«Sin da ragazzo gli piaceva disegnare navi, vascelli alberati, cutter, brigantini, e più c'erano alberi e vele e sartie più godeva, specie a tratteggiare battaglie navali, le nuvolette che fanno i cannoni quando sparano.
- Mi piaceva disegnare il vento, - ha detto quasi commosso, come scoprisse qualcosa di sé che prima non sapeva. - Era un po' come disegnare la libertà, la forza. La vita. Rendere visibile l'invisibile».
«Il padre degli eroi», Emilio Salgari, è lo scrittore che ha infiammato generazioni di italiani creando centinaia di personaggi avventurosi sospinti dalla forza travolgente d'una eterna giovinezza. Ma il vero eroe è lui, il giornalista veronese appassionato di ciclismo e di scherma, pessimo scolaro e lettore onnivoro, che insegue tormentosi sogni di rivincita scrivendo romanzi d'appendice.
Nominato cavaliere dalla Regina Margherita perché sa «istruire dilettando», vive con la moglie, quattro figli e una pittoresca corte di animali in un caseggiato popolare ai piedi della collina torinese, sfiancato dai ritmi di un lavoro forsennato.
Chi è davvero l'uomo che tiene ad essere chiamato capitano, sostenendo d'aver navigato tutti i mari del mondo? Da dove prende il favoloso repertorio di piante e animali con cui ricrea l'essenza stessa dell'esotismo? Perché i suoi personaggi sono agitati da una ossessiva sete di vendetta?
A cent'anni dalla sua morte (un suicidio degno di un samurai) il romanzo di Ernesto Ferrero va oltre la biografia accostando documenti autentici e d'invenzione, e orchestrando le voci di un coro di testimoni: la moglie Ida, l'ex attrice da lui chiamata Aida, minacciata dalla follia; i figli, i vicini di casa, i pochi amici, i compagni di una bohème più sognata che praticata, esploratori, medici, giornalisti, pittori; ma soprattutto un'intrepida ragazza, Angiolina, che vorrebbe farsi insegnare da lui i segreti della scrittura e lo accompagna nell'ultimo viaggio con una tenera pietà tutta femminile.
Tra Verona, Venezia, Genova e la Torino di Lombroso e De Amicis si consuma il destino paradossale di un uomo solo, prigioniero dei mondi che lui stesso ha creato. La sua vicenda è strettamente intrecciata con le passioni di un'epoca lanciata nelle sue sfide tecnologiche: l'automobile, il cinema, i viaggi in pallone, i primi aerei, l'avveniristica Esposizione Universale che celebra i cinquant'anni dell'Unità d'Italia.
Il «forzato della penna» getta la sua morte in faccia a un mondo da cui si sente escluso.
Famiglia e Borghesia sono i due capitoli che compongono questo libro della Ginzburg scritto nel 1977, ora riproposto in una nuova edizione. Due storie di smarrimento e di crisi familiare in cui i personaggi che annodano e dipanano i loro destini sembrano trascinati da una casualità capricciosa che inventa incontri sorprendenti, amicizie scontrose, fragili amori, tenaci avversioni. Come avviene nelle sue pagine migliori, Natalia Ginzburg segue gli arabeschi di queste esistenze incrinate con uno stile distillato, in un sommesso ma implacabile controcanto che reinventa la musica banale e terribile della vita Nuova edizione a cura di Domenico Scarpa, con antologia critica e cronologia della vita e delle opere .
Uno dei capolavori teatrali di tutti i tempi. Il gobbo, sciancato Riccardo, duca di Gloucester, per ottenere la corona è disposto a tutto. A perfide macchinazioni, misfatti e persino a uccidere il proprio fratello. Ma una volta conquistato, il potere va mantenuto, e ai primi crimini se ne devono sommare altri. Finché proprio chi li ha compiuti non ne diventa la vittima. La tragedia di Richard III, uno dei capolavori teatrali di tutti i tempi, è incentrata su questa potentissima figura di eroe negativo. Un sinistro superuomo rinascimentale malato di egocentrismo e brama di potere. E racconta l'orrore senza tempo della crudeltà e la fascinazione perversa del sangue. La tragedia, a cura di Paolo Bertinetti, viene qui presentata con testo a fronte nella traduzione di Patrizia Valduga e con il puntuale corredo di note di Mariangela Mosca Bonsignore.
Si comincia con un viaggio per mare.
C'è una nave militare che risale la costa dall'Albania a Trieste, sulla nave uno scrittore che lungo quell'Adriatico smagliante ripercorre la storia imperfetta e dilaniata di tutte le vite di frontiera.
Nascosta in cabina trova una capricciosa compagna di viaggio, eccitante come una fantasia. Lui si è imbarcato quasi per caso, recalcitrante «ambasciatore di cultura » nei paesi della costa orientale. Lei scappa e ricompare, lo attira e lo intrappola.
Vuole una storia, vuole la sua.
Il tema dell'identità, triestino quant'altri mai, è il vero nucleo di questo libro. Declinato in una storia avvincente - anzi due - si manifesta in tutta la sua complessità.
Da dove veniamo, che lingua parliamo, cosa mostriamo di noi, come ci raccontiamo a noi stessi e agli altri.
Se alla fine quello che ci cattura è un vertiginoso gioco di specchi, è perché lo scrittore è un prestigiatore. Nasconde le mani mentre seguiamo il volo della colomba.
Oppure mostra le mani per dire: guarda, questa è la mia magia.
Non c'è scrittore in Italia oggi che più di Mauro Covacich abbia scelto questa seconda strada. Seguire le tracce del suo percorso letterario significa davvero fare un viaggio dentro la finzione, per osservare la scrittura nel suo farsi e in filigrana la vita che scorre fuori e dentro i margini del foglio.
Francesco Salvador, architetto di successo, ha tutto: una bella moglie, due splendidi figli, un loft gigantesco, il Suv, un'amante giovane. Ma per avere tutto ha dovuto sacrificare qualcosa: i terreni sull'argine del fiume, che suo padre gli ha lasciato in punto di morte. Francesco li ha venduti alle persone sbagliate e adesso, nei luoghi dove giocava da bambino, i camion portano via quintali e quintali di ghiaia.
Una domenica in gita alle isole della laguna veneta, interrotta dagli squilli del cellulare e dall'affiorare dei ricordi, diventerà per Francesco l'occasione di sbrogliare i fili della sua vita. Sarà il suo ultimo giorno felice.
Una coppia di giovani vittima del consumismo.
Il primo romanzo di Perec raccontava nel 1965, con profetica ironia, la forza emozionale, estetica, perfino erotica, che l'universo degli oggetti possiede e trasmette agli uomini. Come Roland Barthes commentò l'esordio del suo allievo, «una storia sulla povertà mescolata inestricabilmente all'immagine della ricchezza, un libro molto bello». Un libro che lanciò Perec fra i grandi della letteratura, incredibilmente attuale, una spiegazione insuperata del mondo contemporaneo.
«Una storia minima raccontata con singolare grandezza»
El País
«Mio padre è francese e se n'è andato a Parigi un anno fa quando io, terminati gli studi di magistero alla Escuela Normal, sono tornato a Contulmo.
Io scendevo dal treno e lui ci saliva.
Mi ha baciato disperatamente sulle guance e mia madre è venuta fin sulla banchina vestita a lutto. Il mio ritorno a casa non ha mai rimpiazzato l'assenza di mio padre. Cantava J'attendrai, Les feuilles mortes e C'est si bon.
E poi sapeva fare un buon pane croccante, la baguette, diverso dagli sfilatini e dalle pagnotte della zona. Inoltre, portava arance e limoni al mercato.
Tutti i giorni passava a prendere la farina al mulino e lí è cominciata l'amicizia con il padrone. Quando papà se n'è andato io non ho saputo riprodurre la sua arte della baguette, ma sono diventato amico del mugnaio.
Ne sa piú lui di me, di papà.
Ne sa piú lui di papà della mia stessa madre».
Possiamo osservare l'inarrestabile avanzata del progresso nell'architettura, nelle tecnologie, nella cultura e nei viaggi oltre ad ammirare i prodotti stessi della civiltà umana: lingua, letteratura, musica e arti visive. Ma come si svilupparono tali conquiste della mente?
Renfrew ripercorre qui le tracce dello sviluppo della mente umana, sottolineando i cambiamenti cruciali verificatisi 10 000 anni fa che portarono allo sviluppo di società complesse in varie aree geografiche: e alle prime città. La chiave per decifrare tale processo evolutivo risiede nel nostro DNA rimasto sostanzialmente inalterato per 200 000 anni, ma anche nelle affascinanti conquiste della nostra mente. L'approccio dell'archeologia cognitiva vivamente ed efficacemente caldeggiato dall'autore consente di delucidare perché il mondo umano cambiò cosí radicalmente negli ultimi 10 000 anni.
In Unione Sovietica il potere comunista fece del credo antireligioso uno dei suoi cavalli di battaglia: l'«uomo nuovo» vagheggiato non avrebbe dovuto nutrire alcuna fede religiosa, né essa avrebbe dovuto occupare alcun posto nella società e nell'organizzazione dello Stato sovietico. Ma la seconda guerra mondiale avrebbe cambiato molte cose, e Stalin avrebbe imparato a gestire in modo molto piú sofisticato il suo rapporto con la Chiesa ortodossa. Una storia complessa e ricca di implicazioni, ricostruita con esattezza di dettaglio e ampio uso di fonti originali sovietiche.
Nella notte tra il 4 e il 5 settembre 1943 Stalin ricevette al Cremlino i tre metropoliti che assicuravano il governo della Chiesa ortodossa russa. Fu un incontro sorprendente. Il leader sovietico nei decenni precedenti aveva scatenato una persecuzione implacabile nei confronti degli ecclesiastici e dei fedeli ortodossi. I tre vescovi erano dei sopravvissuti all'offensiva antireligiosa consumatasi nel quarto di secolo precedente a quel colloquio.
Nel corso di una lunga e cordiale conversazione Stalin espresse il suo consenso all'elezione di un patriarca a capo della Chiesa russa. Dal 1925, infatti, la sede patriarcale era vacante, per il rifiuto del potere sovietico di autorizzare la Chiesa a eleggere un suo nuovo capo. L'8 settembre 1943 il metropolita Sergij (Stragorodskij) fu eletto patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Cosa aveva determinato questo cambiamento della politica religiosa sovietica? Quali erano le radici profonde di questa nuova alleanza tra Chiesa ortodossa e regime?
E perché Stalin aveva deciso di far rinascere il patriarcato?
Inghilterra, 1910. Bessie Mundy ha trentatre anni, vive sola e sembra non avere più alcuna prospettiva di sposarsi.
Fa la dama di compagnia ed è economicamente indipendente dalla famiglia, che resta assai sorpresa quando, di punto in bianco, Bessie annuncia di voler sposare un uomo appena conosciuto. Il matrimonio avviene in tutta fretta e lo sposo sollecita la donna a farsi consegnare la quota che le spetta dell'eredità paterna. Con una parte del denaro la coppia affitta una casa all'80 di High Street, a Herne Bay, e vi fa installare una moderna vasca da bagno. Dopo pochi giorni Bessie viene trovata annegata in quella vasca nuova di zecca. Vicino al cadavere non c'è nessuna traccia di lotta e il medico conclude che la donna è rimasta vittima di un attacco epilettico. Il marito organizza un funerale al risparmio, seppellisce Bessie in una fossa comune e quindi scompare.
Un anno dopo, più o meno la stessa sorte tocca a una infermiera nubile di nome Alice Burnham. Il copione si ripete: una donna non più giovane, non particolarmente bella, non particolarmente ricca, decide improvvisamente di sposarsi, chiede alla famiglia di liquidarle tutti i suoi averi, si reca con il neosposo in una stazione balneare inglese, affitta una stanza con una vasca da bagno e muore annegata. L'anno successivo è la volta di Margaret Lofty.
Cinque anni dopo l'ispettore Arthur Neil sospetta la possibilità di un collegamento tra i due ultimi casi e, indagando, riesce a individuare un presunto colpevole, un uomo che, sotto diverse identità, ha sposato prima Alice e poi Margaret.
Nel giro di pochi giorni gli viene attribuita anche la morte di Bessie.
In una Londra minacciata dalle bombe degli Zeppelin, il processo riesce a guadagnarsi le prime pagine dei giornali e a catturare per giorni l'attenzione dell'opinione pubblica anche per merito di un personaggio che fa il suo primo ingresso nei tribunali dell'epoca: il patologo forense. Con i casi delle spose annegate nella vasca da bagno, il patologo diventa per la prima volta figura centrale per valutare l'innocenza o la colpevolezza di un imputato e ruba la scena al Principe del foro.
Bernard Spilsbury è un patologo di grande esperienza e di numerosi pregi: è alto oltre il metro e ottanta, è molto elegante, ha lineamenti raffinati, una parlantina sciolta e un mento volitivo. E soprattutto conosce il suo mestiere. Spilsbury è dedito in maniera quasi ossessiva alla professione e sacrifica ogni momento della sua giornata al difficile compito di sezionare e analizzare i cadaveri. Usando seghe, martelli, esperimenti scientifici e una vasta conoscenza dei veleni, diventa un beniamino dei giornali dell'epoca meritandosi presto il titolo di: «padre della medicina legale moderna», «perfetto prototipo del detective della narrativa moderna». E viene applaudito come il vero «Sherlock Holmes».