
Nel giro di pochi giorni, nel marzo del 1927, un furto di denaro e gioielli ai danni di una svaporata e fantasiosa vedova, la contessa Menegazzi, e poi l'omicidio della ricca, splendida e malinconica Liliana Balducci, sgozzata con ferocia inaudita, incrinano la decorosa quiete di un grigio palazzo abitato da pescecani, in via Merulana, come se una «vampa calda, vorace, avventatasi fuori dall'inferno» l'avesse d'improvviso investito - una vampa di cupidigia e brutale passione. Indaga su entrambi i casi, forse collegati, Francesco Ingravallo, perspicace commissario-filosofo e segreto ammiratore di Liliana: ma la sua livida, rabbiosa determinazione, il suo prodigioso intuito per il «quanto di erotia» che ogni delitto nasconde e le pressioni di chi pretende a ogni costo un colpevole da dare in pasto alla «moltitudine pazza» non basteranno ad aver ragione del disordine e del Male. L'inchiesta sui torbidi misteri del «palazzo dell'Oro» gli concederà, al più, la medesima, lacerante cognizione del dolore di Gonzalo Pirobutirro. Giallo abnorme, temerario, enigmatico, frutto della irresistibile attrazione che su Gadda esercitavano il romanzo e i crimini tenebrosi ma insieme di una tensione conoscitiva che finisce per travolgere ogni possibile plot, il Pasticciaccio è anche il ritratto di una città e di una nazione degradate dalla follia narcisistica del Tiranno, dove si riversa a ondate tumultuose una realtà perturbata e molteplice - e dove, a rappresentarla, sono convocate, in uno sforzo immane, tutte le risorse della nostra lingua, dei dialetti, delle scienze e delle tecniche.
Un giorno, a una domanda sull'importanza che aveva avuto l'amore nella sua vita, Isaac Bashevis Singer rispose: «Grandissima, perché l'amore è amore della vita. Quando ami una donna ami la vita che è in lei». Ma che genere di amore è quello che lega Herman, il protagonista di Nemici, a Yadwiga, la contadina polacca che lo ha salvato dalla deportazione nascondendolo per tre anni in un fienile, nutrendolo e curandolo, e che lui ha portato con sé a New York e ha sposato? E che genere di amore lo lega a Masha, la donna, scampata ai lager, del cui corpo non riesce a fare a meno, ma che percepisce come una minaccia – perché quel desiderio, più che alla vita, si apparenta alla morte? Ed è ancora amore il sentimento che lo lega alla moglie Tamara, che credeva morta e che gli riappare davanti all'improvviso? Di fronte a simili domande Herman è paralizzato, incapace di trovare una via d'uscita. A rendere tutto molto, molto più complicato è la fatica quotidiana del vivere, in quella New York che è sembrata un miraggio di felicità, ma che si rivela ogni giorno più inospitale e più aspra. Il lettore segue Herman nei suoi affannosi, sconclusionati andirivieni dal Bronx a Coney Island e da Coney Island a Manhattan, chiedendosi se e come riuscirà a tirarsi fuori da quella specie di guerra che le sue tre donne gli hanno dichiarato, e soprattutto dal groviglio di un'esistenza fatta di continue menzogne, sotterfugi, goffaggini e fughe – o se, come il Bunem di Keyla la Rossa, finirà per cedere alla tentazione di disperare di Dio.
Prima di essere decifrati da Champollion, i geroglifici egiziani vennero interpretati – in una lunga e grandiosa linea di pensiero che va dalla tarda antichità al diciassettesimo secolo, da Plotino ad Athanasius Kircher – come una lingua non discorsiva, segreta e rivelatrice, fatta solo di immagini. Sir Thomas Browne (1605-1682) pose in atto questa concezione in tutta la sua opera di erudito e sommo prosatore – opera discreta, elusiva, difficilmente classificabile; fondata su di una cultura composita, stratificata e ormai remota; scritta in una lingua coperta dalla patina del tempo, in cadenza naturalmente religiosa e cerimoniale. Un'opera che si presenta come una complessa figura sul punto di disfarsi, come un mosaico le cui tessere stiano per essere separate e disperse. Alcuni degli elementi che sono delicatamente congiunti in quelle pagine, in un equilibrio ricco e precario, non si sono mai più ritrovati in così stretto contatto. In Browne la medicina e la teologia, l'erudizione antiquaria, la scienza naturale e il simbolismo ermetico si compongono in un solo discorso dalle molteplici e divergenti articolazioni. Il tempo, che ha rivelato sempre più lo splendore della sua prosa, ha anche confuso i tratti di quel discorso, ne ha offuscato i diversi significati. In quegli scritti alcune parole sono creste di continenti sommersi, sicché la perlustrazione delle topografie nascoste dovrebbe precedere ogni giudizio sull'opera. Una traccia può esser data dalla parola «geroglifico».
Benché mammiferi e uccelli siano unanimemente considerati le creature più intelligenti, si va imponendo una diversa, sorprendente, evidenza: da un ramo dell'albero della vita assai distante dal nostro è nata una forma di intelligenza superiore, i cefalopodi - ossia calamari, seppie e soprattutto polpi. In cattività, i polpi sono in grado di distinguere l'uno dall'altro i loro guardiani, di compiere scorrerie notturne nelle vasche vicine per procurarsi del cibo, di spegnere le luci lanciando getti d'acqua sulle lampadine, di mettere in atto ardite evasioni. Com'è possibile che una creatura tanto dotata abbia seguito una linea evolutiva così radicalmente lontana dalla nostra? Il fatto è - ci rivela Peter Godfrey-Smith, indiscussa autorità in materia e appassionato osservatore sul campo - che i cefalopodi sono un'isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati, un esperimento indipendente nell'evoluzione di grandi cervelli e comportamenti complessi. E probabile, insomma, che il contatto con i polpi sia quanto di più vicino all'incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare. Ma Godfrey-Smith tocca in questo libro un altro punto capitale: nel momento in cui siamo costretti ad attribuire un'attività mentale e una qualche forma di coscienza ad animali ben distanti da noi nell'albero della vita, dobbiamo anche ammettere di non avere certezze su che cosa sia la nostra coscienza di umani. E forse questa via è una delle migliori per arrivare a capirlo.
«Il mio amico Serge ha comprato un quadro» annuncia Marc, da solo in scena, ad apertura di sipario. «È una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Subito dopo Marc viene a sapere dallo stesso Serge che il quadro bianco a righe bianche è stato pagato duecentomila franchi: cosa che Marc giudica grottesca, poiché secondo lui è «una merda». Un terzo amico, Yvan - che ha già abbastanza guai con i preparativi del suo matrimonio -, non prende posizione, venendo accusato dagli altri due di pusillanimità e doppiezza. Così, la serata che i tre decidono di trascorrere insieme si trasforma in un regolamento di conti, in un gioco al massacro: il quadro bianco a righe bianche diventa il rivelatore da cui affiorano a poco a poco nevrosi, risentimenti e rivalità, mentre le parole si fanno sempre più velenose, sempre più acuminate, fino a ridurre in macerie la fragile impalcatura di un rapporto fondato sull'egoismo, la vanità e l'ipocrisia. Yasmina Reza, di cui conosciamo la penna affilata e lo sguardo chirurgico, tocca in questa commedia nera vette di comica crudeltà, si diverte e ci fa divertire - perché ridiamo molto, anche se sempre più a denti stretti, a mano a mano che da sotto la maschera buffa del théâtre de boulevard vediamo spuntare la malinconia.
«Il mio corso è, tra le altre cose, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie». Del detective - e dello studioso - Nabokov possiede la passione bruciante per il dettaglio. Ma anche una voracità linguistica che lo guida a inseguire, negli scritti altrui, astuzie e trucchi verbali rivelatori; e una felice insistenza nella ricostruzione dei luoghi, degli spazi - dai mobili di una stanza a una città, e una regione - in cui si manifestano le storie. Sa bene, e lo ripete provocatoriamente, che utili insegnamenti e buoni propositi nulla hanno da spartire con la letteratura. Che è invece composta, in parti uguali, di esattezza e incantamento: «la precisione della poesia e l'intuizione della scienza». E questo insegna Nabokov nelle sue "Lezioni di letteratura": a leggere con occhio penetrante, ma disposto alla magia. A non guardare soltanto alle storie, ma al modo in cui sono raccontate. A riconoscere, al tempo stesso, il genio individuale dello scrittore e l'architettura dei testi. Rischiarati da un'intelligenza appuntita e beffarda, sfilano sette capolavori delle letterature occidentali, da Mansfield Park di Jane Austen all'Ulisse di Joyce. E lui, il professor Nabokov - docente a Wellesley e quindi alla Cornell tra il 1941 e il 1958 -, li racconta agli studenti americani, e a noi, con il brio conversevole, il coinvolgimento, l'attenzione minuziosa che, dalla sua viva voce, approdano direttamente a queste pagine. Introduzione di John Updike.
Questo libro è un viaggio straordinario, proprio nel senso in cui lo erano quelli di Jules Verne. Tutto quanto O'Connell racconta sembra frutto di una fantasia vagamente allucinata. Solo che non lo è. I cilindri d'acciaio nel capannone criogenico vicino all'aeroporto di Phoenix contengono davvero i primi corpi umani in attesa di risvegliarsi in un futuro simile all'eternità. Ray Kurzweil, uno dei cervelli di Google, inghiotte davvero 150 pillole al giorno, convinto di vivere a tempo indeterminato. Elon Musk o Steve Wozniak sono serissimi quando dichiarano che di qui a poco la nostra mente potrà essere caricata su un computer, e da lì assumere una quantità di altre forme, non necessariamente organiche. Sì, il viaggio di O'Connell fra i transumanisti – fra coloro che sostengono che, nella Singolarità in cui stiamo entrando, i nostri concetti di vita, di morte, di essere umano andranno ripensati dalle fondamenta – porta molto più lontano di quanto a volte vorremmo. Regala sequenze indimenticabili, come la visita alla setta di biohacker che tentano di trasformarsi in cyborg. E apre uno dei primi, veri squarci sulla destinazione di una parte degli immani proventi accumulati nella Silicon Valley. Che possibilità reali abbiamo di vivere mille anni? chiede a un certo punto O'Connell a un guru del movimento, Aubrey de Grey. «Qualcosa più del cinquanta per cento» si sente rispondere. «Molto dipenderà dal livello dei finanziamenti».
A Manganelli, che nel 1970 la attraversa dalla Tanzania all'Egitto portandosi appresso l'immagine illusoria e il cliché cinematografico elaborati dal disagio europeo, l'Africa si rivela d'improvviso. Pachiderma planetario dove l'uomo è un'eccezione, affida la sua dignità non allo splendore di monumenti intimidatori, ma a simboli inconsapevoli, "intensamente araldici": gli animali. E il viaggiatore, di fronte a quella minacciosa intensità, non può che sentirsi "esotico ed estraneo", affascinato, allarmato. E uno choc che lascerà tracce profonde: sulla via del ritorno, il Partenone apparirà a Manganelli un gesto di "violenza ragionevole nei confronti della stessa demonicità greca". Postfazione di Viola Papetti.
L'amore per Orazio e il desiderio di tradurlo accompagnano Guido Ceronetti sin da quando, diciottenne, si cimentava in versioni oggi «ripudiatissime». L'Orazio interruptus viene poi ripreso al principio degli anni Ottanta col progetto, mai realizzato, di una piccola edizione concepita come prima tappa di un «viaggio ascetico verso il puro non-essere, lo spogliarsi d'ogni illusione e farsi 'jivanmukta' in compagnia di Orazio». Per Ceronetti, infatti, Orazio è lontano mille miglia dal poeta sondato e scrutato dalla filologia classica: il suo stile non è fredda accademia augustea, semmai «contrazione della vita, mediante l'impegno della parola», il che esige «tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria» - fuoco contratto, dunque. E a lui ancor meglio che a Kavafis si attaglia quel che diceva la Yourcenar: «Siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell'Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere». Dopo più di trent'anni il viaggio attraverso il «deserto fiorito» di Orazio ha preso la forma di ventotto traduzioni, che bastano a metterci di fronte a qualcosa di totalmente imprevisto: malgrado la sua fama ininterrotta, del più classico dei classici ci era sinora sfuggita l'anima segreta.
Sullo sfondo di una natura riarsa, in una terra che sembra posta agli estremi confini del mondo, si consuma una serie di drammi strettamente intrecciati fra loro. E a raccontare questa umanità sconfitta e allucinata, c'è la lingua di Omar Di Monopoli.
In una immaginaria, ma più che verosimile, cittadina del Salento, chiamata Languore, non esistono buoni e cattivi, ma solo individui che lottano per la sopravvivenza, con rabbia, con brutalità, o con cieca disperazione; le sparatorie, le violenze, gli stupri, le sopraffazioni di ogni genere si susseguono, quasi a toglierci il respiro – né c'è differenza vera tra gli uomini e i cani che questi si sono scelti come compagni, altrettanto feroci e ottusi. Sullo sfondo di una natura riarsa, in una terra che sembra posta agli estremi confini del mondo, si consuma una serie di drammi strettamente intrecciati fra loro. E a raccontare questa umanità sconfitta e allucinata, c'è la lingua di Omar Di Monopoli – una lingua, è stato scritto, «tornita, barocca e dialettale».