
"Gli dèi delle cose come stanno" sovrintendono all'opera di Kipling. Già, ma come stanno le cose? Lo scrittore non può che andare di persona - attraverso i personaggi - a scoprirlo nei dettagli. Ad esempio: come si sopravvive schiavi ai remi su una antica galera e che cosa si vede quando il mare raggiunge il parapetto prima di sommergerti? Come ci si sente quando un mostro degli abissi marini, che mai avrebbe dovuto risalire in superficie, ti guarda in faccia, o quando quella che blandamente chiamiamo ispirazione ti penetra, lacerando il tessuto individuale e costringendoti a scrivere una poesia come se fossi Keats? Che cosa significa essere un ragazzo-lupo, "un animale imperfettamente snaturato, soggetto a intermittenza alle imprevedibili reazioni di un'area spirituale non localizzata", che per Mowgli - la figura di fanciullo primordiale più amata della letteratura nasce in uno dei racconti - si trova nella pancia? Distillando l'acre alcol del lavoro, senza timori reverenziali di fronte a "sua maestà il vapore" o all'aglio dello slang, a onde hertziane o putrelle; scomodando metempsicosi e telegrafo senza fili e all'occorrenza un intero consesso di divinità indiane; addentrandosi persine nella giungla arcaica del ciclo, tra "la plebe degli dèi", Kipling, inguaribile Proteo all'apice della vita creativa, non fa che cambiare avventura.
"Mi rendevo conto che c'era un demone in. me che gioiva nel vedere le persone per quello che erano, e sempre di più, sempre di più". Così Fleur Talbot rievoca per noi gli albori del suo talento letterario negli anni del dopoguerra londinese, quando, giovane e "piena di gaudio", scriveva il suo primo libro, Warrender Chase. Insieme a lei partecipiamo alle riunioni dell'Associazione Autobiografica, dove lavora come stenografa alle dipendenze dell'anziano e altezzoso Sir Quentin. I soci leggono al gruppo le proprie memorie, che Fleur, al momento della battitura, arricchirà di dettagli scabrosi. Dal canto suo Sir Quentin si premura di conservare i fascicoli sottochiave per ignoti, forse sordidi, usi futuri. Ma com'è possibile che intanto Sir Quentin vada somigliando sempre più a Warrender Chase"? O è Warrender Chase a precorrere misteriosamente, tappa per tappa, quel che accade a Sir Quentin?
"Non si è mai sazi di queste mitiche figure femminili che montagne di biografie e romanzi hanno di volta in volta esaltato o denigrato, icone avventurose o romantiche, melodrammatiche o futili, raggelate dal tempo. Scorrono adesso tutte insieme, da Caterina de' Medici a Maria Antonietta, dai primi decenni del XVI secolo alla fine del XVIII, gemme della storia e delle storie delle donne, con le loro fortune e sfortune, col potere della loro bellezza e della loro sottomissione, il fervore della loro ambizione o del loro ardore, lo slancio della loro intelligenza o della loro astuzia, nel nuovo libro di Benedetta Craveri; la scrittrice che si muove nelle corti e nei castelli dei Valois e dei Borbone, dei Guisa o dei Lorena con la grazia somma della cultura, della curiosità, del pensiero, della scrittura magnifica" (Natalia Aspesi).
È un fulgido maggio, che a Maigret ricorda la prima comunione e l'infanzia. Quasi una premonizione. Perché non appena comincia a indagare sull'assassinio del conte Armand de Saint-Hilaire, illustre ex ambasciatore ucciso con quattro colpi di revolver nel suo studio in rue Saint-Dominique, il commissario ha davvero l'impressione di regredire pericolosamente all'infanzia, quando a Saint-Fiacre la contessa appariva, a lui, figlio dell'intendente del castello, nobile, elegante e irraggiungibile come l'eroina di un romanzo popolare. Insigni diplomatici, funzionari beffardi e pieni di sicumera, quartieri eleganti, residenze squisitamente armoniose. Proprio l'ambiente in cui Maigret si sente più a suo agio, non c'è che dire. E la fase di impregnazione con cui s'inaugura ogni sua inchiesta è questa volta più che mai fatta di esitazione, impaccio, timidezza. E poi tutti sembrano irreali, sfocati, inconsistenti, quasi appartenessero a un mondo svanito: il conte, Isi - la principessa cui ha dovuto rinunciare ma che ha continuato ad amare, da lontano, con incrollabile tenacia, per cinquant'anni, come se fosse una creatura eterea e soprannaturale -, la devota governante Jaquette, che ha lo sguardo fisso di certi uccelli, il gelido nipote Alain. L'unico dato reale sono i quattro colpi di pistola che l'assassino ha sparato con ferocia. Un caso frustrante, un delitto privo di una spiegazione plausibile. Condurre a termine l'inchiesta, per Maigret, è come acchiappare una nuvola. O il passato.
Se "la vecchia" ha proprio con lui, Vladimir, un rapporto così speciale, è perché loro due si somigliano: provano entrambi un profondo disgusto per tutto quanto li circonda, e la medesima pietà per se stessi. Due mascalzoni infelici, intrisi di amarezza e di cinismo, questo sono. Perciò, lasciando gli scrocconi a vagare annoiati nella grande villa, Jeanne Papelier si ubriaca insieme a lui; finisce sempre che si mettono a piangere, e poi vanno a letto insieme. Sono anni che Vladimir ricopre il duplice ruolo di amante e di domestico; e che si occupa dell'Elektra, lo yacht attraccato nel porticciolo di Golfe-Juan, insieme a Blinis, russo bianco come lui, con il quale ha diviso l'esilio e la miseria prima che trovassero la gallina dalle uova d'oro. Un equilibrio apparentemente perfetto, che si romperà allorché farà la sua comparsa una donna giovane e bella, la figlia della vecchia Papelier - una che non ha nulla a che fare né con quella ricchezza né con quell'abiezione.
Ne "La colomba pugnalata", Pietro Citati accetta una sfida temibile: avvicinarsi al mistero che fu Marcel Proust. Con la sensibilità e gli strumenti del narratore, con il rigore del saggista, egli ci rivela il paradosso di quest'uomo tutto dolcezza e passività che cela dentro di sé un grandioso architetto, un sublime legislatore, un pensatore metafisico capace di costruire una delle ultime cattedrali d'Occidente.
In un passaggio apparentemente marginale del racconto che da il titolo a questa raccolta disegnata dall'autore, la protagonista offre al suo professore di matematica, passato a trovarla, un bicchier d'acqua. Poi, mentre lo guarda bere, la ragazza è colpita dalla cosa più semplice, l'assoluta naturalezza del gesto, che l'uomo compie "come se in vita sua non avesse fatto altro che venire in cucina da me a bere acqua". È un tocco inconfondibile, che unisce in una riga tutta l'atmosfera di cui abbiamo bisogno e tutto l'intreccio che possiamo desiderare. Ma è anche di più. È la conferma che qualsiasi storia, anche minima, racconti - si tratti di un ragazzo che smette di parlare in casa, mentre intrattiene una fitta corrispondenza con i carcerati; di un adolescente che, alla morte del suo cane, si convince che nelle formule dell'algebra si annidi il segreto della felicità; o di una coppia gay in visita presso una nonna eccentrica e molto amata -, Cameron sembra appunto non avere mai fatto altro che scrivere storie. E come nei suoi romanzi ci offre, con la sua voce fresca e generosa, storie di giovinezza, inquietudini e nostalgia, di amori e famiglie e vita quotidiana.
Xiamen è una città sull'omonima isola rocciosa, collegata alla Cina sud-orientale da un'autostrada e due ponti: a una baia "disseminata di imbarcazioni e sfavillii erratici" fa da controcanto un agglomerato industriale fitto di immigrati "irregolari e affamati". Qui per lungo tempo ha spadroneggiato Lai Changxing, il tycoon che prima di diventare "il latitante più ricercato della Cina" è stato il più famoso tra i nuovi ricchi del post-maoismo, di volta in volta definito come un semplice tufei ("bandito", ma non sempre in senso dispregiativo) o come un Robin Hood dispensatore di lavoro. E qui si insedia, alla fine degli anni Novanta, il giovane corrispondente del "Times" Oliver August, per il quale Lai è l'emblema di una Cina con il piede in due staffe, che incoraggia i cittadini "ad agire sempre più liberamente, ma senza garantire che il loro operato rientri nella legalità". L'indagine-inseguimento nei luoghi dell'infanzia e dell'ascesa di Lai diventa allora un impressionante succedersi di "visioni" rivelatrici: l'"obitorio umano" di Beihai è la quintessenza di tutte le aree depresse; e la stessa Xiamen sembra il concentrato di un'interminabile transizione. Una transizione di cui August registra ogni aspetto socio-economico, ma di cui coglie soprattutto il versante grottesco e orrorifico.
Dicembre 1944. L'armata rossa sta per completare l'accerchiamento di Budapest. L'antivigilia di Natale una ragazza di venticinque anni, Erzsébet, che già da mesi vive braccata, sotto falsa identità, riesce a trovare un nascondiglio per il padre: il vecchio, un celebre scienziato a cui gli squadroni fascisti delle croci frecciate danno la caccia, verrà murato, insieme ad altre cinque persone, in una cantina grande quanto una dispensa. Erzsébet, invece, scenderà nello scantinato del palazzo dove vive, insieme a tutti gli abitanti di quello e di altri palazzi dei dintorni. Ci rimarranno per quattro settimane, quanto durerà il terribile assedio, mentre sopra le loro teste infuriano i combattimenti. In quel mondo sotterraneo maleodorante e caotico, in una "promiscuità da porcile", mentre fra la gente ammassata sui materassi si scatenano tensioni sempre più acute, Erzsébet aspetta "qualcosa". Qualcosa che si riassume in una parola: liberazione. Tra poco i russi saranno qui, pensa, e tutto cambierà. Finalmente, nella notte fra il 18 e il 19 gennaio, vedrà la sagoma del primo russo stagliarsi sotto la porta: ma quell'incontro sarà ben diverso da come se l'era immaginato. Scritto in meno di tre mesi nell'estate del 1945 e rimasto inedito fino al 2001, il romanzo è una testimonianza bruciante dell'orrore che un'intera città ha vissuto nei mesi dell'assedio dei sovietici, dei bombardamenti degli Alleati, sottoposta ai rabbiosi rastrellamenti degli sconfitti.
Che cosa mangiamo, e perché? Sono domande che ci poniamo ogni giorno, convinti che per rispondere basti sfogliare la rubrica di un giornale, o ascoltare per qualche minuto l'ultimo imbonitore nutrizionista ospitato in tv. Ma se quelle domande le si guarda un po' più da vicino, come fa Michael Pollan in questo suo documentato saggio, forse il primo sull'argomento a non prendere alcun partito, se non quello dell'ironia e del buon senso, le risposte appaiono meno scontate. Che legga insieme a noi le strepitose biografie del defunto pollo "biologico" riportate sulla confezione di petti del medesimo, o attraversi le lande grigie e fangose del Midwest, dove milioni di bovini nutriti a mais e antibiotici vivono la loro breve esistenza fra immensi stagni di liquame, Pollan arriva immancabilmente a conclusioni di volta in volta raccapriccianti o paradossali.

