
Quando ci si presenta si inizia dal nome. Il mio nome scientifico è Pinus pinea. Così mi ha chiamato Linneo, scegliendo come nome specifico pinea, quasi a dire 'pino per eccellenza'. Il mio nome italiano è semplicemente pino domestico, pino da pinolo, pino ombrellifero. Sono il vero simbolo di albero italico. Il pino domestico è il vero simbolo di albero italico. Non a caso gli inglesi lo chiamano Italian stone pine e in Francia Pin d'Italie. È l'albero di casa nostra perché il paesaggio mediterraneo non è umile né dimesso. È grandioso, solenne, rifiuta la pompa dei colori esotici tropicali. Il pino, questo grande e maestoso albero, dall'odore penetrante, caratterizza, fino a diventarne l'icona, la macchia mediterranea dei litorali tirrenici, adriatici e ionici e delle isole di Sardegna e di Sicilia.
Per molto tempo la cultura europea ha sottovalutato, considerandole marginali, molte esperienze di governo di regine o reggenti. Solo recentemente gli studi hanno riconsiderato la 'mostruosità' della trasmissione dinastica del potere alle donne e hanno messo in dubbio che il principio che legittimava l'esclusione fosse fondato su ragioni legate al sesso per una divisione 'naturale' dei ruoli di genere. I casi delle impreviste successioni femminili al trono sono state rappresentate, nel Medioevo e nella prima età moderna, da ritratti a tinte fosche: sovrane schiave di vizi innominabili, inadeguate a esercitare il comando, incapaci per natura di essere alla testa di eserciti, facili prede di passioni incontrollate, streghe, avvelenatrici o incestuose. Se il governo andava a una donna ne derivavano effetti di instabilità e di disordine. Per controversie relative a contestate successioni femminili vennero combattute, ad esempio, la guerra dei Cento anni, le guerre d'Italia e la guerra settecentesca che contrastò il trono a Maria Teresa d'Austria. Le colpe attribuite al disordine sessuale e alla sfrenatezza femminile sono voci del lungo catalogo dei topoi misogini che hanno radicato a lungo nel senso comune l'associazione tra crisi politiche e comportamenti irragionevoli e disordinati delle donne. La pretesa anomalia della regalità femminile è stata un'eccezione felice solo quando le sovrane non erano né propriamente donne né propriamente sessuate: guerriere 'virili' o sante donne...
"... a un figlio - beh, veramente a tre: Lidia, Fabio e Adrian, nell'ordine. Ricordi, Adrian, quando eri a scuola e ti chiedevano cosa faceva tuo padre? Tu farfugliavi: economista, giornalista... economista giornalista... giornalista... economista... giornalista economico... Ma, alla fine, capivano quello che faccio? No, rispondevi. Ma almeno tu lo capisci? Veramente neanch'io, confessavi. Questa mi sembra già una ragione sufficiente per scrivervi un libro..." (Fabrizio Galimberti)
Mar rimanda quasi fatalmente ad amor. Nel mare d’amore l’amante è in balia delle onde, la tempesta rappresenta la tirannia di Eros, la forza violenta del desiderio trascina verso il naufragio chi non è riamato.
Un viaggio alla scoperta di una delle immagini più fortunate della tradizione letteraria occidentale. Un manuale poetico di quel linguaggio dell’eros che abbiamo ereditato dagli antichi greci.
La tempesta d’amore, l’onda della passione, l’amante come naufrago. Il desiderio erotico ha un suo lessico marinaro che è entrato anche nel linguaggio comune. Ma il rapporto indissolubile fra l’amore e il mare nasce nella Grecia antica. Nelle saghe della mitologia gli amanti eroici (Teseo e Arianna, Giasone e Medea, Paride ed Elena) solcano le onde sospinti dal vento del desiderio. Isole e scogli sono spesso scenari dei drammi amorosi e un tuffo tra le acque, come quello di Saffo dalla favolosa rupe di Leucade, sigilla talvolta una storia infelice. Sullo sfondo c’è il culto della dea Afrodite che, per i greci, non era solo la divinità dell’amore ma anche una signora dei mari e una protettrice della navigazione. Tramite le parole dei poeti, dai lirici greci alle elegie di Ovidio, l’immagine del mare d’amore ha attraversato i secoli. Alla radice, un nucleo profondo, un senso drammatico dell’esistenza umana. C’è l’antica consapevolezza che oscure potenze divine, come il tremendo Eros, possono in ogni momento sconvolgere la vita dei mortali, vanificando ogni orgogliosa pretesa di autosufficienza. E c’è il senso, tipicamente greco, della vita come esperienza aperta e mai risolta, come scacchiera su cui il destino o il caso giocano la loro partita. Non solo in amore, ma in ogni nostra vicenda, la tempesta è sempre in agguato.
«Capire qualcosa di più della mia stirpe, trovare il bandolo del nostro comune sentire femminile. Così ho legato la mia parola a quella di tante donne che mi hanno preceduta e nutrita, le scrittrici di cui possiedo libri sottolineati, appuntati, deformati. Amati.Virginia Woolf, Natalia Ginzburg,Annie Ernaux,Marguerite Duras,Elsa Morante,Sylvia Plath,Ingeborg Bachmann, Anna Maria Ortese, Lalla Romano, Joyce Carol Oates, Nina Berberova, Karen Blixen, Clarice Lispector, Marguerite Yourcenar, Hannah Arendt.E tantissime altre. Ne ho seguito le orme, le ombre, le opere e i fatti della vita, perdecifrare la tela di un pensiero e di un lessico nostri.»
La materialità delle cose, l’urgenza della vita, la solitudine, la ricerca di un senso: pagina dopo pagina, la scrittrice Sandra Petrignani ricostruisce un mosaico che è il volto delle donne.
Oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, di livello di istruzione, di carriera. Vale per tutti, tranne per quella minoranza che sta in alto. Questo dovrebbe essere il problema. Ci è stato detto che bisognava rendere il mercato del lavoro più flessibile e abbassare i salari per aumentare la competitività delle aziende e saremmo stati tutti più ricchi: l’abbiamo fatto ma siamo solo più poveri e ricattabili.
Quelli che hanno salari orari di tre, quattro, sei euro lordi l’ora. Quelli costretti al lavoro gratuito o a un tirocinio a 400 euro al mese. Quelli sottoinquadrati e i troppi costretti a un part time involontario, spesso fittizio. Ormai il mercato del lavoro è una giungla con una sola certezza: stipendi bassi e precari. Paghe da fame per un lavoro povero. E se fosse proprio questo il problema che impedisce alla nostra economia di crescere? E se ricominciassimo a parlare di lotta salariale? È sull’impoverimento dei lavoratori, infatti, che molte imprese continuano ad accumulare profitti agitando di volta in volta il nemico esterno più utile alla propria retorica: gli immigrati, le delocalizzazioni, la tecnologia. Una narrazione che nasconde un interesse politico, diretto a garantire l’alto contro il basso della società, i profitti dei pochi contro i salari dei molti. Ma la consapevolezza che le crescenti disuguaglianze originano dai salari e dalle retribuzioni è tornata con forza nel dibattito pubblico e alimenta le lotte dei movimenti sociali a livello globale.
Più della metà dei giovani americani non crede più nel capitalismo. L’ascensore sociale si è rotto e l’american dream è andato in pezzi. Bhaskar Sunkara, un trentenne figlio di immigrati, è diventato in pochissimi anni la voce più ascoltata e influente di questa generazione, ha fondato una rivista, “Jacobin”, che ha cambiato il panorama culturale negli USA e ha galvanizzato la sinistra del Partito democratico assieme a vecchie glorie come Bernie Sanders e nuove star come Alexandria Ocasio-Cortez. Questo libro ci fa conoscere la sua voce e le sue idee, attraverso le quali riscopriamo il significato di una parola che in Italia e in Europa ha perso nel tempo il fascino e la potenza originari: socialismo. Un socialismo per il Ventunesimo secolo, finalmente democratico, che propone come obiettivo l’uguaglianza economica e la lotta contro tutte le forme di oppressione, dal razzismo al sessismo. Il campo di battaglia è quello dei diritti: il diritto alla casa, al lavoro, alla scuola, all’educazione e alla salute. Un invito a costruire nuove istituzioni democratiche dal basso, nei posti di lavoro e nelle comunità locali. Un libro per tutti coloro che cercano, che lottano e che sperano nella fine delle enormi disuguaglianze del nostro tempo.
Una storia come questa non ci era mai stata raccontata. E non è un modo di dire. Perché alla fine delle oltre ottocento pagine della Storia mondiale dell’Italiaci si accorge che il paese scolpito nella nostra testa non è più riconoscibile, ha preso un’altra forma. Non più lo stivale allungato dalle Alpi a Lampedusa per oltre duemiladuecento anni di splendori e miserie, ma un’Italia piena di mondo, un miscuglio di genti, lingue e modi di vivere che si irradia oltre i confini soliti fissati dalla geografia. Senza paragoni nel globo.
Simonetta Fiori, “la Repubblica”
180 lemmi capaci di trasportarci dai ghiacciai di un tempo incerto, collocato a cinquemila anni di distanza da noi, fino al Mediterraneo infuocato dei nostri giorni. Una inconsueta, sorprendente, Storia mondiale dell’Italia.
Luigi Mascilli Migliorini, “Il Sole 24 Ore”
Un evento editoriale e culturale di prima grandezza.
Piero Bevilacqua, “il manifesto”
Dall’uomo di Similaun agli sbarchi a Lampedusa, 180 tappe per riscoprire il nostro posto nel mondo. Una storia che provoca, spiazza, sorprende e allarga lo sguardo.
Questo libro è stato scritto mentre imperversava la disumana ‘chiusura dei porti’ imposta dal governo italiano allora in carica a danno di profughi in fuga dall’inferno libico. Quella pagina vergognosa della nostra storia recente, che ha macchiato l’onore del nostro Paese, è stata anche rivelatrice di un male antico e sempre latente: il lauto consenso che premia la demagogia xenofoba. Drammatica conferma di quello che Umberto Eco definì efficacemente il «fascismo eterno». La xenofobia sovranista ha fatto credere che la soluzione alle ondate migratorie sia «alzare il ponte levatoio». Ma la storia ci insegna che la vicenda degli spostamenti di masse umane coincide con la storia stessa del genere umano. È puerile volervi porre un freno ‘a mano armata’. Gli stessi Stati europei che ora indossano l’elmetto per chiudere le porte e i porti traggono origine da migrazioni di popoli che investirono – in un processo storico durato secoli – la struttura statale all’epoca considerata la più forte: quella dell’impero romano. Il Mediterraneo – oggi cimitero a cielo aperto –, che l’imperialismo europeo per lungo tempo ha diviso in colonizzati e colonizzatori, era stato molto prima, e per un tempo non breve, un’area politicoculturale unitaria. Può tornare a esserlo se sapremo ripensare radicalmente la troppo augusta, arroccata e qua e là incrinata, ‘unione’ europea.
Tra il 1934 e il 1944, Hitler e Mussolini si incontrarono diverse volte in Germania e in Italia. Questi eventi vennero celebrati dalla propaganda di entrambi i regimi come tappe nodali mentre la stampa internazionale li osservò con enorme attenzione, contribuendo a diffonderne il sinistro fascino in tutto il mondo. Nonostante il loro clamore e il loro enorme peso, in genere gli storici hanno dedicato poca attenzione alla relazione diretta tra i due dittatori, concentrandosi spesso su aspetti più specifici e legati alla dimensione nazionale. In realtà, questa relazione fu tesa, complessa ed esercitò un fortissimo peso nella diplomazia internazionale, nella preparazione della guerra e nelle decisioni strategiche dei due paesi. Spesso anche ben al di là delle reali intenzioni del Duce e del Führer. Fu, dunque, la relazione tra due uomini, due dittatori, a cambiare il corso della storia europea del XX secolo. Le pagine di questo libro la raccontano nei suoi aspetti più intimi e finora trascurati e lo fa in un momento in cui i timori e le preoccupazioni sulla gestione dei rapporti tra paesi tornano prepotentemente sulla scena pubblica.