
Di cosa parliamo quando parliamo di progresso? Ci stiamo evolvendo verso una catastrofe o verso la libertà? Oppure siamo bloccati nel processo evolutivo dai nostri bisogni materiali? Come potrebbe essere un mondo in cui il progresso si sia fermato?
In realtà, ci rassicura Edoardo Boncinelli, «siamo ancora abbastanza lontani da una presunta fine del progresso», ma è proprio per questo che «abbiamo il dovere di capire quello che sta succedendo, con la mente aperta e senza farci confondere da timori e paure». Dallo sfregare due pietre insieme per ottenere una scintilla fino all'esplorazione dello spazio, dalle questioni di fede alle teorie di Darwin, dai disegni primitivi nelle grotte allo studio sulle mutazioni genetiche, Boncinelli racconta con straordinaria chiarezza l'origine della nostra specie e i fenomeni che hanno rivoluzionato la storia dell'umanità. Soffermandosi in particolare sulla straordinaria abilità dell'animale umano di interessarsi anche ad attività che non sono strettamente necessarie dal punto di vista biologico. «Potremmo pensare che se la vita ha un fine – e secondo me non ce l'ha – potrebbe essere quello di renderci sempre più liberi dai nostri bisogni biologici, liberi di compiere quei gesti gratuiti che ci danno piacere, che da un lato sembrano futili, ma dall'altro sono quelli che ci rendono umani.» Poiché il nostro scopo va ricercato ancora prima delle nostre origini, ancora prima dei sapiens e del Big Bang tra le stelle di cui siamo fatti. E verso le stelle conduce il nostro cammino.
"Un futuro perfetto" è il ritratto di una nuova visione del mondo, in totale rottura con le categorie tradizionali del pensiero liberale o conservatore. Steven Johnson propone un modello di sviluppo basato sulle peer network, le reti di pari capaci di trasformare ogni settore economico e politico in una realtà decentralizzata e partecipata, dai governi locali al movimenti di protesta, dal giornalismo ai nuovi modelli di assistenza sanitaria. Johnson esplora questa idea di progresso narrando una serie di vicende affascinanti, tra cui la progettazione del sistema ferroviario francese, la battaglia contro la malnutrizione in Vietnam o i curiosi "eventi dello sciroppo d'acero" e del servizio 311 a New York. In un momento storico delicato, in cui il sistema politico appare irrimediabilmente intasato di vecchie idee, "Un futuro perfetto" dimostra che il progresso non solo è ancora possibile, ma può assumere nuove forme.
È urgente imboccare la strada di un futuro più giusto, prendendo di petto il problema dei problemi: le gravi disuguaglianze e il senso di ingiustizia e impotenza che mortificano il paese. La crisi Covid-19 ha reso ancora più evidente questo stato di cose e ha aperto molteplici scenari. Come evitare che gli squilibri di potere e di ricchezza crescano ancora? O che prevalga una dinamica autoritaria? Quali sono le cause delle disuguaglianze e le responsabilità della politica e delle politiche? È possibile indirizzare l'accelerazione della trasformazione digitale alla diffusione di conoscenza e alla creazione di buoni lavori? E come? Come far funzionare la «macchina pubblica» e assicurare il confronto democratico sulle decisioni? Come assicurare dignità e partecipazione strategica al lavoro? Come affrontare la crisi generazionale? Sviluppando le «15 proposte per la giustizia sociale» elaborate dal Forum Disuguaglianze Diversità, alleanza originale di cittadinanza attiva e ricerca, il volume offre una risposta a queste domande, fornendo uno schema concettuale per affrontare l'incertezza e soluzioni operative per cambiare rotta.
La lezione di libertà di Nelson Mandela, i discorsi che hanno ispirato e acceso gli animi in tutto il mondo, vengono riuniti in questa raccolta che ripercorre, attraverso la sua voce, la vita di uno degli uomini più carismatici della nostra epoca. Le sue parole ci restituiscono il valore del giovane combattente, l'autorevolezza del leader che sconfisse l'apartheid, la saggezza del premio Nobel per la Pace, e ci guidano attraverso le grandi questioni del nostro tempo, segnate dal coraggio di un uomo i cui successi, oggi, coincidono con le conquiste dell'intera umanità.
"La paternità non è un fatto di sangue. Per come la vedo io, la paternità è qualcosa d'altro: è un susseguirsi di domande e voglia di esserci. Non esiste un manuale di istruzioni sulla paternità buono per tutte le occasioni. Esiste soltanto una risma di fogli bianchi che i tuoi figli ti aiutano a riempire. Fogli pieni di inevitabili errori, poesie improvvisate, arrabbiature ricorrenti, dolci sorprese. Fogli dove giorno dopo giorno annoti i tuoi goffi tentativi di regalare loro il dono più prezioso: quello di essere liberi e di non rinunciare mai a essere se stessi. Dei miei tre figli, uno è disabile. Moreno non vede, non parla e non può capire quasi nulla di quello che gli succede intorno. Moreno non sarà mai un uomo libero, anche se io fossi il padre migliore del mondo. Perché Moreno non può scegliere. Con Jacopo e Cosimo, posso provare a mettere nelle loro tasche un gettone di libertà. Magari minuscolo e un po' ammaccato. Ma posso sperare di riuscirci. Con Moreno, invece, so che non sarà mai possibile. Insomma, ho imparato presto che alcune partite non si potranno mai vincere. (In questo, essere interisti aiuta...) E col tempo ho anche imparato che, in ogni caso, non è soltanto la tua responsabilità di padre a importi di giocarle." A due anni dalla pubblicazione di "Zigulì", Massimiliano Verga racconta gli ultimi dodici, e decisivi, anni della sua esistenza in una sorta di cronaca-riflessione sulla paternità.
Troppi uomini. È stato questo eccesso maschile a metterci nei guai. Questa la malattia da cui il nostro Paese chiede di guarire: troppi uomini deboli, narcisisti e attaccati al potere nelle stanze in cui si decide - e spesso non si decide - sulla vita di tutti. La crisi che stiamo attraversando è la prova che la narrazione del patriarcato non funziona più. Che le cose non possono più andare in questo modo. Che l'economia, la politica, il lavoro, la vita non possono più essere quelli che conosciamo. È pensabile che a portarci in salvo siano quegli stessi troppi uomini, vecchi, stanchi e prepotenti, e quelle stesse logiche, quell'idea di potere, quella lontananza dalla vita reale che sono all'origine del problema? È logico che invece i temi posti dalle donne, la loro responsabilità, la loro concretezza, la loro capacità di cura, il loro senso immediato di ciò che è primario, la loro vicinanza alla vita, la loro idea di economia, di crescita e di sviluppo, la forza intatta dei loro desideri continuino a non fare agenda politica? No. Ma perché le cose cambino, per il bene di tutti, bisogna mandare via un bel po' di quegli uomini che non vogliono mollare. E il modo più semplice per farlo è che un numero corrispondente di donne vada al loro posto. Fuori dalla Camera, che dobbiamo fare ordine! In questo libro fresco e battagliero, giocoso e intenso, Marina Terragni ragiona di potere, rappresentanza, economia e sviluppo, di bellezza e desiderio, e anche di uomini, facendo giustizia di molti luoghi comuni
In una società sempre più plurale, sommersa da un sistema mediatico pervasivo e giocato sull’istante, c’è ancora spazio per una reale comunicazione di contenuti culturali? In che modo può svilupparsi l’informazione culturale in un contesto in cui i social media sembrano sostituirsi all’incontro «a tu per tu» e i tweets diventano la principale fonte di notizie? L’esperienza di «Domenica», supplemento culturale inventato negli anni Ottanta da «Il Sole 24 Ore», si offre come interessante e peculiare caso di studio per rispondere a tali domande, e per comprendere come, anche in scenari socio-tecnologici trasformati, ciò che rimane costante nel percorso storico e contenutistico di un giornale di cultura è la centralità dell’umano, con il suo desiderio di infinito e il suo complesso e irrinunciabile bisogno di verità.
MARIA LAURA CONTE, laureata in lettere classiche, ha conseguito il dottorato di ricerca in sociologia della comunicazione ed è giornalista professionista. Direttrice editoriale e della comunicazione della Fondazione internazionale Oasis, per la rivista omonima ha in particolare curato alcuni reportage e interviste da Sudan, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Tunisia, Egitto e Indonesia. Il suo libro Dove guarda l’Indonesia. Cristiani e musulmani nel paese del sorriso (Marcianum Press, Venezia 2006) ha ricevuto il Premio Capri-San Michele 2007.
Nel settembre del 1993, a Norfolk (Virginia), le acque del fiume Lafayette restituiscono il corpo senza vita della diciassettenne Sarah Wisnosky. Fin dal principio i sospetti ricadono sul fidanzato, il ventiseienne italo-americano Derek Rocco Barnabei, che, al termine di un processo indiziario durato tre settimane, è condannato a morte per violenza sessuale e omicidio. Barnabei si dichiarò innocente e vittima di un complotto. In molti si mobilitarono contro la sentenza. Intervennero esponenti politici, il Parlamento europeo - che adottò all'unanimità una risoluzione sulla pena di morte citando nel documento il caso Barnabei, definendolo controverso, e chiedendo di commutare la condanna in ergastolo -, persino papa Giovanni Paolo II si unì agli appelli. Tuttavia gli estremi tentativi di bloccare l'esecuzione non sortirono alcun effetto. La Corte suprema rigettò i ricorsi presentati e Derek Rocco Barnabei fu giustiziato in Virginia il 14 settembre 2000. Alessandro Milan, agli inizi della sua carriera in una appena nata Radio24, intervistò più volte Barnabei e collaborò a due straordinarie dirette dal braccio della morte. In queste pagine, Milan fonde la puntualità dell'inchiesta giudiziaria con il racconto autobiografico, perché la vicenda di Barnabei non è per lui solo una prova giornalistica, ma un incontro umano che lo investe e lo segna personalmente. Per vent'anni ha cercato risposte agli interrogativi e ai dubbi sulla verità di Derek, seppure nella convinzione che nessuna risposta possa giustificare la barbarie di una condanna a morte. La pena capitale «è sbagliata, sempre e comunque, anche per chi si è macchiato di un crimine efferato oltre ogni ragionevole dubbio». È soltanto una vendetta, «di Stato, ma pur sempre vendetta».
Che profilo deve avere un giudice come Dio comanda? Un tecnico raffinato? Un creatore della norma?
La risposta si chiama Rosario Livatino. Il 21 settembre 1990, quando è stato assassinato aveva 38 anni, lavorava come magistrato ad Agrigento.
Il suo profilo è antitetico a quello di un magistrato di “sistema. Si è sempre mostrato convinto che compito del giudice non sia inventare la norma, bensì applicarla, secondo competenza e coscienza.
Coscienza che ha posto S.T.D., Sub tutela Dei: è il primo magistrato in epoca moderna a essere beatificato (pag. 128)
Gli autori:
Alfredo Mantovano
Consigliere della Suprema Corte di Cassazione,
vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino
Domenico Airoma
Procuratore della Repubblica di Avellino,
vicepresidente del Centro studi Rosario Livatino
Mauro Ronco
Professore emerito di diritto penale,
presidente del Centro studi Rosario Livatino
Rosario Livatino è uomo della sua terra e di quella stessa terra conosce bellezza e ferite. Non esita a spendere tutta la sua giovane vita e le sue competenze di magistrato per ricucire parte di esse. Sa che questo lo può mettere in pericolo di vita. Tutto in lui tradisce la consapevolezza di una chiamata che viene anche dalla fede. La sua vita è il concretizzarsi delle beatitudini e a motivo del suo martirio in odium fidei è stato proclamato beato il 9 maggio del 2021. Il testo attraverso l’esempio del giovane giudice si propone di illuminare i percorsi che i nostri ragazzi e le nostre ragazze fanno quando si trovano di fronte alle domande e alle scelte più spinose, dove bene e male si fronteggiano. L'autrice sceglie di intrecciare la memoria della vita di Livatino alle vicende di quattro adolescenti che vivono un'estate molto particolare nei luoghi natii del giudice.
Esther Hillesum, detta Etty, è una ragazza olandese di origini ebraiche, colta, curiosa, dalla sensibilità inusuale. Appassionata di letteratura russa e lettrice vorace, lavora come dattilografa al Consiglio Ebraico: la sua è una condizione privilegiata, allo scoppiare della Seconda guerra mondiale e con l'inizio delle persecuzioni razziali potrebbe scappare e salvarsi. Potrebbe coltivare i suoi studi, scoprire l'amore che comincia ad affacciarsi nella sua vita, realizzare i mille sogni suggeriti dalla sua fantasia. Ma decide di non abbandonare la sua famiglia, il suo popolo, e di condividerne fino in fondo la sorte. Così, il 7 settembre 1943, dopo i mesi passati nel campo di transito di Westerbork, sale su un treno per Auschwitz da cui, quasi trentenne, non farà più ritorno. In questo appassionante ritratto, che si legge come un romanzo di grande intensità, Edgarda Ferri racconta l'animo ribelle e poetico di Etty Hillesum, gli anni della gioventù e della guerra affrontati con uno spirito mai esausto, un "umanesimo radicale" che ha trovato nelle pagine del suo diario e delle sue lettere un'altissima interpretazione letteraria. Considerata uno dei simboli della Shoah, la vita e l'opera di Etty Hillesum sono diventate fonti di ispirazione contro l'oblio della memoria, esempi di altruismo e solidarietà capaci di sopravvivere alle atrocità della storia. Questo libro ci trasporta con intimità e rispetto nei suoi momenti privati, nelle scelte coraggiose, nel cuore tormentato di una donna dalla forza indomita e mai dimenticata.
Nel 1956, allorché diventa consulente di Livio Garzanti, il giovane Citati non può sospettare che gli verrà affidato un compito impossibile: occuparsi del più impervio, moroso, nevrotico, geniale scrittore del Novecento, Carlo Emilio Gadda. Rapidamente, Citati ne conquista la fiducia: e a questo miracoloso sodalizio, durato dieci anni, dobbiamo il "Pasticciaccio", "I viaggi la morte", "Accoppiamenti giudiziosi". Ma alle funzioni di editor Citati ne ha ben presto aggiunte di ancor più delicate: quelle di confidente, amico e gaddista militante; o, meglio, di intermediario fra l'ingegnere e il mondo esterno: "Per certi aspetti mi aveva eletto suo padre ... mi chiedeva consiglio per tutte le cose della vita: le tasse, la domestica, il cibo, l'editore, il rapporto con gli scrittori e tutti gli esseri umani". Ne è prova il loro splendido carteggio, tutto da assaporare: rassicurato dalla dedizione e dal veemente impegno in suo favore di Citati, stimolato dai suoi interessi e dalla sua attività di critico, Gadda rompe gli argini, si abbandona a lettere "esorbitanti" e "barocche'"- di volta in volta eccentrici saggi, nobili "poèmes en prose", irresistibili "bizze".