
Di questo romanzo breve sulla mafia, apparso per la prima volta nel 1961, ha scritto Leonardo Sciascia: "... ho impiegato addirittura un anno, da un'estate all'altra, per far più corto questo racconto. Ma il risultato cui questo mio lavoro di 'cavare' voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze di coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuole fare sul serio".
"Guai a un mondo in cui le creature vanno dietro al proprio cuore" dice la madre del protagonista di questo romanzo, ed è chiaro che il matrimonio cui destina suo figlio non sarà esattamente un gesto di ossequio nei confronti di una passione soverchiante. D'altronde, a Szybusz, shetl galiziano votato al commercio e al culto della prosperità economica, sarebbe stupefacente il contrario. Poi però non si può pretendere che il marito si accenda di passione per la moglie, né che nelle sue passeggiate solitarie stia lontano dalla casa della donna di cui da sempre è innamorato. Né si può evitare che il primogenito nasca come avvolto da una pellicola di indifferenza.
Non sempre i tempi che scandiscono la fortuna pubblica di uno scrittore coincidono con quelli della sua officina segreta, basti pensare a Morselli, morto suicida la notte del 31 luglio 1973, quando i lettori cominciavano a conoscerlo e ad amarlo. Oggi Adelphi propone una raccolta dei suoi romanzi per imparare a riscoprire e ad apprezzare questo scrittore.
"Due sorelle" si presenta come racconto di nobili amicizie. Anzitutto quella tra Otto, il giovane protagonista, un tempo sognatore e ora ereditiere e illuminato agricoltore, e Franz, un uomo infelice e allampanato, che tutti chiamano Paganini. Iniziato in un albergo di Vienna, il sodalizio condurrà Otto in Italia, alla ricerca dell'amico. E, in una casa sul lago di Garda, Otto incontra le due figlie dell'amico: Maria, forte e generosa creatura di terra che la terra sa far fruttificare, Camilla, minata nell'anima da un cruccio segreto e, nel fisico, dall'arte cui sacrifica se stessa. Elemento catalizzatore in questo gioco delle passioni e delle intelligenze è Alfred Mussar, prezioso amico e consigliere di famiglia.
Londra 1940. Mentre nel cielo incrociano gli aerei tedeschi, il dottor Haggard riceve la visita di James Vaughan, un giovane aviatore che gli si presenta con una frase letale: "Credo che lei conoscesse mia madre". Strappato di colpo alle sue fiale di morfina e al culto feticistico di una donna perduta per sempre, Haggard intraprende una lunga, tormentosa confessione, raccontando per la prima volta la vicenda che tre anni prima ha distrutto la sua vita.
Ormai quasi trent'anni fa Londra fu scossa da un feroce delitto che si scoprì avvenuto per sbaglio (invece della moglie l'assassino aveva ucciso la bambinaia di casa). Il colpevole era una figura di spicco dell'aristocrazia inglese, Lord Lucan. Ma la polizia non riuscì mai ad arrestarlo. Da allora si sono accumulati allarmi e improbabili cronache sul latitante, avvistato nei più remoti angoli del mondo e, a quanto pare, protetto da una possente omertà di classe. Sulla base di questo canovaccio terribilmente vero Muriel Spark ha costruito il suo romanzo, una sorta di supplemento di indagini dove Lord Lucan si sdoppia e incorre in avventure macabre ed esilaranti.
Disteso lungo l'arco di un ventennio (dal 1950 ai primi anni Settanta) e costruito avendo negli occhi i luoghi e i volti di tanti viaggi, il "Diario" brulica di pensieri che sperimentano tutte le forme possibili del rapporto tra la mente e la realtà. Vi troviamo velenosi "calembour" concentrati come saggi, aforismi e massime perforanti e definitivi, microritratti di taglio, apologhi surreali e corrosivi, sequenze in zapping, tra incanto e sarcasmo. L'irrefrenabile tendenza all'autodistruzione della specie umana pervade "Diario degli errori" come un malinconico Leitmotiv: ma la crudele esattezza della tassonomia è in Flaiano venata dalla "pietas" del moralista disilluso.
"Avevo cominciato a pensare di scrivere "Nelle vene dell'America", uno studio in cui avrei tentato di scoprire per me stesso che cosa potesse significare la terra dove, più o meno accidentalmente, ero nato... Il progetto era di entrare nella testa di alcuni fondatori o, se volete, "eroi" americani, attraverso l'esame delle loro testimonianze." Così Willliams avrebbe ricordato questo libro: un'opera che costituisce un genere a sé, l'autobiografia di un continente, affidata a chi sa entrare nella testa di vincitori e vinti, puritani e avventurieri, bianchi e indios, e al tempo stesso nella linfa di una natura troppo ricca, "la bellezza di orchidea del Nuovo Mondo", predestinata dal suo eccesso intatto allo stupro e al saccheggio.
Dopo aver setacciato le raccolte pubblicate da Landolfi nell'arco di oltre quarant'anni (da "Dialogo dei massimi sistemi" del 1937 a "Del meno" del 1978), Calvino scelse da ultimo 53 testi. Organizzati in sette sezioni che corrispondono ad altrettanti spunti critici essi consentono di cogliere in tutte le sue sfaccettature un'opera che ha sul lettore l'effetto "d'unghia che stride contro un vetro, o d'una carezza contropelo, o d'una associazione di idee che si vorrebbe scacciare subito dalla mente". Insomma: il vero Landolfi, quello che "preferisce lasciare nell'opera qualcosa di non risolto, un margine d'ombra e di rischio: il Landolfi che sperpera le sue puntate d'un colpo e le ritira bruscamente dal tavolo con gesto allucinato del giocatore".

