Usciti nel dicembre del 1930, "I giorni incantati" inauguravano la collana "Nostro Novecento", promossa dallo stesso Fallacara con l'intento di adunare scrittori cattolici che, attenti alle nuove forme letterarie, rimanessero però fedeli alla concezione scolastica dello splendor veri, così da rendere la propria arte "espressione di tutto l'uomo".
Le narrazioni di sé di Vico e Croce e le intenzioni ad esse sottese consentono di ravvisare nell'autobiografia intellettuale una tipologia di scrittura filosofica che adotta una modalità comunicativa centrata sulla ostensività di un sapere che si fa azione e pratica di vita e sulla esortazione più o meno implicita, rivolta al lettore, a condividere liberamente e magari a ripetere in tutto o in parte l'itinerario esistenziale e professionale dell'autobiografato. Questo paradigma viene confermato dal Progetto di Giovanartico di Porcìa, ripubblicato nell'Appendice I, e si mostra efficace nel saggio, presentato nell'Appendice II, su di una diversa autonarrazione intellettuale: 'Le mie prigioni' di Silvio Pellico.
Jemolo: "Io penso, soprattutto, ai rapporti tra ceti diversi; quello che poteva essere la famiglia borghese di fronte a famiglie operaie, tante piccole, brutte storie che si leggono anche nella narrativa che erano perfettamente vere, oggi non sarebbero assolutamente più pensabili. (...) Anche in materia di violenza; quand'ero bambino a Roma se si vedevano due litigare si aveva subito paura di veder tirar fuori un coltello." Zincone: "O anche la spada, se erano aristocratici..." Jemolo: "Non sono così vecchio da ricordarmi i tempi del Manzoni e di Fra' Cristoforo..." Dal 1946 al 1990 il "Convegno dei Cinque" fu un vero e proprio simposio radiofonico, che una volta a settimana chiamava a discutere su temi di interesse generale cinque intellettuali di spicco della cultura italiana. Alla trasmissione partecipò per ben 87 volte (spesso in veste di moderatore) il grande giurista cattolico Arturo Carlo Jemolo, esercitandovi quel gusto per la discussione libera, argomentata e ironica, all'inglese, che, al di sotto dei temi politici del giorno, non ha mai smesso d'essere la vera grande assente del nostro dibattito pubblico.
Il volumetto del giovanissimo Papafava, uscito nel 1923, offriva una ricostruzione attendibile sulla base della relazione della Commissione d'inchiesta su Caporetto e delle fonti allora disponibili. L'autore metteva in luce la responsabilità degli alti comandi e la confusione nella direzione delle operazioni, con le divergenze tra il Comando Supremo e il comandante della II Armata, per cui non riteneva giusto attribuire a Badoglio, che gli appariva la prima vittima del dualismo tra Cadorna e Capello, la maggiore responsabilità del disastro del 1917. Più in generale, per Papafava andava respinta la versione che imputava Caporetto a uno "sciopero militare" (uno slogan fortunato e diffuso per decenni) e al sabotaggio di socialisti, giolittiani e cattolici.
Il pensiero di Vico si mostra come impresa eroica. Che cosa significa scrivere la storia? Quale rapporto si instaura tra la cosa accaduta e la cosa narrata? Dal nesso tra "il logos che racconta" e "i fatti della storia" dipende anche la questione di una logica della storia. Vico riconosce il limite intrinseco del sapere concettuale: l'età della ragione parla un linguaggio troppo preciso per scendere nelle menti balorde e decifrare le robustissime fantasie dei bestioni. L'agire poetico diviene così il gesto originario mediante cui gli universali fantastici raccolgono i rottami del genere umano e li vincolano nel nodo erculeo della civiltà. L'impresa eroica della Scienza nuova risiede nello sforzo di rintracciare un certo senso degli eventi: la storia è quasi un'eccezione rispetto alla selva, che sempre incombe sulle nazioni.