
«La scrissi nell'occasione che ebbi a studiare le carte dei Poerio-Imbriani: uno dei non so quanti archivi privati di uomini del Risorgimento e di letterati, che io ho preso cura di ricercare, ordinare ed esaminare» annota Croce a proposito di questa monografia dedicata ai Poerio. Ma la pacata semplicità di uno studioso della grandezza di Croce rischia oggi di risultare fuorviante: perché questo scritto del 1916, frutto di un accurato scavo d'archivio non meno che di una vastissima documentazione, è in realtà il racconto limpido, appassionato e appassionante nel suo intreccio di filosofia, politica e letteratura, di settant'anni fra i più tumultuosi e risolutivi della storia d'Italia - dall'ultimo scorcio del Settecento al 1866 - ammirevolmente traguardata attraverso le vicende di una famiglia che finirà per imprimersi nella memoria di ogni lettore. Rivivremo infatti la giovinezza wertheriana di Giuseppe Poerio che, giunto a Napoli nel 1795 dopo studi impregnati della più moderna cultura europea, contribuisce in maniera decisiva al trionfo francese e repubblicano, si batte valorosamente contro i sanfedisti e viene condannato al carcere a vita nella fossa della Favignana (lo salva l'indulto, nel 1801); poi la sua evoluzione politica, tipica di un'intera generazione, giacché nel prendere via via le distanze dalle astrattezze giacobine Poerio rivaluta la reazione popolare antifrancese e abdica all'odio antimonarchico, alimentando il partito liberale moderato; infine il suo esilio con i sodali in Toscana e in altri Paesi europei, esilio che contribuirà ad aggravare la debolezza di tale partito, intrinsecamente legata alla matrice illuministica dei suoi leader. Ma rivivremo anche le vicende del figlio Carlo, più volte arrestato dalla polizia borbonica e infine condannato all'ergastolo, il quale contribuirà alla trasformazione del partito liberale napoletano in partito italiano; la tormentata vocazione alla poesia di suo fratello Alessandro, fervente ammiratore di Goethe, amico di Leopardi e Tommaseo; e, infine, le storie delle donne di casa Poerio, in particolare di Carlotta, sorella di Carlo e Alessandro e madre di Vittorio Imbriani.
Se il suicidio è certamente il più violato fra i tabù – oggi più che mai, come testimoniano le cronache –, rimane nondimeno, nella percezione comune, lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile. La giurisprudenza lo ha giudicato per molto tempo un reato; la religione lo considera peccato, aborrendolo più di ogni altra forma di uccisione e condannandolo come atto di ribellione e apostasia; la società lo rifiuta, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la follia, quasi che il suicidio fosse l’aberrazione antisociale per eccellenza. E non si può dire che siano mancate riflessioni e analisi – da John Donne a Hume, da Voltaire a Schopenhauer, da Durkheim alla messe di studi psicologici e psichiatrici –, ma il problema, nella sua essenza, è rimasto intatto.
Nel 1964 James Hillman capovolge ogni prospettiva con questo libro. Un libro che, dichiara, «mette in discussione la prevenzione del suicidio; va a indagare l’esperienza della morte; accosta il problema del suicidio non dal punto di vista della vita, della società e della “salute mentale”, bensì in relazione alla morte e all’anima. Considera il suicidio non soltanto come una via di uscita dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte … Questo punto di vista totalmente altro scaturisce dall’indagine del suicidio per come è esperito attraverso la visione che l’anima ha della morte». Perché nell’esperienza della morte, afferma Hillman, l’anima trova una rigenerazione, e dunque l’impulso suicida non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita: potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di un’esistenza più piena.
Ai suoi dodici figli Licurgo Caminera ha dato soltanto nomi presi dalla mitologia greca. I maschi li ha chiamati Ulisse, o Achille, o Ettore; le femmine Penelope, o Antigone, o Elena. Adesso, nel momento in cui capisce che sta per morire, i sei sopravvissuti ai «venti maligni» delle malattie infantili li vuole tutti intorno a sé. Perché il vecchio contadino anarchico con la passione per la letteratura classica desidera morire come morivano i patriarchi del mondo antico: affidando a chi resta non tanto i beni materiali accumulati in vita – oro, greggi, poderi –, ma le parole di una saggezza ancestrale, destinate a rappresentare, per chi resta, il retaggio più prezioso. Ai figli Licurgo consegna dunque sei buste, in ognuna delle quali c’è una parte del racconto che per anni lui ha scritto, di nascosto, per sé e per loro: dopo la sua morte i sei fratelli dovranno leggerlo gli uni agli altri ad alta voce, perché questo, e solo questo, è il modo in cui il vecchio vuole essere commemorato. A mano a mano che le buste verranno aperte, scopriremo anche noi, con lo sguardo stupefatto dei bambini che ascoltano una fiaba, la storia del bastone dei miracoli (che dà a chi lo possiede la buona morte, ma soprattutto la perigliosa facoltà di conquistare potere e ricchezze) e di Paulu Anzones, noto Muscadellu, che uccide il suo amante e ne sposa la sorella, e le fa fare un figlio con un altro uomo, e per mano di questo figlio troverà una morte atroce… Alla vicenda di Muscadellu e del suo funesto bastone, però – come sanno bene i tanti, appassionati lettori di Niffoi –, si intrecciano molte altre storie: storie di violenza e d’amore, di amicizia e di sangue, di dolore e di festa, che vanno a comporre un ennesimo, magnifico affresco, cupo e sfolgorante al tempo stesso, di vita barbaricina.
Vasilij Grossman scrisse fra il 1955 e il 1963 questo libro, che è il suo testamento. Come nel grandioso Vita e destino, non cambiò molto nel suo stile scabro e aspro che lo aveva reso celebre fra gli scrittori del realismo socialista. Ma vi infuse l’inconfondibile tono della verità. Con lucidità e fermezza, prima di ogni altro parlò qui di argomenti intoccabili: la perenne tortura della vita nei campi, ma anche l’altra tortura, più sottile, di chi ne ritorna e riconosce la bassezza e il terrore negli occhi imbarazzati di parenti e conoscenti; lo sterminio sistematico dei kulaki; la delazione come fondamento della società; il vero ruolo di Lenin e del suo «spregio della libertà » nella costruzione del mondo sovietico.
Al pari delle Braci e di Divorzio a Buda, questo romanzo appartiene al periodo più felice e incandescente dell’opera di Márai, quegli anni Quaranta in cui lo scrittore sembra aver voluto fissare in perfetti cristalli alcuni intrecci di passioni e menzogne, di tradimenti e crudeltà, di rivolte e dedizioni che hanno la stupefacente capacità di parlare a ogni lettore.
Dall’occhio di un grande fotografo per caso, ventisei istantanee – e altrettante paradossali didascalie – di un mondo nascosto, che nessun altro ha saputo vedere.
Quando, alla fine del secondo pannello della trilogia, il giovane Tito, signore di Gormenghast, trova la forza di strapparsi al suo reame, la cui bellezza si è ormai corrotta in cupa fatiscenza, le parole della madre - "Non esiste un altrove. Tutto conduce a Gormenghast" - sembrano richiudersi sulla sua fuga come una pietra tombale. Scoprirà che un altrove esiste, ma che è divorato non meno di Gormenghast dal Male: la città a cui approda è solcata dalle disumane meraviglie del controllo poliziesco - figure con l'elmetto che paiono scivolare sul terreno, sciami di velivoli senza pilota simili a equazioni di metallo, globi dalle viscere colorate quasi umane -, sottomessa a una scienza dispensatrice di morte. E nei cunicoli del Sottofiume vive una immane popolazione di reietti, fuggiaschi, falliti, mendicanti e cospiratori che non vedranno mai più la luce del sole. Scoprirà che al di là della sua nessun'altra realtà è per lui decifrabile, così come la sua è per gli altri inconcepibile: lontano da Gormenghast non c'è che l'ossessione del ricordo, e la follia. Dovrà, sorretto dall'aiuto di pochi - il gigantesco Musotorto, l'amorosa Giuna, i transfughi del Sottofiume Cancrello, Frombolo e Sbrago -, combattere, sfuggire a insidie, sottrarsi a ogni vincolo d'amore, amicizia e riconoscenza per conquistare l'unica verità che conti: "Era come una scheggia di pietra, ma dov'era la montagna dalla quale si era staccata?".
Già negli anni Trenta, quando scrisse Addio a Berlino, Christopher Isherwood sosteneva di voler trasformare il proprio occhio di romanziere nell’obiettivo di una macchina fotografica. Ma per lungo tempo – attraverso libri molto diversi fra loro, e spesso segnati dai personaggi fittizi o reali che raccontavano – l’intenzione rimase una di quelle fantasticherie stilistiche che spesso gli scrittori inseguono per tutta la vita, senza realizzarle mai. E invece nel suo ultimo romanzo – questo – Isherwood trasforma una giornata nella vita di George, un professore inglese non più giovane che vive in California, in un’asciutta, e proprio per questo struggente, sequenza di scatti. Non è una giornata particolare per George: solo altre ventiquattr’ore senza Jim, il suo compagno morto in un incidente. Ventiquattr’ore fra il sospetto dei vicini, la consolante vicinanza di Charlotte, la rabbia contro i libri letti per una vita ma ormai inutili, e il desiderio per un corpo giovane appena intravisto ma che forse è già troppo tardi per toccare. Quanto basta per comporre un ritratto che non si può dimenticare, e un racconto che alla sua uscita sorprese tutti, suonando troppo vero per non essere scandaloso.
Il connubio tra immagini e parole, oggi così pervasivo, ha in realtà una storia ben più antica di quel che si tende a credere, e nobili progenitori tanto celebrati in passato quanto ignorati o trascurati dal presente. Tra questi è certamente da annoverare Andrea Alciato, grande erudito, umanista, «austero e insofferente» giurista ricordato tra i numi tutelari della gloriosa università di Pavia. Il suo Emblematum liber (1531), galleria di situazioni umane trasfigurate in metafore, doveva trasmettere – similmente agli Adagia di Erasmo da Rotterdam, suo corrispondente – un patrimonio di saggezza e moralità facendo ricorso anche all’efficacia del mezzo iconografico. Divenne invece l’archetipo di un genere di letteratura che non solo conobbe uno straordinario successo in Europa fin dalla sua nascita, quasi cinquecento anni fa, ma esercitò un influsso sbalorditivo, tanto da costituire la chiave che dà accesso a molta parte dell’arte e della letteratura successive. Il libro degli emblemi è ora presentato in un’edizione che costituirà il soddisfacimento di un desiderio per gli studiosi – che denunciavano un sorprendente vuoto editoriale – e un’entusiasmante scoperta per tutti gli altri lettori, che potranno ripercorrere i pensieri e gli studi da cui sorse un’idea semplice e geniale: creare parole dalle quali possano fiorire immagini e viceversa, in uno sposalizio etico e filosofico dove si ascolta l’immagine e si visualizza la parola.
Il tempo passa per tutti, ma non per Maigret. Lavora alla Polizia giudiziaria da trent’anni, la pensione non è lontana, e la signora Maigret sta persino prendendo lezioni di guida in modo che durante il fine settimana possano raggiungere più facilmente Meung-sur-Loire e la loro casa di campagna. Eppure il commissario non ha affatto perso la sua miracolosa capacità di prendersi a cuore ogni inchiesta come fosse la prima, di assorbire come una spugna l’atmosfera degli ambienti in cui indaga, e soprattutto di mettersi nella pelle degli altri. Persino del giovane pallido, dall’aria stanca e ansiosa, che prima lo alleggerisce del portafogli sull’autobus, poi gli rispedisce il maltolto, distintivo compreso, al Quai, e infine lo convince a seguirlo nel surreale appartamento in cui vive per mostrargli il cadavere della moglie Sophie, freddata la notte prima con un colpo di rivoltella alla testa. Fragile, tormentato, geniale, aspirante romanziere o forse sceneggiatore, François Ricain detto Francis si aggrappa a Maigret come a una zattera e lo trascina in un milieu di giovani intellettuali ambiziosi, squattrinati e ribelli, che si accompagnano a ragazze dai capelli cotonati e l’espressione imbronciata, passano le loro notti tra fumo e alcol e sembrano fregarsene di tutto e di tutti – «dei selvaggi, scostumati e maleducati», secondo i vicini. Di rado qualcuno ha incuriosito Maigret quanto Francis. Con lui si mostra stranamente comprensivo, quasi indulgente. E c’è una ragione segreta: che avrebbe fatto lui, integerrimo tutore della legge, se avesse avuto un figlio come Francis?

