
Un italiano non più giovanissimo ha esplorato per anni la Spagna mosso dall'ossessione e dalla fede: la fede che il senso iberico della festa, della morte, della comunità gli trasmetteranno, per vie che non conosce, il segreto profondo del suo essere. Non conosce le vie, ma sa che passeranno per "i tori" - questo è il modo in cui in spagnolo si chiama la corrida. Nel suo viaggio lo scortano Hemingway, Garcia Lorca e Bataille, ma anche Platone e i miti greci, e lo bracca il nostro disprezzo verso quelle forme antiche di liturgia, di arte, di allevamento, in cui rispetto materiale e identificazione spirituale si fondono in modi sconosciuti alla nostra sensibilità. In un bar di Cadice, l'italiano si imbatte in Rafael Lazaga Julia, un suo coetaneo ex torero che accetta di iniziarlo, di insegnargli alcune figure del toreo e chissà, di prepararlo un giorno ad affrontare se non un torello - cosa già impensabile per un dilettante - una pur temibile vacca selvaggia. Rafael lo ospita nella propria famiglia, una famiglia pervasa di mistero: una famiglia eterna con al centro l'ineffabile Mariana, sorella cieca e veggente di Rafael, e il suo bambino, Paco. Attraverso questi incontri l'italiano potrà approfondire la conoscenza di un rito che è un'isola di verità e riflessione nel mare accanito e conforme della modernità, potrà penetrare il senso che dà il confronto pieno con la morte, arriverà ad avvertire il segreto equilibrio fra tragedia e commedia, fra fato ed arbitrio.
Flagello biblico, responsabili di avvelenamenti di massa o simbolo di rinascita postbellica: fin dagli albori l'umanità ha rinunciato a dare una definizione scientifica di "erbaccia", cambiando etichetta a seconda delle mode e della cultura dell'epoca. Prendendo avvio proprio da questo dato di fatto, l'autorevole botanico inglese Richard Mabey scrive la prima storia culturale di queste creature che vivono ai margini della società vegetale, così importanti per il sistema immunitario del pianeta, preziose per le loro proprietà curative, belle per le forme e i colori, eppure così strenuamente combattute dall'uomo che le ha sempre considerate pericolosi invasori dei suoi spazi. È proprio questa visione frutto di luoghi comuni che Mabey intende ribaltare: attraverso pagine colte e raffinate, ricche di informazioni erudite e reminiscenze personali e artistico-letterarie, l'autore compie una riflessione che trascende i confini della botanica e approda alla filosofia, mettendo in luce l'affinità esistenziale tra noi e le erbacce, quel comune spirito di adattamento e quell'istinto di sopravvivenza che dovrebbero indurci a riconoscere in loro delle compagne di vita da amare, dal destino saldamente intrecciato al nostro.
L'Italia è in stallo, i bilanci perennemente in affanno, la produttività arretra, gli investimenti latitano. Nel frattempo le cronache, così come i dati molto meno noti degli istituti di ricerca, ci raccontano di un'economia ogni giorno più inquinata, che sta affogando nell'illegalità. In questo libro - un'inchiesta che associa un'enorme documentazione di prima mano e un grande mestiere di divulgatrice - Nunzia Penelope raccoglie e classifica tutte le forme d'illegalità economica, risalendo al totale: quanto ci costano ogni anno l'evasione fiscale, il lavoro nero, gli abusi edilizi, la corruzione, la grande criminalità, il riciclaggio e gli altri reati finanziari? In che modo ciascuna di queste voci, e tutte assieme con le fitte relazioni che intrattengono, stanno divorando la nostra ricchezza? Come cambierebbe il Paese se l'illegalità tornasse anche solo ai livelli "fisiologici"? Quanti tagli alla sanità, all'istruzione, alle pensioni potremmo evitare? Le cifre sono da capogiro, e ci restituiscono in pieno la gravità della situazione: al contempo, tuttavia, ci dicono chiaramente che se mai riuscissimo a cambiar rotta avremmo un'Italia più ricca e più sana, con molte più risorse a disposizione per affrontare le sfide e i conflitti del prossimo futuro.
Nel suo primo libro, Marco Bianchi, ricercatore molecolare impegnato da anni sul fronte della lotta al cancro e appassionato di cucina, ci ha spiegato quali sono gli alimenti e i gruppi di alimenti grazie ai quali «mangiare bene» equivale a «mangiare sano»: I Magnifici 20, ricchi di virtù e protagonisti di una cucina buona in tutti i sensi e per tutti i sensi.
In questo secondo Bianchi ci offre un vero e proprio ricettario, con oltre duecento esempi di piatti «che si prendono cura di noi», soddisfacendo le richieste di chi ha già provato tutte le ricette dei Magnifici 20 e ne vuole ancora, ma anche coloro che si accostano per la prima volta, forse con occhio più rigorosamente gastronomico, a questo modo di concepire i piaceri della tavola. Possiamo allora adoperare Le ricette dei Magnifici 20 come il più classico dei libri di cucina, scegliendo tra veloci piatti unici, sfiziosi antipasti, ricche insalate, tutti i tipi di pasta, zuppe, secondi e dolci da leccarsi i baffi; scoprire quanto è facile riunire con successo nello stesso piatto i vecchi, cari sapori con i quali siamo cresciuti e gli ingredienti nuovi che ci capita di assaggiare nei ristoranti etnici. Possiamo anche consultarlo con occhio «scientifico», trovando nelle ricchissime appendici del libro una guida, ricetta per ricetta, agli ingredienti salutari – vitamine, microalimenti e sostanze chimiche.
Marco Bianchi è nato a Milano nel 1978 e fin da bambino ha coltivato due grandi passioni, crescendo tra microscopi e fornelli; a nove anni ha prodotto la sua prima pasta al forno ai quattro (forse anche cinque o sei) formaggi. Si è diplomato Tecnico in Ricerca Biochimica e ha studiato Monitoraggio delle trasformazioni alimentari, e ora lavora presso la Fondazione IFOM – Istituto FIRC (Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) di Oncologia Molecolare di Milano, centro di ricerca d'eccellenza a livello internazionale. All'attività scientifica affianca quella didattica, di formazione, informazione e divulgazione presso le scuole ed enti privati e pubblici.
La mossa base del pensiero di Žižek è prendere una nostra credenza invalsa e rovesciarla come un guanto, capovolgerla con l’abilità e l’apparente naturalezza del prestigiatore, con quel tanto in più di nevrosi, o di umorismo, che la gravità dei temi comporta, mostrandoci con veemente chiarezza che le cose – nella Storia, nella politica, nell’inconscio, nei rapporti fra gli esseri umani, nell’arte – non sono mai state come abbiamo sempre creduto fossero, e stanno invece in un modo tutto diverso, un modo che ora ci pare evidente.
Questo è il libro del Žižek-futuro, il libro in cui, smazzate le mille carte del presente, Žižek tira fuori dal cappello il coniglio mai visto dell’avvenire: che non è apocalissi, come fa pensare il titolo, ma nuovo inizio. E, scommettiamo, vedendo il coniglio molti esclameranno: Sì, proprio questo, giusto! Eccolo!
Slavoj Žižek (Lubiana, 1949) è fra i più innovativi e carismatici pensatori del nostro tempo. Insegna nella sua città natale e in molti atenei americani ed europei. Autore di moltissimi volumi, tra i quali Benvenuti nel deserto del reale (Meltemi, 2002), Tredici volte Lenin (Feltrinelli, 2003), Il soggetto scabroso (Raffaello Cortina, 2003), L’epidemia dell’immaginario (Meltemi, 2004), Il cuore perverso del cristianesimo (Meltemi, 2006), Leggere Lacan (Bollati Boringhieri, 2009).
Chi l’ha detto che i filosofi hanno sempre la testa fra le nuvole? E che la filosofia è una disciplina astrusa e «fumosa»? Ebbene, non c’è pagina di questo volume che non smentisca luoghi comuni tanto radicati. Anzi, un corso di sopravvivenza sembra perfino necessario, tanto più se la filosofia, come dimostra Girolamo De Michele, si occupa della vita e della nostra stessa sopravvivenza. Lo sapevano bene - con destini opposti, talvolta drammatici - Cartesio e Giordano Bruno,Galileo e Antonio Gramsci. Perché la filosofia è esercizio di libertà, della vita concreta prima ancora che del pensiero: come ci ricorda - udite, udite -Vasco Rossi citando Spinoza, la filosofia ha a che fare con la gioia e con il potere «che ha bisogno di renderci tristi».
Uno sguardo disincantato sulla storia della filosofia «ufficiale» permette di scoprire l’attualità di pensatori lontanissimi nel tempo - le grandi «star» dell’antichità, come Platone e Aristotele, ma anche figure più oscure, comeTalete e Anassimandro - accanto a «outsider di lusso» quali Giacomo Leopardi e David Foster Wallace (ma anche, di passaggio, Francesco Guccini, Luca Carboni e Fabrizio De André). Se la filosofia non insegna a trovare le risposte,ma ad affrontare i dubbi e le incertezze in cui non smetteremo mai di imbatterci, se «in filosofia il viaggio è più importante della meta», il suo racconto finisce per assomigliare a un grande romanzo d’avventura.Dell’avventura più bella, e che non ha mai fine.
Girolamo De Michele vive a Ferrara e insegna filosofia al liceo. È redattore di Carmilla, e-magazine diretto da Valerio Evangelisti. Scrive di filosofia e critica letteraria, e ha anche pubblicato saggi sulla didattica e i problemi della scuola (La scuola è di tutti, 2010). Considerato uno degli esponenti della New italian epic, per Einaudi Stile libero ha scritto tre romanzi: Tre uomini paradossali (2004), Scirocco (2005) e La visione del cieco (2008).
Michel Onfray, coerente con sé stesso, prende di mira in questo libro una religione che, ancor più dei monoteismi del suo Trattato di ateologia, sembra dover ancora avere vita lunga e felice. Questa religione è la psicoanalisi, e più in particolare il freudismo. L’idea di Onfray è semplice e radicale: Freud ha tentato di costruire una scienza e non vi è riuscito; ha voluto provare che l’inconscio ha le sue leggi, la sua logica intrinseca, può essere studiato mediante protocolli che riteneva scientifici, e tuttavia ha mentito, per potersi fregiare degli emblemi della scientificità. Tutto ciò merita una controinchiesta.
Con il rigore e la pazienza di un archivista, Onfray riprende daccapo in mano i testi sacri della nuova Chiesa. E senza timore dello stigma che si sarebbe senz’altro procurato, li mette a confronto con le testimonianze e ne esamina le contraddizioni. Il bilancio è terribile: la psicoanalisi è un’appendice della psicologia, della letteratura, della filosofia, ma non può assolutamente aspirare allo statuto di scienza «dura».
Da qualche anno il rugby si sta conquistando un seguito sempre più numeroso e particolarmente appassionato tra il pubblico italiano, anche quello femminile. Due campioni della palla ovale come Mauro e Mirco Bergamasco, affiancati da Matteo Rampin, dimostrano in queste pagine che i motivi di tanto successo non sono affatto accidentali, ma affondano le loro radici nei regolamenti, nell'orgoglio e nell'umiltà dei giocatori, nella disciplina, nell'etica stessa del rugby. In una parola, nella sua filosofia. Tecniche, mischie e placcaggi, il celebre "terzo tempo" e i fiumi di birra che dopo ogni partita riconciliano le squadre avversarie, il proverbiale fair play dei giocatori e del pubblico, la logica fondamentale del gruppo sono tutti aspetti che agli occhi di molti potrebbero perfino sembrare paradossali, ma che indicano risvolti umani e morali insospettabili quando si assiste alla vera e propria battaglia che si combatte sul campo, fra fango, sangue e botte da orbi. Veri e propri "eroi della porta accanto", i fratelli Bergamasco illustrano con semplicità il significato di uno sport che, al di là degli obiettivi strettamente agonistici, riflette in profondità la lotta che anima la vita e i nostri impulsi più ancestrali, riprodotti nel microcosmo sociale che è la squadra: in virtù dei caratteri non convenzionali di questa disciplina sportiva, la "filosofia rugbistica" si propone sempre di più come una metafora efficace in campo educativo e formativo.
Germain è un po' lo “scemo del villaggio”. Centodieci chili di muscoli per sorreggere una testa selvatica, un passato di mancata educazione sentimentale e un presente di conta dei piccioni e pomeriggi spesi al bar. Nel più ordinario dei luoghi, un parco pubblico, Germain fa un incontro straordinario. E nasce la più improbabile delle complicità, quella tra un gigante semianalfabeta e una vecchina con i capelli viola e la passione per i libri. Perché l'intelligenza è altra cosa dalla cultura.
In questo nuovo volume della sua Controstoria, Onfray demolisce il mito di un Illuminismo razionalista e materialista, denunciando il carattere assai moderato o persino retrivo di alcuni fra i suoi più celebrati esponenti, e tracciando inedite demarcazioni fra i «buoni» materialisti e edonisti e i «cattivi» idealisti del secolo dei Lumi. Anche se messi all’Indice dal Sant’Uffizio, Voltaire e in fondo anche Diderot rimangono infatti deisti e antiatei, vincolati in maniera ambigua ai ricatti della trascendenza. Kant? Misogino e per di più razzista, come Diderot e Buffon. Sade? Un protofascista, che predica la sopraffazione, lo sfruttamento e il disgusto del corpo. Rousseau poi, oltre che criptoidealista, è un reazionario luddista, contrario alla scienza e favorevole alla cieca obbedienza e all’ignoranza del popolo.
Chi è da salvare sono invece gli esponenti di una corrente minore e storicamente perdente dell’Illuminismo "estremista": pensatori come Meslier, La Mettrie, Maupertuis, Helvétius, d’Holbach.

