
Il ticchettio della macchina da scrivere, per Giorgio Manganelli, nasce "dai capricciosi amori di un cembalo estroso e di una mite mitragliatrice giocattolo". Non è un caso, dunque, che i suoi corsivi posseggano sia un'incessante mutevolezza di melodie e fraseggi (ossia di temi e linguaggi) sia una tonalità ironico-umoristica percorsa da nere venature malinconiche. I punti di partenza (le "arie" su cui improvvisare) sono spesso un minimo fatto di cronaca, una polemica frivola, un provvedimento ministeriale bizzarro. In ogni passaggio queste improvvisazioni sono anche inversioni, capovolgimenti del senso comune, dove la quotidianità si eleva a dimensione fantastica e i massimi sistemi slittano in una dimensione grottesca e prosaica.
Il sessantunenne John Shade, professore al Worthsmith College dell'immaginaria cittadina americana di New Wye, sta ultimando un poema in cui i ricordi d'infanzia si mescolano a interrogativi metafisici sull'"osceno, inammissibile abisso" della morte, che incombe ossessivamente sul poeta dopo che la giovane figlia si è uccisa gettandosi in un lago. Tuttavia Shade sigla gli ultimi versi del poema con un'ironica ma serena dichiarazione di fiducia: si vive in qualche luogo anche dopo la fine, e l'armonia dell'arte ne costituisce la tacita promessa. A questo punto nel quieto scenario di New Wye irrompe, inaspettata, proprio la morte: uno sconosciuto spara a Shade in strada, pochi istanti dopo che ha scritto il suo ultimo verso.
In che senso la guerra cominciata in Afghanistan si possa definire nuova non è chiaro. Dagli schermi televisivi o sulle pagine dei giornali è parso piuttosto di assistere alla replica di un copione collaudato che prevede un'alternanza di immagini stereotipe e leggende talvolta risibili. Siamo di fronte a una regia anonima quanto sapiente che veicola un contenuto di informazione prossimo allo zero. Ma le cose cambiano se ci si sposta sul terreno di battaglia, come ha fatto per due mesi Tim Judah inviando alla "New York Review of Books" i quattro lunghi reportage che compongono questo libro.
Questo libro è il romanzo, intessuto di ricordi, rimpianti, incontri casuali, telefonate nella notte, dolorose rivelazioni, di una giovinezza e delle amicizie perdute. Il piccolo Mordecai Richler di sabato non poteva accendere o spegnere la luce, rispondere al telefono o ascoltare la radio. Nei giorni che precedevano lo Yom Kippur faceva roteare una gallina sopra la testa per scaricare sull'animale terrorizzato tutti i peccati dell'anno trascorso. A tredici anni, quando ormai è diventato un "apikoros", un miscredente, si converte alla fede laica, socialista e sionista degli Habonim, ansiosi di approdare quanto prima in Palestina e fondarvi uno stato ebraico. Alla fine Richler non emigrerà nella Terra Promessa. La visiterà due volte.
Composto, per progressivi incrementi, intorno a un nucleo originario di sei testi, riuniti sotto il generico titolo di «Altre poesie» all'inizio degli anni Quaranta, «L'altro, lo stesso» vede la luce alla fine del 1964 e costituisce la più copiosa delle raccolte poetiche borgesiane. Il volume ci consente di seguire, lungo l'arco di oltre un trentennio (il testo più antico è del 1934, e la silloge ne ingloberà di nuovi fino al 1967), l'evoluzione della scrittura poetica di Borges, dalle poesie della «crisi» successiva al declino delle avanguardie a quelle della piena maturità, contrassegnate dalla conquista di compostezza e misura formale.
Chi l'avrebbe mai detto. La devota, schiva signora Maigret sulle prime pagine dei giornali. Insieme a un'amica, la piccola signora in tailleur blu e cappellino bianco, e a un bambino di due anni. Un'amica che le ha giocato un brutto tiro, scomparendo in maniera misteriosa. Decisamente, la signora Maigret deve aver perso la testa. Perché ha deciso di indagare. E ha la faccia tosta di zittire il marito. Questa faccenda non è roba da uomini! Ma che cosa c'entra l'incresciosa disavventura con il caso Steuvels, che da settimane appassiona il pubblico ed è ormai l'incubo della Polizia giudiziaria?
Questo volume comprende il racconto autobiografico del "Porto di Toledo" e il dittico che lo integra, "Poveri e semplici" e "Il cappello piumato". Le note ai testi ricostruiscono, anche sulla scorta di documenti inediti, l'iter di formazione dei testi, mentre l'introduzione segue e documenta lo sviluppo del sistema narrativo ortesiano.
In un abbagliante interccio di interpretazione storica e teoria politica, mitografia e teologia, filosofia ed esoterismo, il grande giurista si inoltra così in un affascinante territorio al confine tra speculazione e immaginazione, dove la ricerca dell'elementare si spinge alle soglie dell'escatologia. Con pochi tratti Schmitt ripercorre millenni di storia, svelandone la trama invisibile, fino ad approdare all'evento decisivo: quella rivoluzione spaziale planetaria da cui è nato il nomos dell'Europa moderna.