Amy e Bob Withers vivono in una baracca fatiscente nella piccola città neozelandese di Weimaru e, nella grave depressione economica degli anni Trenta, riescono a malapena a sfamare i loro quattro bambini. Francie, la maggiore, a dodici anni è costretta a lasciare la scuola con la prospettiva di un misero impiego nel locale lanificio. Teresa, detta Chicks, Pulcino, è la più piccola e trotterella sporca dietro i fratelli, in perenne ricerca di una caramella o di un gesto d’affetto. Toby, l’unico maschio, soffre di epilessia e attende spaventato quei momenti in cui Dio gli butta sulla testa «un mantello scuro», e lui lotta per liberarsi «agitando in aria le braccia e le gambe». Daphne, infine, la fragile e introversa Daphne, fa suo ogni pensiero, ogni palpito del cuore, ogni gioia e dolore dei suoi fratelli.
Il luogo preferito dai piccoli Withers è la discarica dei rifiuti, il posto dove si cercano i tesori, dove Toby e Daphne trovano libri di fiabe mangiucchiati dai vermi e dove Francie può liberamente raccontare i suoi sogni di adolescente che si farà strada nel mondo, andrà a ballare con i ragazzi e i loro cuori batteranno insieme.
Ma il futuro per chi nasce segnato non prevede alcuna realizzazione dei sogni. Passano gli anni e i fratelli Withers non trovano tesori sulle loro strade: Francie presto paga con una tragica fine il suo desiderio di evasione e trasgressione; Toby diventa un emarginato che si attacca ossessivamente a quel po’ di denaro che riesce a guadagnare e a un rapporto morboso con la madre; Chicks si allontana dalla famiglia per sposarsi e cercare disperatamente un’esistenza agiata, che si rivela però fragilissima. E Daphne, la debole e indifesa Daphne, vive rinchiusa in un ospedale psichiatrico dove è sottoposta a ripetuti e dolorosi elettroshock. Dalla sua «camera morta» accompagna con il suo canto, il suo grido, la sua poesia, le vite dei genitori e dei fratelli.
Opera prima di Janet Frame, che ne rivelò l’immenso talento lirico e narrativo, Gridano i gufi è un romanzo corale che parla di amore, abnegazione, dolore e speranza, gioie e lutti con una scrittura ricca di pathos e commozione tra le più alte della narrativa femminile di tutti i tempi.
Sono gli anni che precedono la seconda guerra mondiale e l’eccentrica famiglia inglese dei Durrell vive oziosamente sull’isola greca di Corfù. Gerald, il più piccolo, è un bambino di dieci anni con uno spirito di osservazione acuto e ricco di arguzia. Ha un’immensa passione per il mondo naturale e soprattutto per ogni genere di animali, e dal suo punto di vista la fertile Grecia assomiglia a un paradiso terrestre. Ogni giorno ci sono nuovi insetti da collezionare, nuovi pesci da studiare, nuove esplorazioni da compiere in groppa alla paziente asinella Sally e accompagnato da quel brontolone del cane Roger. La natura entusiasma Gerry molto più di quanto facciano mamma e fratelli, l’altra singolare fauna che il ragazzo non manca di osservare con disincanto e ironia. Margo, la sorella, è in perenne lotta con il suo aspetto fisico e cerca strampalate vie per curare sovrappeso e acne. Il fratello Leslie è un patito delle armi da caccia e, sdraiato all’ombra, passa il suo tempo a leggere trattati di balistica, senza grandi velleità di concretizzare alcunché. Larry, il fratello maggiore e futuro scrittore di successo, trascorre le sue giornate a deridere i famigliari con caustiche battute, salvo poi invitare a casa gli amici più stravaganti e improbabili. E mamma è una svampita vedova che adora i suoi figli e governa con levità e tolleranza in quella grande villa piena di stanze.
Attorno ai Durrell c’è il mondo dei greci, quel mondo fatto di dura fatica tra gli ulivi, le viti e il mare sotto il cocente sole mediterraneo, e la piccola comunità degli espatriati per i quali il rombo dei cannoni che si stanno preparando nel cuore dell’Europa è lontano anni luce.
In mezzo a questa umanità di cui racconta esilaranti aneddoti di vita quotidiana, Gerald trova il suo mentore nel dottor Stephanides, un medico e scienziato che lo prende a cuore e lo guida a un apprendimento più sistematico della zoologia. A dargli le maggiori soddisfazioni è però sempre l’incanto della natura: un’emozionante pesca al polipo a mezzanotte, un bianco barbagianni o una famiglia di porcospini da accudire come animali domestici, la magia dell’accoppiamento delle lumache, gli svolazzi del gufo Ulisse che tutte le sere torna a casa per cena riempiono le giornate del piccolo naturalista con un entusiasmo e una curiosità che, pagina dopo pagina, contagiano il lettore.
Il romanzo della vita di Shakespeare: così può essere definita questa monumentale biografia che penetra così a fondo nel mondo e nelle vicende più salienti dell’esistenza del genio inglese da apparire più come l’opera di un scrittore coevo che quella di un biografo del ventunesimo secolo.
Shakespeare nacque a Stratford il 23 aprile del 1564 e morì nella stessa piccola città inglese nel 1616. Gli amici di Stratford furono i suoi amici di sempre, le persone che accompagnarono l’intera sua esistenza. Lavorò in teatro, recitando nelle prime sale londinesi e riscrivendo e componendo per una serie di compagnie determinate quali «The Queen’s Men», «The Lord Chamberlain’s Men» e «The King’s Men». Un piccolo mondo, preciso, costante.
Peter Ackroyd ci accompagna innanzi tutto nel paesaggio di questo mondo. Percorre le strade di Stratford e Londra, a cavallo tra Cinquecento e Seicento, come se appartenesse pienamente a quel tempo. Descrive l’ambiente teatrale come se fosse uno spettatore elisabettiano e assistesse alle prime rappresentazioni delle tragedie e delle commedie. Scrive dello Shakespeare attore, drammaturgo e poeta, e dunque della sua cerchia di impresari, attori e coautori e della loro «comunanza di sentimenti». Ritesse, insomma, non solo la tela dell’epoca di Shakespeare, ma ne ravviva i colori e le sfumature come se fossero appena dipinti.
La biografia non è perciò né una ricostruzione accademica né didascalica della vita di Shakespeare, ma un vero e proprio romanzo, il libro di uno scrittore su uno scrittore, un’opera brillante che avvince e intrattiene.
Hassan Haji, secondogenito di sei figli, è nato sopra il ristorante di suo nonno, in Napean Sea Road a Bombay, vent'anni prima che fosse ribattezzata Mumbai. Ed è cresciuto guardando la figura esile di sua nonna che sfrecciava a piedi nudi sul pavimento di terra battuta della cucina, passava svelta le fettine di melanzana nella farina di ceci, dava uno scappellotto al cuoco, gli allungava un croccante di mandorle e rimproverava a gran voce la zia. Tutto nel giro di pochi secondi. E ha capito infine come va il mondo osservando suo padre, il grande Abbas, girare tutto il giorno per il suo locale a Bombay come un produttore di Bollywood, gridando ordini, mollando scappellotti sulla testa degli sciatti camerieri e accogliendo col sorriso sulle labbra gli ospiti. Naturale che quando l'intera famiglia Haji si trasferisce, dopo la tragica scomparsa della madre di Hassan, prima a Londra e poi a Lumière, nel cuore della Francia, sia proprio lui, il piccolo Hassan, a prendere il posto della nonna Ammi ai fornelli della Maison Mumbai, il ristorante aperto a Villa Dufour dal grande Abbas. Un locale magnifico per gli Haji, con un'imponente insegna a grandi lettere dorate su uno sfondo verde Islam, e la musica tradizionale indostana che riecheggia dagli altoparlanti di fortuna che zio Mayur ha montato in giardino. Peccato che abbia di fronte un albergo a diverse stelle, Le Saule Pleureur, la cui proprietaria, una certa Madame Mallory, sia andata a protestare dal sindaco per la presenza di un bistrò indiano...
È una gelida notte d'inverno del 1874 quando Honoré Bourret, rinomato medico di St Andrews East, ridente cittadina del Quebec vicina alla foce del fiume Ottawa, entra nella camera di Agnès, la sua bambina di cinque anni, la bacia, esce, poi raccoglie nella sua stanza qualche vestito e i soldi messi da parte per il battesimo di Laure, l'altra figlia di cui sua moglie è in attesa, e scappa. Una fuga generata da un'accusa orribile: aver percosso e affogato sulla riva dell'Ottawa Marie, sua sorella, una ragazza storpia e muta, diventata, a detta degli abitanti di St Andrews East, un peso insopportabile per lui e la sua carriera dopo la scomparsa dei loro genitori. Da quella notte d'inverno, un pensiero ossessivo si insinua nella mente di Agnès: ritrovare suo padre, "quell'uomo triste e tenebroso", e riconquistarlo. Alla morte della madre, incapace di sopravvivere agli eventi, Agnès, la pelle scura come quella di una zingara, viene accudita dalla nonna assieme a sua sorella Laure, bella come un angelo coi suoi capelli setosi e color del grano. Mentre Laure si rifugia nel suo mondo protetto e incantato di bambina dalla salute cagionevole, Agnès coltiva con ostinazione un sogno apparentemente irrealizzabile per una ragazzina del XIX secolo: percorrere le stesse orme del padre, diventare medico, nella speranza di poterlo un giorno incontrare.
È il 23 marzo 1890 a San Pietroburgo e, nell'ampio corridoio del teatro Mariinskij, è in corso una delle sfilate più emozionanti che sia dato vedere nella splendida città affacciata sul golfo di Finlandia. La famiglia reale è accorsa al gran completo per il saggio finale delle giovani allieve del corpo di ballo. Gli zar Romanov sono i finanziatori di buona parte dei Teatri imperiali e non mancano mai alle occasioni in cui è possibile scorgere le prime esibizioni delle future étoiles. Lungo il corridoio, l'imperatore Alessandro III avanza a grandi passi, seguito dall'imperatrice gracile e minuta. Più indietro ancora lo zarevic Nicola, detto Niki, un fauno, piccolo, esile nella sua uniforme, le guance morbide e graziose, i lineamenti fini. Raggiunta la tavola allestita per la sobria cena della scuola, l'imperatore fa sedere alla sua sinistra Nicola e, accanto a lui, la ragazza che più di tutte promette di essere una stella del Mariinskij: Mathilde Kschessinska, la figlia più giovane del grande Felix Kschessinsky, che ha danzato per i Romanov per quasi quarant'anni. L'intento di Alessandro III è palese: fare in modo che il figlio renda onore a una lunga tradizione che vuole imperatori, granduchi, conti e ufficiali scegliere le loro amanti tra le ballerine di danza classica. Per Mathilde Kschessinska è l'occasione di puntare dritta al cielo, un premio inaspettato al suo talento.
Testimonianza di una grande amicizia, "la più grande amicizia del secolo", "Mio sodalizio con De Pisis" è un libro di memorie, scritto con il tono e il ritmo disordinato della tenerezza. Comisso racconta la vita di un artista e amico, getta lo sguardo ai ricordi degli incontri quando insieme, "divini ragazzi", attraversavano Roma e Parigi alla ricerca di nuove ebbrezze e piaceri. Il racconto inizia con gli anni degli incontri a Roma, quando De Pisis comincia a dipingere per giustificare come studio l'alcova dove invita i ragazzi; e attraversa gli anni di Parigi, "le inaudite meraviglie" gustate insieme con il successo artistico e mondano. Sono gli anni migliori per De Pisis e per la loro amicizia. Con la sua incantevole scioltezza verbale, Comisso compone un racconto che ha lo stile della pittura di De Pisis, leggero, distratto e goloso, come ha scritto Parise, senza la minima tensione o forzatura, nello stesso italiano dolce e luminoso di Delfini, Penna e dello stesso Parise. E questa stessa dolcezza, che è poi tenerezza per la vita, lo assiste anche nel racconto degli ultimi tragici anni dell'amico, segnati dalla malattia e dalla reclusione in clinica: "nel corridoio i nostri passi andavano concordi come quando si andava prepotenti e felici per le strade di Parigi e Cortina"; e giunge ad accoglierci tutti nel pensiero finale: "noi siamo soltanto magnifiche onde in attesa sempre di disfarci nel crollo".
Adam e Cynthia Morey sono una coppia perfetta. Intelligenti, affascinanti, frivoli, vivono l’istante, l’immediato presente che li circonda, senza alcun legame affettivo che rallenti la loro corsa. Sentono di essere infallibili, sempre e comunque, e nella cerchia dei loro amici sono i primi a sposarsi. Hanno poco piú di vent’anni, e il matrimonio è l’occasione giusta per tagliare i ponti con i genitori, modesti lavoratori che i due guardano con disprezzo. Adam è un ragazzo avvenente, Cynthia, bellissima e vanitosa, ripete spesso: «Adam mi fa ridere e mi fa godere».
Sei anni dopo si sono trasformati nei tipici aspiranti ricchi dei quartieri bene di Manhattan. Lui lavora nella finanza da mattina a sera, è il preferito del capo (che disprezza) e ha iniziato a guadagnare un mucchio di soldi, non sempre in modo legale. Lei invece sta a casa con i bambini, e fatica a trascorrere delle giornate ripetitive che sembrano non finire mai. Al massimo va in palestra, con l’angoscia di essere diventata una di quelle donne che hanno smarrito ogni vitalità.
Ma il periodo buio non durerà molto. I due hanno un unico interesse, una grande ambizione: diventare sempre piú ricchi, raggiungere una posizione sociale di assoluta preminenza, in qualunque modo. Gli scrupoli non contano, una buona parte dei guadagni di Adam viene da affari poco puliti, da informazioni riservate, ma il mondo della finanza è fatto cosí, bisogna sempre incassare i propri privilegi. E la fortuna è dalla loro parte: un giorno Cynthia e Adam conquisteranno una ricchezza tale da dover assumere un consulente per le spese personali, e anche i figli impareranno a sfruttare l’ambiente dorato che li circonda. Se si mettono nei guai sanno che riusciranno sempre a farla franca, come tutti i ricchi di questo mondo.
I privilegiati delinea il ritratto intimista di una famiglia e si trasforma gradualmente in un’accusa rivolta a un’intera classe sociale e al momento storico in cui stiamo vivendo. È una storia ricca di suspense, di malinconia, caustica e divertente, narrata con una prosa limpida e pacata, capace di raccontare con intensità e bellezza la complicata e crudele commedia della vita.
È una mattina d’inverno del 1777 a Vienna quando Franz Anton Mesmer, il medico forse più noto della città, scende le scale che dagli alloggi notturni conducono alle stanze in cui esercita la professione. Fuori è buio pesto e fa freddo. Cinque minuti alla tastiera della glassarmonica, giusto qualche accenno di Mozart, Haydn o Gluck, sarebbero forse il modo migliore di cominciare la giornata. Ma Mesmer ha fretta di raggiungere il suo studio. Lo attende una visita importante, forse la più importante della sua carriera: deve esaminare la figlia cieca del funzionario imperialregio Paradis.
Della nuova paziente ha sentito dire tutto e il contrario di tutto. Che è brutta. Che è bella. Compresa nel suo dolore. Che si veste in modo poco adatto. Che suona il pianoforte meglio di quanto canti. Che ha una cataratta completa. Che finge soltanto di essere cieca. Solo su un punto sono tutti concordi: all’Imperatrice la ragazza sta enormemente a cuore dal giorno in cui, nella chiesa di corte degli Agostiniani Scalzi, ha cantato e suonato al suo cospetto commuovendola oltre ogni misura.
Per Mesmer, è chiaro, la giovane Paradis rappresenta un’occasione unica. Una volta accolta a corte, infatti, la sua figura di medico cesserebbe d’incanto di essere così controversa, e il suo metodo, la trasmissione del fluidum, la materia più fine che ha l’universo, attraverso l’uso di magneti e l’imposizione delle mani, sarebbe accettato da ministri e segretari, cameriere e valletti, padri e figli, e da tutte le fanciulle del Paese.
Il tempo di preparare lo studio, di sentire una carrozza arrivare e Mesmer si trova al cospetto del Segretario di corte e di Maria Theresia Paradis: una bambola pallida, imbellettata di cera, con una parrucca che sovrasta tutti, una drammatica cascata di pieghe nell’abito celestiale, gli occhi chiusi, la voce attutita come se fosse avvolta nella lana, il volto che assomiglia a un nido abbandonato da tempo.
Riuscirà Franz Anton Mesmer, medico tedesco in Vienna, genio per alcuni e ciarlatano per altri, a guarirla?
Romanzo intriso di magia letteraria e storia, La musica della notte indaga, con l’ammaliante melodia della sua prosa, la vicenda vera dell’incontro tra la più raffinata pianista della Vienna di fine Settecento e Franz Anton Mesmer, lo scopritore del magnetismo animale ammirato da Mozart, Kleist e Olov Enquist e considerato da molti il precursore della psicanalisi.
Nel 1892, a Manhattan, un’elaborata insegna in bronzo fa bella mostra di sé. Tiffany Glass & Decorating Company declama la scritta che campeggia sopra una solida porta di vetro molato. Oltre quella porta, si schiude un grande salone con enormi vetrate appese al soffitto e imponenti mosaici poggiati alle pareti. E poi vasi dalle linee morbide, pendole, candelabri Art Nouveau, lampade con paralumi di vetro soffiato in mille splendidi colori.
È il regno di Louis Comfort Tiffany, pittore di quadri orientalisti raffiguranti minareti, moschee e beduini, secondo il gusto del tempo. Gardenia all’occhiello, baffi fluenti, Louis Comfort Tiffany ha creato il suo atelier coltivando un progetto ambizioso: estendere la sua idea dell’arte come «bellezza che non ha bisogno di spiegazioni perché basta a se stessa» alla decorazione del vetro.
La Tiffany Glass & Decorating Company è, tuttavia, anche il regno delle Tiffany girls, le ragazze di Tiffany, come sono chiamate a Manhattan le donne che l’artista ha riunito attorno a sé. Ogni giorno Louis le esorta ad abituarsi a riconoscere la bellezza in ogni momento, a «cogliere la grazia di una forma, l’eccitazione di un colore». Radunate nel laboratorio al quinto piano, le ragazze, però, non hanno bisogno di soverchie esortazioni per tagliare il vetro con estro, e disegnare e dipingere alacremente.
Vi è Wilhelmina, impertinente diciassettenne dall’alta statura, Mary diciottenne dai capelli rossi, Cornelia, riservata e taciturna, Agnes, l’altera, la prima donna cui Tiffany ha accordato l’onore di dipingere i soggetti delle sue vetrate. E, infine, Clara Wolcott Driscoll.
Giovane vedova in un laboratorio dove vige la regola, imposta dal padre di Louis, di impiegare solo fanciulle non maritate, Clara è l’artefice autentica delle creazioni Tiffany. È lei, infatti, a ideare quegli oggetti meravigliosi, i paralumi di vetro soffiato, decorati con uno stile che sembra celebrare la gioia e il mistero di un secolo che deve ancora iniziare.
Una ragazza da Tiffany è, soprattutto, la sua storia. Una storia in cui Susan Vreeland non celebra soltanto un talento misconosciuto, ma illumina anche gli slanci, i desideri e le ambizioni di una giovane donna nella metropoli americana pronta a tuffarsi nella grande avventura del Novecento.