In una mite sera d'autunno, Natalia e Martin tornano in bicicletta da una cena al loro solito ristorante greco di Erlangen, in Germania. Ha piovuto e la strada è bagnata e buia. La ciclabile è troppo stretta per viaggiare affiancati. Martin, che ha bevuto tre ouzo, pedala forte e ogni tanto si mette a cantare. Natalia resta indietro, impacciata sulla bicicletta dell'ex fidanzata di Martin, troppo grande per lei. Nel buio, nota una sagoma scura sulla sua destra, un uomo incappucciato, avvolto in un cappotto nero, che saltella sul marciapiede. Continuando a saltellare, l'uomo la raggiunge, le taglia la strada e si allontana. Poco prima di frenare e poggiare i piedi per terra, Natalia si rende conto di avere una sostanza appiccicosa sulla faccia: uno sputo. Ore dopo, sotto shock, la ragazza ricorda agli inquirenti il tragico succedersi degli eventi: lei che urla a Martin di raggiungerla e, indignata, lo ragguaglia sull'offesa ricevuta, Martin che si lancia rabbiosamente all'inseguimento dell'uomo nero, Martin e l'incappucciato che lottano, Martin che si accascia al suolo, colpito mortalmente da numerose coltellate, l'incappucciato che fugge. Articoli a pagina piena sui giornali, servizi in tv, con i residenti della zona che piangono o mostrano flaconi di spray al pepe, e cani che annusano il punto in cui è avvenuto il crimine, il caso desta uno scalpore enorme in Germania...
Zareen è orgogliosa d'essere una parsi e di abitare in una fiorente metropoli con otto milioni di abitanti, qual è Lahore, in Pakistan. Certo, è arduo vivere in un paese in perenne conflitto con un altro. Durante la famigerata guerra dei Diciassette Giorni tra Pakistan e India - era il 1965 e il pomo della discordia era come sempre il Kashmir - mentre le granate esplodevano a soli diciotto chilometri di distanza, Zareen fu costretta a prendere le sue bambine e a raggiungere Rawalpindi. Duecentottanta chilometri percorsi in otto ore. Grazie alle preghiere rivolte a Sarosh Ejud, l'Angelo del successo zoroastriano che protegge l'umanità, lei, Feroza, la figlia maggiore, e Parizad, la minore, giunsero a Pindi sane e salve. Ora, però, più di bombe, granate e colpi di cannone, qualcosa di inaspettato, crudele, insensato sta per sconvolgere l'esistenza di Zareen: sua figlia Feroza, che soggiorna da un paio d'anni a Denver, negli Stati Uniti, sta per sposare un non-parsi, un americano figlio di genitori ebrei, un ragazzo con gli occhi azzurri, i capelli lunghi e dei frivoli colpi di sole. Vi può essere disgrazia maggiore di una figlia che non avrà più accesso al Tempio del Fuoco? E che sarà espulsa dalla comunità, come succede a ogni ragazza parsi che sceglie un marito di altra nazionalità? ...
Gonna e maglioncino da ragazza perbene, stile Sylvia Plath allo Smith College, ogni mattina Joanna Rakoff si reca sulla Quarantanovesima ed entra nel palazzo stretto e anonimo in cui ha sede l'agenzia letteraria dove lavora. Un'agenzia antica, prestigiosissima, probabilmente la più antica tra quelle ancora in attività nella metà degli anni Novanta a New York. Lì sta seduta tutto il giorno, con le gambe accavallate su una poltroncina girevole a rispondere agli ordini del suo capo, la "direttrice" dalle dita lunghe, snelle, bianche che si accende una sigaretta dietro l'altra con un'enfasi degna di Lauren Bacali. Ogni frase, ogni gesto e commento della direttrice, e di Olivia, Max e Lucy gli agenti, un distillato del fascino démodé dell'Agenzia con le loro presentazioni al KGB Bar, e la loro vita fatta di una sequenza infinita di feste - le rammentano che l'agenzia non è solo un'azienda, ma uno stile di vita, una cultura, una comunità, una casa. Qualcosa di più simile a una società segreta o a una religione, con dei rituali ben definiti e delle divinità da adorare: Fitzgerald, una sorta di semidio; Dylan Thomas, Faulkner, Langston Hughes e Agatha Christie, divinità minori e, alla guida del pantheon, la più pura, assoluta divinità, lo Scrittore rappresentato da sempre dall'agenzia: Jerry, alias J.D. Salinger. Avvezza già all'era digitale dei Macintosh nella New York della metà degli anni Novanta, Joanna viene spedita davanti a un dittafono, un aggeggio degli anni Cinquanta...
È una fredda giornata di aprile del 1854 alla stazione King's Cross di Londra quando Effie Gray, moglie di John Ruskin, il celebre critico d'arte, prende posto sul treno diretto in Scozia, a Bowerswell, la casa dei suoi. La giovane donna stringe tra le mani una busta in cui vi sono la sua fede nuziale e alcuni biglietti indirizzati agli amici, brevi righe che annunciano la decisione che desterà scandalo e scalpore nella buona società londinese: la sua separazione da John Ruskin, un gesto rovinoso per la reputazione di un uomo al culmine della sua fama. John Ruskin non è, infatti, un critico d'arte qualsiasi. Dall'estate del 1843, quando è uscito il suo tributo a Turner in Pittori moderni, è diventato il critico d'arte per eccellenza, un uomo amato e ammirato nei salotti letterari londinesi. Dopo averlo letto, Charlotte Bronté ha esclamato: "È come se finora avessi camminato bendata: questo libro mi ha restituito la vista!" Ispirato, brillante, Ruskin è invitato ai ricevimenti più esclusivi, dove è corteggiato dalle donne più avvenenti e adulato dagli uomini più in vista. La sola idea che qualcuno possa scappare da lui sgomenta. Figuriamoci il doloroso segreto che Effie Gray si appresta a svelare al mondo: che John Ruskin, cioè, l'astro nascente della Londra vittoriana, non ha mai consumato il suo matrimonio...
Nell'angusta stanza senza finestre in cui è trattenuto, il mercante d'arte Julian Isherwood sa di essere nei guai fino al collo. Se non fosse certo di essere innocente, la versione dei fatti che ha fornito quando i carabinieri di Como lo hanno trovato accanto a un cadavere "letteralmente fatto a pezzi" sembrerebbe ridicola persino a lui. Lo vogliono incastrare, è chiaro. E chi può farlo, se non quell'"odioso, pingue" collega che risponde al nome di Oliver Dimbley? "Discreto come il fischio di un treno a mezzanotte", Dimbley lo aveva avvicinato in un pub di Londra, gli aveva offerto di comprare la sua galleria d'arte di Mason's Yard (come faceva a sapere dei suoi conti in rosso e della sua crescente "passione per l'alcol"?) e lo aveva spedito sul lago di Como, nella lussuosa villa di Jack Bradshaw, collezionista che, guarda caso, Julian ha trovato cadavere, riverso in un lago di sangue. Per fortuna il generale Cesare Ferrari del Nucleo Artistico di Roma, che ne ha viste troppe per fidarsi di un caso all'apparenza così semplice, ha pensato bene di rivolgersi a Gabriel Allon, ex agente del Mossad e restauratore di fama internazionale di quadri e affreschi. Amico di vecchia data di Isherwood, Allon accorre subito sulle sponde del lago e non impiega molto a scoprire che la vittima era a capo di un'organizzazione che comprava quadri rubati per poi rivenderli a un facoltoso e anonimo "appassionato d'arte". Un vasto traffico illegale di capolavori della pittura...
Il 9 aprile 1953, in un'aula della corte d'assise di Milano, Emanuele Almansi, libraio-antiquario, compare davanti ai suoi giudici con l'imputazione di aver tentato di uccidere il proprio figlio Federico. Con la sua figura dimessa e antica nel suo abito scuro e lo sguardo distaccato e del tutto privo di vergogna, in quella fredda aula di tribunale Almansi non solo ammette ogni addebito, ma riconosce persino la premeditazione del suo tentato omicidio. Lo fa ricordando innanzi tutto la fatalità che sovrastava da tempo immemorabile la sua famiglia: il male che aveva offuscato l'esistenza di suo nonno e di suo padre, morto in manicomio; aveva ammantato periodicamente la sua vita di malinconia e depressione e si era, infine, crudelmente manifestato in Federico, il figlio amato, il precoce poeta quindicenne, amico di uno dei più grandi poeti italiani, Umberto Saba, diventato totalmente inabile al lavoro dopo i primi segni di schizofrenia. Il pensiero di Federico destinato a vivere in povertà, e a consumare i suoi giorni in un manicomio, era diventato così disperante e ossessivo per il libraio-antiquario che la decisione di uccidere se stesso e il figlio gli era apparsa come la sola, unica possibilità. Una possibilità restata tale, visto che l'omicidio non era stato portato a compimento, ma che, nell'aula della corte d'assise di Milano, attraversò la mente di ognuno nell'istante in cui fece la sua apparizione tra i testimoni Federico Almansi in persona...
Non siamo piu noi stessi 09 BOZZA_esecutivo SnobNon siamo più noi stessi racconta la storia struggente di Eileen Tumulty, figlia di immigrati irlandesi del Queens, che da sempre sogna un futuro migliore, lontano dalla madre alcolista e dal padre operaio. Eileen sposa Ed Leary, uno scienziato serio e dai modi gentili che indaga gli effetti degli psicofarmaci sul cervello. Non le ci vuole molto per capire che Ed rinuncia volentieri a un lavoro meglio remunerato, a una casa più grande o a delle amicizie più stimolanti, per dedicarsi anima e corpo alla ricerca e all’insegnamento. Così, dopo la nascita del figlio Connell, Eileen decide che tocca a lei lottare per il benessere della famiglia. Risparmiando parte del suo salario da infermiera riesce ad aprire un mutuo per una casa a Bronxville, ma proprio quando finalmente il suo sogno sembra avverarsi, la famiglia viene messa a dura prova da un colpo del destino. Ed è qui che si aprono le pagine più straordinarie del romanzo di Matthew Thomas. Eileen Tumulty – come Oliver Kitteridge – è un personaggio che il lettore non dimenticherà mai.
Balzato subito ai primi posti della classifica dei bestseller del New York Times, il romanzo d’esordio di Matthew Thomas è un magnifico affresco che ripercorre la vita di una coppia alle prese, dapprima, con il Grande sogno americano e, poi, con una malattia crudele che sembra voler cancellare i loro anni felici.
Incensato dalla critica come uno dei libri più belli dell’anno, è una storia epica, coinvolgente e magnificamente scritta che, mettendo insieme una documentazione sterminata e una scrittura impeccabile, ci parla dei sogni, delle promesse mantenute e di quelle accantonate, e della lotta che ognuno deve compiere ogni giorno per dare un significato alla propria vita.
«Matthew Thomas, il nuovo Jonathan Franzen, ha impiegato dieci anni per scrivere Non siamo più noi stessi. Il risultato, però, vale l’attesa».
Guardian
«La mente è un mistero e così, il cuore. Con Non siamo più noi stessi Matthew Thomas ha scritto un capolavoro su entrambi. C’è tutto: come viviamo, come amiamo, come moriamo e come teniamo duro…».
Joshua Ferris
«Il devastante romanzo d’esordio di Matthew Thomas è una storia famigliare cruda, onesta e così intima che vi colpirà nel profondo».
The New York Times
«Un esordio magistrale».
Vanity Fair
«Un accattivante saga familiare. Forse la migliore dai tempi de Le correzioni».
Entertainment Weekly
«Evocando magistralmente la vita di una donna all’interno del contesto irlandese operaio, Thomas ci regala il ritratto definitivo delle dinamiche sociali del XX secolo americano. Un libro indimenticabile».
Publishers Weekly
Matthew Thomas è nato nel Bronx, a New York, e cresciuto nel Queens. Laureato alla University of Chicago, ha un Master of Arts in scrittura presso la Johns Hopkins University e un Master of Fine Arts presso la University of California, da cui è stato premiato con il Graduate Essay Award. Vive con la moglie e i figli in New Jersey.
Traduzione dall’inglese di Chiara Brovelli
È il 1942 a Lisbona. Un uomo osserva attentamente una nave ancorata nel Tago, poco distante dalla banchina. Al vivo bagliore delle lampadine scoperte, sull'imbarcazione si sbrigano le operazioni di carico. Si stivano carichi di carne, pesce, conserve, pane e legumi. Come tutti i piroscafi che, in quei tumultuosi giorni del 1942, lasciano l'Europa per l'America, la nave sembra un'arca ai tempi del diluvio. Un'arca incaricata di porre in salvo una gran folla di disperati, di profughi inseguiti dalle acque fetide del nazismo che hanno inondato da un pezzo Germania e Austria, e già sommerso Amsterdam, Bruxelles, Copenaghen, Oslo e Parigi. Anche l'uomo che la contempla è un profugo, senza alcuna speranza, però, di raggiungere New York, la terra promessa. Da mesi i posti sulla nave sono esauriti e, oltre al permesso di entrata in America, all'uomo mancano anche i trecento dollari del viaggio. Sarebbe certamente destinato a perdersi e dissanguarsi nel groviglio dei rifiutati visti d'entrata e d'uscita, degli irraggiungibili permessi di lavoro e di soggiorno, dei campi d'internamento, della burocrazia e della solitudine, se la sorte non venisse in suo aiuto. Un uomo, che non ha l'aria di un poliziotto, lo approccia e in tedesco gli dice di avere due biglietti per la nave ancorata nel Tago. Due biglietti che non gli servono più e che è disposto a cedere gratis a una sola condizione: che il futuro possessore non lo lasci solo quella notte e sia disposto ad ascoltare la sua storia...
Il signor M. è uno scrittore che può al massimo produrre libri non privi di meriti, come si suole dire degli autori mediocri. Ha una moglie giovane e avvenente che indossa scarpe da ginnastica bianche, magliette bianche e jeans, e al cui cospetto lui appare cosi avanti negli anni, rigido e legnoso com'è. Il signor M. probabilmente non si cura più di tanto del suo corpo, che però, con tutte le sue pieghe e le sue rughe, annuncia già il prossimo futuro in cui cesserà di esistere. Ha scritto un libro di grande successo, "Resa dei conti", l'unico suo basato su fatti realmente accaduti, ma ignora che, proprio in virtù di quell'opera, è spiato, osservato, misurato nei suoi passi, scrutato nei suoi gesti. Non sa che qualcuno gli rinfrescherà la memoria sugli eventi da lui narrati, cominciando da quel giorno di molti anni addietro in cui, al seguito di una strana moria di insegnanti, Jan Landzaat, il professore più amato di tutti al liceo Spinoza, scomparve. Viso sempre abbronzato e giovanile, Landzaat faceva ridere e arrossire le ragazze. Innanzi tutto, Laura Domènech che gli si concesse per una breve, intensa, burrascosa storia, prima di gettarsi tra le braccia del giovane Herman, suo coetaneo. Quando la ragazza l'abbandonò, Landzaat cercò di comportarsi come se nulla fosse, ma sul suo viso apparvero i chiari segni del tracollo. Il colore della pelle passò dal marrone al giallo, gli occhi si cerchiarono di rosso e certe mattine, durante la sua ora, l'odore di alcol arrivava fino alle ultime file di banchi...
Peter Lake è un ladro. Un ladro nella Manhattan dei primi del Novecento in cui la guerra tra bande regala ogni mattina un mucchio di cadaveri a Five Points sul fronte del porto e in luoghi insoliti come campanili, collegi femminili e magazzini di spezie. Peter lavora in proprio, e perciò non interessa più di tanto alle forze dell'ordine sguinzagliate contro il grande crimine. Sta particolarmente a cuore, invece, ai Coda Corta, una dozzina di sgherri guidati dal feroce Pearly Soames. Pearly ha occhi lucidi e argentei simili a lame di rasoio e una cicatrice che gli solca il viso dall'angolo della bocca all'orecchio. È un criminale e, come tutti i criminali, vuole oro e argento, ma non per amore della ricchezza alla maniera di volgari rubagalline. Li vuole perché brillano e sono puri. Affascinato dai colori, legge i giornali e i cataloghi delle aste, e capeggia i Coda Corta giusto per trafugare opere d'arte "degne di lui", importate dall'Europa a bordo di lussuosi panfili. Il campo di manovra è troppo ristretto e la posta in gioco troppo alta perché Pearly Soames possa tollerare la presenza di Peter Lake a Manhattan. Avvezzi come sono all'omicidio e alla corruzione, i suoi Coda Corta l'avrebbero eliminato da un pezzo, se il ladro non avesse un prezioso alleato: un cavallo che sembra una statua eroica, un enorme monumento bronzeo, capace di balzi strabilianti, voli di sei metri di lunghezza e due e mezzo di altezza. Dal romanzo è stato tratto, nel 2014, il film omonimo diretto da Akiva Goldsman.