
Una mattina, leggendo il giornale, Tanizaki è colpito dalla foto di un attore seduto su una veranda nei panni di un samurai. Osservandolo meglio, scopre che con impercettibili accorgimenti e controllando la respirazione è riuscito a produrre una forma circolare, che parte dal collo e dalle spalle e prosegue lungo le maniche: "Sembrava che se ne stesse seduto lì per caso, e invece obbediva alle regole del kabuki, sicché persino le pieghe del suo kimono si distinguevano le une dalle altre in maniera del tutto naturale". Solo la maestria - una perizia tecnica che si acquisisce grazie a un lungo, arduo tirocinio - può condurre a esiti di così sublime eleganza. Arte come sacrificio e dedizione, dunque, come opera "ben fatta", per il puro piacere della perfezione. In un gioco di contrasti e dissolvenze fra mondo passato e moderno, orientale e occidentale, Tanizaki ci offre un'inedita visione di pittura, letteratura, teatro e cinema e - in un dialogo intessuto di rimandi e corrispondenze fra continenti, epoche e stili - evoca un'arte universale, capace di coinvolgere l'anima e il corpo e non solo l'intelletto. Nel contempo, ci svela la sua poetica: l'ammirato tributo ai valori dell'umiltà e della perseveranza con cui gli orientali percorrono la via dell'arte affinando tecnica e talento, la commossa evocazione dell'antica poesia giapponese, l'entusiasmo per la forza espressiva del cinema tedesco e l'analisi del genio smart di Chaplin, la passione per Goethe e Schnitzler e le riserve su Balzac.
La maleducazione oggi non è più considerabile come assenza o insufficienza di "buona educazione". A differenza di quella del passato, non è espressione di subculture definibili devianti, artistiche, antagoniste, ma manifestazione, pur se in forme ed espressioni variegate, di culture anche maggioritarie e socialmente legittimate. Non è lo scarto, la zona d'ombra della "beneducazione", ha vita e autonomia proprie, costituisce anche uno dei segni della profonda crisi, o del definitivo esaurimento, dei comportamenti e dei vincoli relazionali auspicati dalle "narrazioni" riconducibili al cristianesimo, al marxismo, al liberalismo democratico. Il libro colloca la maleducazione (le maleducazioni) sul piano che più dovrebbe esserle proprio, quello pedagogico-educativo, per indagarne le forme e le manifestazioni, le cause, i vantaggi e gli svantaggi che procura, i processi che l'hanno generata, le esperienze che inducono le persone a essere maleducate.
«Non si è mai mentito come al giorno d’oggi. E neppure si è mai mentito in modo così sfrontato, sistematico e continuo.» Con questa frase, scritta nel 1943 e più che mai attuale, il grande filosofo francese di origine russa Alexandre Koyré inaugura il suo breve ma incisivo saggio sulla menzogna politica. Dopo essersi interrogato su quali siano stati i fattori umani, sociali e politici che hanno favorito l’affermarsi dei totalitarismi nell’Europa tra le due guerre mondiali, l’autore prende in esame l’hitlerismo – modello di ogni regime totalitario – per cercare di coglierne l’essenza profonda, che egli identifica, implacabilmente, con la menzogna. Ogni autoritarismo, ogni regime dittatoriale si basa sull’atto del mentire, questo è il nucleo del lavoro di Koyré, e tale atto ha come unico scopo il controllo assoluto delle masse. In altri termini i regimi totalitari, fondando il loro potere su un vero e proprio «primato della menzogna», giungono a edificare un ordine sociale che, approvando il loro operato, ne garantisce la stabilità e l’egemonia.
L'AUTORE
Alexandre Koyré (1892-1964) è uno dei massimi epistemologi e storici del pensiero scientifico del XX secolo. Nato da una famiglia russa di origini ebraiche, allievo di Husserl, Koyré ha lasciato numerose opere, tra le quali ricordiamo i tre volumi degli Studi galileiani.
"Ho scritto questo libro perché mi sentivo come un granello di sabbia in balia del vento. Alla mia età, avevo paura di non resistere. Ma prima di cedere volevo capire perché spesso nella mia vita avevo avuto paura. E volevo capire le ragioni non solo della mia paura, ma anche della paura degli altri. E desideravo infine comprendere perché così spesso la paura mi rendeva aggressivo e perché l'aggressività mia e la prepotenza degli altri erano strettamente intrecciate. Mi domandavo, in sostanza, qual era il rapporto fra la paura, l'aggressività e la violenza scatenata dai miei simili nel corso dei millenni." Un libro scritto da Danilo Zolo per capire dove e quando nasce la paura, se la lotta per l'esistenza comporta sempre e comunque scontro e conflittualità, qual è il posto occupato dalla politica nella gestione della paura e dell'insicurezza degli uomini, e infine il ruolo della paura nel mondo globalizzato, con le sue guerre e la diffusione in ogni angolo della terra di una crescente precarietà e della sopraffazione dei ricchi e potenti sui poveri e deboli. Ma lo sguardo di Zolo non è di rassegnazione, di resa, bensì di "pessimismo attivo": ci insegna che fino all'ultimo non bisogna rinunciare a lottare contro l'universo sconfinato della follia umana.
Nato a Varsavia nel 1891, Mandel'stam si trasferì a Pietroburgo, dove negli anni Dieci fu una delle figure più in vista nell'ambiente letterario. Arrestato nel 1834 e deportato nel 1938, morì in un campo di concentramento presso Vladivostok. In questo volume sono raccolte sue riflessioni sulla poesia, ritratti di poeti contemporanei, analisi delle Cantiche dantesche.
“In nessun altro Paese del mondo una storia come la mia sarebbe mai stata possibile”, ha detto Barack Obama durante il suo famoso discorso di Filadelfia “sulla razza” che Rizzoli offre in edizione con testo a fronte al pubblico italiano. A chi lo aveva accusato di nutrire disprezzo verso i bianchi e a coloro che, al contrario, si opponevano alla candidatura di un afroamericano alla presidenza, ha risposto ammettendo la diffidenza che separa bianchi e neri, ma ha anche raccontato la sua fiducia in un futuro possibile di convivenza e comprensione. A distanza di 150 anni, ha ribadito i principi e le speranze sostenuti da Abraham Lincoln nella famosa conferenza del 1859 con cui avviò il lungo cammino verso l’abolizione della schiavitù. Confrontando i due discorsi, emerge ancora oggi il profondo radicamento della questione razziale, la lentezza dei cambiamenti e la necessità di compiere quella integrazione che tutti auspicano e nessuno, finora, è stato in grado di realizzare.
<br/
"Apriti cielo". Le parole di Flavio Briatore rivolte a un gruppo di imprenditori e amministratori locali sono risuonate come se avesse bestemmiato in chiesa. Eccola l'Italia che arranca e che sprofonda con tutti i suoi tesori artistici e paesaggistici, l'Italia che non riesce a sfruttare e valorizzare le innumerevoli risorse che la natura e la storia le hanno donato. Perché serve a poco vantarsi di avere il maggior numero di siti Unesco rispetto a qualunque altro Paese, se poi da quell'immane patrimonio ricavi la metà della Francia. Perché gli stranieri che vengono a trovarci passano sempre meno tempo da noi, e lasciano sempre meno soldi. Però guai a parlare di lusso, che non fa pugni con le vacanze di massa ma ci potrebbe andare a braccetto. Guai a parlare di grandi manifestazioni, bloccate per impedire gli affari dei cosiddetti palazzinari. Guai a parlare di grandi opere, che dovrebbe essere un simbolo per collegare, unire, accorciare le distanze, invece diventano l'emblema del «non siamo in grado di realizzarlo». Eccola l'Italia che si arrende ancora prima di combattere, che rimane ferma ai box e che non prova neppure a scendere in pista. Il Paese nel quale la ricchezza e il benessere non sono obiettivo collettivo da raggiungere, un premio del lavoro, ma una colpa da nascondere. L'invidia sociale come malattia mortale dell'italiano, come diceva Indro Montanelli. Ma alla fine i conti non tornano, per tutti, se nel turismo l'Italia non ha che un terzo degli occupati diretti della Germania. E se il nostro Mezzogiorno, con i suoi innumerevoli patrimoni dell'umanità, più di tutto il Regno Unito messo insieme, incassa la miseria di 3 miliardi di dollari contro i 45 dell'Inghilterra. Il turismo, ovviamente, non è che un aspetto di questa analisi, ma pure una perfetta cartina di tornasole Se non è il benessere, l'occupazione, la crescita e, sì, la ricchezza ciò che questo Paese vuole per se stesso, allora «siamo perfetti così», dice Briatore. In caso contrario, bisogna cambiare. E in fretta, perché mentre noi polemizziamo immobili con le nostre deprimenti diatribe sui decimali di PIL, gli altri corrono.
"Sulla scrittura, sull'amore, sulla colpa e altri piaceri" è un dialogo sulla vita e sulla scrittura, ma la voce di Shira Hadad, la editor di Amos Oz, è in fondo la coscienza del grande scrittore, che gli pone domande sul proprio passato, sui temi che l'hanno coinvolto, sulla sua intimità di uomo e scrittore. Ne scaturisce un ritratto a tutto tondo, una sorta di testamento artistico, spirituale e familiare. Un autoritratto di Amos Oz in forma di dialogo.
Per la prima volta insieme, tutti gli scritti che Umberto Eco ha dedicato alla televisione: al suo linguaggio, alle forme di comunicazione che mette in gioco, alle tecnologie che le sostengono, all’immaginario che produce, ai suoi esiti culturali, estetici, etici, educativi e, soprattutto, politici. Una raccolta che, pubblicando anche scritti difficilmente reperibili, copre un arco di tempo che va dal 1956, anno in cui in Italia vengono messe in onda le prime trasmissioni, al 2015, periodo in cui il mezzo televisivo non può più essere considerato come dominante nella produzione e nella trasformazione della cultura social. Dalla ripresa diretta dei primi anni, alla tv-verità e ai reality show degli ultimi anni, da Corrado al Grande fratello, da Mike Bongiorno a Derrick, le riflessioni di Eco denunciano con costante attenzione le strategie televisive nel quadro di una critica inesausta contro i vari populismi mediatici, che è sempre stata la cifra dello sguardo di Eco sui media.
Maestro di editoria e studi biblici, Paolo De Benedetti è stato traduttore - a partire dalla giovanile versione del "Cantico dei cantici", revisore di traduzioni altrui e teorico dell'arte del tradurre. Entriamo qui nella sua officina, a contatto con una metodologia critica che non si limita a segnalare i problemi dei testi, ma sa andare in profondità alla ricerca di soluzioni alternative. Emblematiche in tal senso sono le pagine sulla preghiera di Gesù, il "Padre nostro". Tradurre, per De Benedetti, è mettersi al servizio del testo e dei lettori, in un andirivieni tra competenza filologica, sapienza ermeneutica e resa linguistica. Ogni buona traduzione ha un «settantunesimo senso»: tiene conto delle tradizioni «che non sono meno di settanta», ma sa introdurre, se così si può dire, un altro inatteso significato.