
I classici antichi sono diventati soggetti di cui aver paura. Non era facile prevedere che un giorno qualcuno avrebbe messo in guardia i giovani dalla lettura delle opere greche e romane, cospargendole di avvisi di pericolo o addirittura escludendone direttamente alcune dal canone; gli stessi che avrebbero accusato i classici di aver contaminato la nostra cultura con il razzismo, il sessismo, il suprematismo bianco, arrivando al punto di auspicare addirittura l'abolizione del loro insegnamento. Invece è accaduto. Si tratta di un fenomeno recente, ma soprattutto nuovo, inatteso, le cui motivazioni non possono essere ignorate: e come tutte le cose nuove e inattese, ha fatto sì che fosse necessario tornare a riflettere sullo stesso problema - che cosa sono i classici per noi? - da un nuovo punto di vista. Maurizio Bettini ci esorta dunque a tenere vivo il dialogo e a fuggire i pericoli insiti nella sua interruzione. Perché è proprio questo che avviene, quando si manifesta la paura dei Greci e dei Romani: un'interruzione di dialogo fra noi e i classici; non solo, fra noi e la storia, fra noi e il passato.
La vita umana, quando perde il suo fuoco, è destinata a diventare fredda come la morte. Questa nostra epoca pare aver smarrito il fuoco. Quando tutto smette di avere senso, l'unica cosa che sembra delinearsi davanti a noi è trovare qualcosa che ci distragga da questa assenza di significato. Viviamo vite imprigionate in un eterno intrattenimento, ed è difficile dissentire da una società che pare ormai organizzata solo per creare esigenze di consumi e vendere. Ma se tutto questo a un tratto finisse? Se tutto il mondo che conosciamo crollasse lasciando solo macerie e rovine? Che ne sarebbe di noi? Cormac McCarthy (1933-2023), tra i più grandi scrittori americani contemporanei, ha messo in scena un racconto nel suo romanzo "La strada" che conduce a un ribaltamento dello sguardo. Persino il padre protagonista del racconto di McCarthy nel suo pessimismo cosmico riesce a conservare al fondo di se stesso un desiderio di felicità. È la vita di quel figlio l'olio della sua fiamma, il combustibile vero del suo fuoco. Le persone felici sono quelle che hanno trovato il tesoro nascosto. Non hanno nulla, secondo la logica del mondo, ma hanno un motivo, un fuoco e per questo hanno tutto.
Un appassionato corpo a corpo con il pensiero delle origini per riflettere su ciò che ci rende quel che siamo. La questione decisiva oggi è infatti la stessa di sempre: il rapporto fra l'essere umano e la sua animalità, dunque il modo in cui abitiamo il mondo. Perché se vogliamo curare la nostra anima, dobbiamo innanzitutto accettare la nostra natura di animali mortali. Poetici, enigmatici, oracolari, i pensatori più antichi sono dominati da una drammatica complessità che da sempre mette in crisi i lettori. Eppure è alla portata eterna dei loro versi vertiginosi e sconcertanti che si affida Matteo Nucci per ricordarci quale sfida dobbiamo accettare per non dimenticare la nostra vera natura. Furono, infatti, questi sapienti - Eraclito, Parmenide, Empedocle - a dare la risposta più esatta e oscura. Ed è proprio con la loro oscurità che dobbiamo confrontarci, se vogliamo vivere fino in fondo il potere e la debolezza di ciò che ci allontana dal regno animale, il logos, per fare esperienza della nostra umanità, e soprattutto della nostra animalità. Rileggendo miti in cui umano e animale s'intrecciano in creature fantastiche - dal Minotauro alla Sfinge -, attraversando i secoli per trovarci di fronte a scrittori come Dürrenmatt e Hemingway, o poeti come Kavafis e García Lorca, scopriamo quanto potenti e irresistibili siano certe riflessioni antiche, quanto storie famosissime come quelle di Edipo e di Arianna possano farci guardare con altri occhi a temi che di solito giudichiamo con il pregiudizio della superficialità. Corredato dalle illustrazioni di Giovanni Battista Porzio, "Il grido di Pan" ci mette di fronte alla verità decisiva: «Cosa siamo noi se non animali mortali? Esseri che nascono e muoiono, immersi in un ciclo continuo di nascite e morti, noi come quegli animali che invece il nostro logos non lo condividono. Ecco ciò che siamo e che dimentichiamo».
La saga criminale dei Wadia. Party dove l'eccesso è la regola, abiti di uno splendore sfacciato, auto di lusso. Sesso. È tutto grandioso, tutto disponibile, basta accettare la legge della famiglia Wadia. Ora, anche a causa di una donna, questo mondo può finire. «La risposta indiana a "Il padrino"» (The Guardian). Sono amati da alcuni, odiati da molti, temuti da tutti. I Wadia controllano trasporti, miniere, zuccherifici. Ma è con la speculazione edilizia che stanno consolidando il loro impero. Ora però le proteste di chi viene sfrattato montano e il «Delhi Post» sta indagando per fare esplodere lo scandalo. Grazie al carisma e alla determinazione, Neda è riuscita a insinuarsi nella cerchia di Sunny Wadia, il rampollo destinato a prendere in mano le redini della famiglia. Ma invaghirsi di una giornalista come lei è una debolezza che a Sunny potrebbe costare molto cara. Il compito di scongiurare la rovina spetterà ad Ajay, ragazzo di origini poverissime, autista, tuttofare, guardia del corpo e, all'occorrenza, vittima sacrificale.
Alice ha scritto due romanzi di enorme successo, ma per trovare compagnia deve andare su Tinder. Eileen, la sua amica, lavora per una rivista letteraria, però non ci paga l'affitto. Simon ama da sempre la stessa donna, ma da sempre ne frequenta altre. Felix passa in birreria il tempo libero dal lavoro di magazziniere, ma la sua è soltanto una fuga. Alice, Eileen, Simon e Felix si parlano, si fraintendono, si deludono e si amano e, mentre attraversano il cerchio di fuoco dei trent'anni, si chiedono se esista davvero, al di là, un mondo bello in cui sperare.
«Cominciamo dal nome, Velarus. Lo scelse quella scema di mia madre. L'idiota che era mio padre non si oppose, e così fu». Sullo sfondo della ricca e fin troppo operosa provincia del Nord Italia, la sfrenata tragicommedia di un ragazzino con una famiglia di disgraziati. Il padre e la madre di Velarus non sono quel che si dice due tipi amorevoli. Del resto come potrebbero esserlo dei faccendieri sempre in viaggio, sempre attaccati al telefono, sempre impegnati a comprare e a vendere. Anche la nascita di un figlio è per loro una semplice transazione. Solo che poi non hanno né il tempo né la voglia di occuparsene, preferiscono scaricare l'impiccio su uno strampalato tassista e sulla sua altrettanto bizzarra moglie infermiera. Così il bambino viene lasciato in custodia un po' a chi capita: comincia per lui una lunga teoria di «affidamenti». Tutto questo, però, produce nel piccolo uno strano fenomeno fisico, qualcosa di davvero eccezionale. Ed ecco che nella testa dei genitori guizza l'idea di combinare l'ennesimo affare della vita, il più redditizio. A quel punto, la vendetta di Velarus prende il via.
L'Italia ha imparato a comprendere la sua scuola in termini che le sono profondamente ostili. È questo il lascito di don Milani. E sta qui il nucleo di un equivoco che accompagna il nostro discorso educativo dagli anni Settanta in avanti. Ebreo convertito al cristianesimo e prete in odio alla borghesia, che nella Chiesa aveva aperto un'aspra polemica in nome dei poveri, don Milani sembrò incarnare una potente richiesta di cambiamento. In una maniera che ha qualcosa di profondamente ironico, tuttavia, la cultura pedagogica italiana ha finito per restare impigliata nelle stesse contraddizioni in cui si dibatteva il suo eroe. Il fatto è che don Milani, figura del nuovo, sarebbe rimasto fedele fino alla fine all'antico, al messaggio di Cristo e alla Chiesa. E a ben vedere anche a una idea di borghesia come classe di cultura. A pensarci è sorprendente come una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino sia stata poi ridotta al figurino senza spessore del pedagogismo nostrano. L'ideologia che nel nome di don Milani pretende di bandirne il messaggio finisce così per imprigionare il prete a Barbiana ma svuota contemporaneamente Barbiana di ogni significato.
Donato Giannotti nacque a Firenze nel 1492, pochi mesi dopo la morte di Lorenzo il Magnifico. Benché molto piú giovane, conobbe Machiavelli e ne fu amico. Fu segretario della Repubblica di Firenze tra il 1527 e il 1530, prima del ritorno degli odiati Medici. Dopodiché emigrò esule in Veneto e poi a Roma, dove morì nel 1572. Scrisse tre volumi sulla corretta istituzione di un governo repubblicano: Della Republica Fiorentina (1538), il dialogo Della Republica de' Vinitiani (1540), che ebbe molto successo, concludendo la trilogia con la trattazione Della Republica Ecclesiastica (1541), scritta su richiesta del cardinale Niccolò Ridolfi, suo protettore, e letta solo da pochi amici fidati per timore delle autorità ecclesiastiche. Una copia manoscritta di quest'opera è stata ritrovata recentemente e viene qui pubblicata per la prima volta. Dunque il volume è un inedito assoluto. L'importanza di questo testo consiste già nel fatto di essere la prima storia della Chiesa scritta da un laico. Ma, oltre a questo, sono i contenuti dell'ultimo capitolo a sorprendere e a far sì che il libro sia destinato a diventare un fondamentale oggetto di studio per gli storici. Lì infatti Giannotti, all'alba del Concilio di Trento, enuncia la sua proposta politica: e cioè spostare l'autorità politica della Chiesa dal papa al Collegio dei cardinali, sulla falsariga del rapporto fra doge e Senato nella Repubblica di Venezia.
La Grande crisi globale iniziata nel 2007 non ha nulla di naturale; piuttosto, è dipesa dalla risposta sbagliata al rallentamento dell'economia. Luciano Gallino ha condotto un documentato lavoro di spiegazione strutturale delle sue cause che la ricostruisce nei termini di una crisi del capitalismo. Crisi economica e crisi ecologica sono considerate da Gallino le manifestazioni più appariscenti della crisi del modo di strutturare l'economia, la politica, la cultura e la comunità delle società del pianeta intero, cui egli si riferisce nei termini di una (sola) civiltà-mondo sviluppatasi negli ultimi decenni. Il volume conduce nell'esame di numerose dinamiche concausali, e non solo concomitanti, delle crisi della civiltà-mondo. Sono qui raccolti temi e analisi sviluppati da Luciano Gallino in Finanzcapitalismo (2011), Il colpo di Stato di banche e governi (2013) e Il denaro, il debito e la doppia crisi (2015). La selezione e il coordinamento dei testi sono stati curati da Paola Borgna.