperte geografiche paterne. Fernando, smanioso classificatore di ogni libro che sia mai stato stampato, raccoglitore di ogni foglio mai prodotto da un torchio, corrispondente di Albrecht Dürer, Erasmo da Rotterdam, Aldo Manuzio; viaggiatore umanista ossessionato dal principio di catalogazione, perennemente in corsa - di città in città (Siviglia, Granada, Toledo, Londra, Milano, Venezia, Strasburgo, Colonia, Magonza e così via) -, alla ricerca spasmodica e costante delle migliori e ultime novità: i libri più belli - magnifica perversione - curati al meglio, stampati coi caratteri più chiari e puliti, sulla carta più durevole, e nella confezione più raffinata. Fernando, compilatore di liste vertiginose, inventore della prima biblioteca universale, catalogo dei cataloghi, che contenesse tutto il sapere umano, concepita come una macchina viva, un organismo vivente, che respira, si ammala, perde i pezzi, guarisce e sopravvive. Fernando Colombo e la sua biblioteca, monumento del Rinascimento europeo; Fernando e i suoi libri che sono andati perduti, trafugati, bruciati, che sono persino naufragati, eppure hanno resistito e sono sopravvissuti fino a noi, fino ad oggi.
Oggi parlare di identità culturale significa addentrarsi in una zona di pencolo, perché in suo nome si sono perpetrati crimini che sfidano l'idea stessa di umanità, e nel suo cono d'ombra ancora si annidano le pulsioni più aggressive. Ma l'ambivalenza dei processi identitari, in cui spesso vanno a incagliarsi i tentativi di riflessione sul tema, per Franco Fabbro non ostacola la comprensione, anzi ne è il presupposto. E, se indagata con strumenti conoscitivi adeguati, che integrano le osservazioni paleoantropologiche e le analisi storico-religiose, può suggerire strategie di disinnesco dei potenziali dannosi. Fabbro ha studiato per decenni sotto il profilo neuroscientifico le due componenti identificative e coesive dei gruppi umani, ossia le lingue e le religioni: acquisite entrambe nelle prime età della vita, scolpiscono il cervello con analoghi meccanismi neurali, organizzandosi nella memoria implicita e determinando un'architettura neuropsicologica che differirà a seconda delle singole tradizioni. Questi marcatori culturali sono collegati ai sistemi emozionali, quindi alle reazioni difensive e aggressive. Allora, come mitigare gli aspetti violenti dell'identità culturale e preservarne al tempo stesso gli elementi che conferiscono «consistenza e spessore» agli esseri umani, come scrive il teologo Vito Mancuso nella Prefazione? La proposta neuropedagogica di Fabbro è di esporre precocemente i bambini a quella pluralità di religioni e di lingue che, secondo ricerche ormai consolidate, favorirebbe una più efficace regolazione del comportamento e una maggiore autoconsapevolezza. Proprio là dove adesso c'è pericolo crescerebbe - in ottemperanza a un verso celebre - «ciò che salva».
Per Carl Gustav Jung l'arte fu l'amorosa compagna segreta di tutta la vita. Disegnò, dipinse, scolpì, intagliò il legno, progettò architetture con la maestria e la versatilità di un artista rinascimentale. Pochissimi, tuttavia, ne conoscevano il talento fuori del comune, perché egli decise di non rendere pubbliche le sue opere. Il mondo rimase quindi stupefatto quando nel 2009, a quasi cinquant'anni dalla morte, venne dato alle stampe il Libro rosso, l'inedito forse più strabiliante dell'intero Novecento, dove Jung calligrafò la sua potente visione dell'inconscio, illustrandola con tavole degne della migliore tradizione miniaturistica del Medioevo. Da allora, l'artista che non volle mai chiamarsi tale occupa il posto che gli spetta anche nella storia dell'arte, oltre che nel pensiero contemporaneo. Ma molto rimaneva da scoprire. Al desiderio di ammirare finalmente i tesori mai usciti dagli archivi risponde questo libro, curato dall'istituzione che custodisce il lascito junghiano. La sontuosa iconografia, in larga parte inedita, e i saggi che ne commentano ogni aspetto - dalle raffinate tecniche pittoriche all'uso dei colori, dalle figurazioni simboliche alle valenze meditative, fino alle scelte collezionistiche, che fecero della biblioteca di Jung una «stanza delle meraviglie» - integrano in modo sostanziale quanto si sapeva della psicologia analitica, della sua genealogia e dei suoi sviluppi. Spesso prologhi visivi degli scritti, gli abbozzi, gli acquerelli, i guazzi e le sculture esprimono quel pensare per immagini che rende riconoscibili i processi psichici: un esercizio in vivo, con esiti artistici alti, del metodo dell'immaginazione attiva. E di fronte al cromatismo che accende qualsiasi soggetto Jung raffiguri, paesaggio, demone o mandala, non sarà eccessivo parlare di capolavoro.
Da millenni gli uomini si interrogano sulla natura ultima della vita, eppure le spiegazioni che sono state fornite nel corso della storia si possono dividere in due sole grandi categorie: da un lato c’è chi pensa che tutti i fenomeni vitali possono essere ricondotti al movimento di minuscole particelle fisiche; dall’altro c’è chi invoca un’entità speciale, una sostanza invisibile che anima la materia vivente dandole uno scopo. Chi la chiama Dio, chi «slancio vitale» o vis viva: sarebbe l’«intelligenza» cosmica necessaria a spiegare la mirabile organizzazione degli esseri viventi, così apparentemente diversa dal caos della materia bruta.
La spiegazione «vitalistica» ha trionfato per secoli, benché della «forza vitale» non si sia mai trovata traccia. Democrito, Epicuro, La Mettrie e Darwin, campioni della visione «meccanicista», erano considerati i «materialisti» da combattere.
Nel frattempo la scienza è progredita ed è grazie agli enormi passi avanti compiuti nei decenni scorsi da fisici e biologi che Peter Hoffmann ha potuto scrivere questo libro, un vibrante e aggiornatissimo racconto che di fatto rovescia la prospettiva e condanna al fallimento ogni forma residua di vitalismo: il moto caotico e casuale delle molecole, unito alla necessità imposta dalle leggi fisiche, è tutto ciò che serve per spiegare la vita.
È tempo che la filosofia torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre? Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un ruolo normativo. In questo libro, dove traccia le linee del proprio pensiero, tra esistenzialismo radicale e nuovo anarchismo, Donatella Di Cesare riflette sul rientro della filosofia nella pólis, divenuta metropoli globale. Non bastano la critica e il dissenso. Memori della sconfitta, dell'esilio, dell'emigrazione interna, i filosofi tornano per stringere un'alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.
I segreti delle nuvole racconta la storia di Tommaso e della famiglia Sili. Tra le nuvole e la piccola cittadina di Urbania, tra il cielo e le verdi colline delle Marche. Racconta la vita dolce e spericolata di questo bambino prima di nascere, a diecimila metri dal suolo, e quella che l’aspetta, in una famiglia felice come tante, infelice come tante. Racconta l’attesa, insieme a migliaia di altri bambini, e poi la discesa sulla terra.
Questo libro è una fiaba che fa ridere e commuove. Ha la fantasia e l’universalità del Piccolo Principe e un linguaggio che sa toccare il cuore. Ha la magia delle immagini di Valerio Berruti.
Insieme, parole e immagini, raccontano i piccoli abitanti delle nuvole – i loro segreti – che rincorrono senza tregua desideri irraggiungibili, che si esaltano e disperano e disperandosi rovesciano sulla terra pioggia e grandine.
E quando ridono è perché laggiù, quaggiù, due persone si sono innamorate.
Sulla Terra, ogni giorno, miliardi di esseri umani si rivolgono a Dio in cerca di aiuto. Che sia il Dio dei cristiani, quello degli ebrei o quello dei musulmani, che sia una presenza benevola percepita nella natura o che sia un equilibrio cosmico di ascendenza orientale, resta il fatto che moltissime persone - la maggioranza - si rivolgono a Dio offrendo il proprio tempo e le proprie risorse «per provare la gioia di donare gioia». La spiritualità ha un ruolo importante e positivo per i credenti del mondo. Esiste una spiegazione a questo stato di grazia? In questo libro, Boris Cyrulnik, il più noto neuropsichiatra francese, si pone questa domanda cruciale in cerca di una risposta originale. Il tema è immenso e non scevro da valenze politiche in un momento storico come il nostro, nel quale masse di persone compiono crimini efferati proprio in nome di un cieco credo religioso. Ma resta il dato positivo: l'ambiente pacifico, calmo e fiocamente illuminato delle cattedrali gotiche, il cantillare salmodiante delle liturgie ebraiche, la voce rassicurante del muezzin che chiama i fedeli in preghiera sono tutti esempi del lato consolatorio della religione, in cui così tanti esseri umani cercano riparo. Con gli strumenti delle neuroscienze e con i concetti chiave di attaccamento e di resilienza, Cyrulnik ci mostra come la religione sia effettivamente in grado di avere effetti psicoterapeutici, spesso visibili. L'approccio scientifico e psicologico dell'autore porta a comprendere come il cervello del bambino instauri con Dio un rapporto affettivo paragonabile a quello che si instaura coi genitori. Il mondo della mente in via di sviluppo si struttura e nel cervello si scolpisce un sé neurologicamente e psicologicamente legato all'ambiente di crescita, che spesso aiuta, e molto, a combattere le inevitabili avversità della vita. Dio e psicoterapia sembrerebbero dunque alleati, almeno fintanto che Dio viene percepito come un padre buono e accogliente. I problemi iniziano, a livello psicologico e neurologico, quando l'ambiente della crescita presenta ai bambini un Dio vendicativo e intransigente. Proprio come avviene coi padri violenti.
Nel nome della croce parla dell’affermazione del cristianesimo nel IV secolo, ma dal punto di vista dei pagani e della cultura greco-romana. Da quella prospettiva, non c’è niente di eroico da celebrare e non mancano i documenti per testimoniarlo. Dalla ricostruzione degli eventi narrata da Catherine Nixey risulta evidente come il mondo classico fosse molto più tollerante di quanto comunemente si pensi e come i primi cristiani, o almeno molti fra loro, fossero molto più intolleranti e – più spesso di quanto ci si aspetterebbe – violenti.
L’autrice ci guida nel corso dei secoli cruciali della tarda Antichità, portandoci ad Alessandria, Roma, Costantinopoli e Atene, mostrandoci torme minacciose di fanatici incitati da personaggi che non di rado in seguito saranno chiamati santi. La distruzione di Palmira, il linciaggio della filosofa neoplatonica Ipazia, la chiusura definitiva della millenaria Accademia ateniese e una quantità di altri episodi mostrano un volto nuovo e inaspettato di quei tempi difficili. Quando infine il cristianesimo divenne religione di Stato nell’impero, le leggi finirono l’opera di rimozione della cultura classica, imponendo a tutti la conversione al nuovo credo e condannando all’oblio gran parte della raffinata e antichissima cultura greco-romana. Si aprirono così, di fatto, le porte al millennio oscuro del Medioevo.
Sono innumerevoli le opere che abbiamo perduto per sempre a causa del fanatismo profondo che animò quel periodo: magnifiche statue fatte a pezzi, roghi pubblici di libri, templi devastati, bassorilievi divelti, palazzi rasi al suolo. Dal punto di vista cristiano fu il periodo del «trionfo», ma per chi desiderava restare fedele agli antichi culti pagani e allo stile di vita tradizionale fu invece una sconfitta definitiva, al punto che lo scontro frontale tra la cristianità e il mondo classico che risuona in queste pagine non può non richiamare, fatalmente, le cronache dell’odierno Medio Oriente.
La storica e giornalista Catherine Nixey ci regala un libro coraggioso, che scuote le coscienze e rovescia le prospettive, e lo fa con una prosa serrata e incalzante, tenendo incollato il lettore alla pagina, mentre racconta un trionfo di crudeltà, violenze, dogmatismo e fanatismo là dove non pensavamo esistesse.
Pur fra molte incertezze, la leggenda ci narra che Akiva ben Joseph nacque attorno all'anno 50 dell'era volgare, forse nella città di Lod, nell'odierna Israele, e morì martirizzato attorno al 135 per aver continuato a insegnare pubblicamente la Torah nonostante la proibizione delle autorità romane. Si dice che fece in modo di spirare prolungando la parola echad, «uno», che conclude la prima frase della preghiera ebraica Shemà: «Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno». Rabbi Akiva, tuttavia, è una storia prima ancora che un uomo, e questo libro non può dunque essere una biografia nel senso comune del termine. È piuttosto un affresco, che attraverso la figura dell'uomo più saggio e ammirato del Talmud, fotografa la cultura ebraica palestinese del i secolo, nel drammatico momento della sua riconversione da antica religione centralizzata - fondata sul Tempio e sulla casta sacerdotale - a moderna religione diffusa di «maestri» (l'etimo di rabbini), fondata sullo studio e l'interpretazione della Torah. Tanto più che di Akiva abbiamo solo riferimenti interni a quel mondo e nulla di lui ci è invece pervenuto da fonti non ebraiche. Nel Talmud - un'immensa opera letteraria, giuridica, filosofica e religiosa, composta tra il I e il V secolo - Akiva viene descritto come il «capo di tutti i saggi», l'uomo di umili origini che studiò la Legge in età già adulta, il commentatore arguto e inventivo, quasi sempre vincente nelle dispute tra saggi. È l'esempio da seguire, e come tale è considerato l'iniziatore del rabbinismo. A questo Akiva «canonico», Holtz aggiunge qui mille sfaccettature, in un testo denso e godibile, che ci restituisce il senso di un vero e proprio eroe della sapienza, una figura sulla quale si è costruito per diversi secoli l'esempio per eccellenza del buon maestro ebraico. Questo libro può essere letto come un'introduzione al Talmud. Holtz, infatti, analizza la vita di Rabbi Akiva con una metodologia che riflette i procedimenti che si trovano in quell'opera. Così, leggendo queste pagine potremo apprendere due cose: chi fosse Akiva e quanto importante sia ancora oggi la tradizione che ce ne ha tramandato le idee; e in che termini e con quale logica si affrontano i problemi nel Talmud.