Anni Cinquanta: Calcutta si chiama ancora Calcutta e vive gli ultimi splendori del suo recente passato coloniale. Nella «striscia d'oro», la zona della città che gli inglesi chiamano Esplanade e gli indiani Chowringhee, il centro della vita mondana e dei grandi alberghi, si aggira Shankar, un ex babu, un giovane impiegato di un avvocato inglese dell'alta corte, anzi, per essere precisi, «dell'ultimo avvocato inglese dell'alta corte di Calcutta». L'illustre esponente del foro imperiale britannico è morto e il ragazzo si è ritrovato di colpo nel deserto di povertà e penuria da cui viene, e che credeva di essersi lasciato definitivamente alle spalle.
Per allontanare lo spettro della fame, vaga per la città cercando di vendere cestini per la cartastraccia fabbricati da un giovanotto di Madras, che oltre ai cestini non possiede altro che due paia di calzoni e una sudicia cravatta.
Per i dannati della terra come Shankar, basta il minimo temporale a distruggere l'oasi. Ma per fortuna non è sempre così. In un giorno in cui sonnecchia al parco di Chowringhee, si imbatte in uomo dalla pelle color mogano, lucida come le scarpe che hanno ricevuto il trattamento dai lustrascarpe di Dharmatala. È il detective Byron, il grande investigatore: per lui qualunque caso, per quantocomplicato o misterioso, è immediatamente «chiaro come la luce del giorno, trasparente come l'acqua». Byron gli trova un lavoro nell'albergo più antico e prestigioso dell'Esplanade: lo Shahjahan Hotel. E nell'istante in cui oltrepassa la soglia di quell'albergo di lusso, che sembra una vera e propria opera d'arte, Shankar si sorprende a entrare in un mondo nuovo, una città nella città, dove i tappeti sono così belli che se uno vi inciampa si rialza subito per non rovinarli, dove trecento ospiti al ristorante significano trecento diversi tovaglioli e altrettanti menu e carte dei vini. Dove la precedenza è rigorosamente riservata ai frequentatori più ricchi e famosi, e l'edificio reca l'impronta indelebile della vecchia aristocrazia.
In questa città nel cuore di Calcutta, nelle sue suite, al ristorante, al bar e dietro le sue quinte, si raccoglie un'umanità varia e disparata, con i suoi amori e le sue passioni, i sogni infranti e le gioie, le tragedie inaspettate e i trionfi: c'è Marco Polo, il gran capo dello Shahjahan con un enorme tatuaggio sul braccio sinistro e sul petto villoso; Connie, la ragazza del cabaret, una bellezza con gli occhi azzurri e i capelli platinati; Gomez, il direttore della banda musicale che nel tempo libero sogna un altro mondo abitato dal re della melodia; Karabi Guha, l'accompagnatrice che a tarda sera perde ogni grazia ed eleganza; Sudata Mitra, l'hostess abbagliante nel suo sari azzurro cielo; Sohrabji, il barman con la pelle del colore delle mele mature, un po' incurvato dal peso dell'età... personaggi teneri e commoventi e incallite canaglie, ognuno con la sua storia, a volte tragica e straziante, a volte sorprendente e incredibilmente intrigante. E, in mezzo a tutti quanti loro, c'è Shankar, il narratore, la voce vera della grande metropoli indiana negli anni del suo massimo splendore.
Sottoporre a revisione la storia è il compito stesso degli studiosi, essendo la storiografia nient'altro che una costante riscrittura della storia. Perché, dunque, degli storici come gli autori di questo libro dovrebbero schierarsi contro il "revisionismo"? Perché sotto questo termine si è delineato, nel corso degli ultimi decenni in Italia e nel mondo, un "uso politico della storia" che ha poco a che fare con la ricerca storiografica. Un "uso politico" dalle molteplici diramazioni, ma che, soprattutto nella distorta ricostruzione della nostra storia nazionale, presenta alcune opinioni ossessivamente ripetute: l'idea che il Risorgimento sia stato una guerra di annessione e non un movimento di rinascita per l'unità nazionale; la concezione del fascismo come tentativo autoritario bonario, distinto dal totalitarismo nazista e volto all'edificazione di una patria che non sarebbe esistita prima; l'ipotesi della morte definitiva della patria sancita dall'8 Settembre e la conseguente rivalutazione dei combattenti di Salò come autentici patrioti. Tesi politiche che non hanno la benché minima serietà né il rigore dell'autentica indagine storica, ma che, raffigurando gli avversari come i difensori di una "vulgata resistenziale", di "verità di regime", mirano a distruggere i fondamenti stessi della nostra storia repubblicana e della nostra Costituzione. Contro questo "revisionismo" si schierano alcuni tra i migliori storici italiani.
È un giorno d'ottobre del 1956 quando Giovanni e la sua famiglia lasciano il piccolo paese di Buonalbergo e partono per il Nord. Lungo il viaggio in treno, Giovanni sogna quella città sconosciuta e magica, che può dargli da mangiare come ai ricchi: un paese pieno di luci, palazzi fantastici, giostre sul mare e donne bellissime che accolgono sua madre dicendole "benvenuta". A Genova, però, alla stazione Principe, non c'è nessuno a aspettarli. Una macchina li conduce a destinazione, a vico Vele, una strada stretta in mezzo a altre così anguste che il sole si ferma sui tetti e non scende mai. La casa è una stanza in affitto, un tavolo, un letto grande per tutti, un lavandino e un bidet smaltato, pareti scrostate. La notte, dal corridoio, risate, rumore di tacchi a spillo e voci grosse di marinai. Giovanni dorme con Totò, il fratello minore, con la testa ai piedi del letto, lasciando il posto migliore in alto alla mamma e alla sorellina Olimpia. La sera suo padre li bacia tutti e poi esce per andare a fare il guardiano notturno. Un giorno prende il clarino, l'unico tesoro portato da Buonalbergo. Quando rientra, al posto dello strumento, sotto il braccio c'è un fagotto contenente un chilo di carne. Giovanni non chiude occhio quella notte. Il clarino venduto per un pezzo di carne? In una Genova stupenda e dura, Giovanni cresce e scopre presto di essere una strana cosa lì al Nord: un "terrone", un essere invisibile che si può compiangere e offendere senza tanti scrupoli.
Nella primavera del 1939, Laura Chappell incontra per la prima volta a Memphis Henry McAllan. Lei, piccola e scura, con marcati lineamenti francesi, ha trentun anni ed è ancora vergine: una "zitella sulla via della pietrificazione", come ironicamente si definisce. Insegna inglese in una scuola privata per ragazzi, canta nel coro della Calvary Episcopal Church e fa da baby-sitter ai suoi nipoti. Lui, quarantunenne che dimostra tutti i suoi anni soprattutto per via dei capelli candidi, ha mani forti, una solida aria di sicurezza e la deliziosa parlata del Delta del Mississippi. Quando Henry McAllan le propone di sposarlo, Laura accetta di buon grado, certa che il primogenito di un clan rurale come Henry non possa che essere un buon marito e un padre premuroso dei suoi figli. Il giorno in cui Henry decide di ubbidire al "richiamo della terra" dei McAllan e di trasferirsi col vecchio padre in una fattoria sul Delta del Mississippi, Laura lo segue fedele, portandosi dietro le due bambine nate un paio d'anni dopo il matrimonio. Sul Delta del fiume, però, la vita si rivela completamente diversa dall'idillio che Laura aveva immaginato.
Nel 1978, il giovane studente di filosofia e attivista politico Greg Roberts viene condannato a 19 anni di prigione per una serie di rapine a mano armata. È diventato eroinomane dopo la separazione dalla moglie e la morte della loro bambina. Ma gli anni che seguono vedranno Greg scappare da una prigione di massima sicurezza, vagare per anni per l'Australia come ricercato, vivere in nove paesi differenti, attraversarne quaranta, fare rapine, allestire a Bombay un ospedale per indigenti, recitare nei film di Bollywood, stringere relazioni con la mafia indiana, partire per due guerre, in Afghanistan e in Pakistan, tra le fila dei combattenti islamici, tornare in Australia a scontare la sua pena. E raccontare la sua vita in un romanzo epico di più di mille pagine.
È il 1859 a Londra e davanti alla legatoria Damage si è appena fermata una carrozza con le ruote di un rosso fiammante, i fanali dorati e uno stemma sulla portiera. Dalla carrozza scende Sir Jocelyn Knightloey che, con la sua cerchia di amici coltiva il sogno di liberare la società dalle "pastoie del ritegno" e della morale. Da quando la legge ha stabilito che è illegale pubblicare e diffondere opere letterarie di genere immorale ma non possederle, Sir Knightloey e i suoi amici collezionano quei libri proibiti che i puritani dell'epoca vorrebbero bruciare tra le fiamme dell'inferno: il Decamerone, il Satyricon di Petronio, l'Ars Amatoria di Ovidio. A rilegare quei libri con preziose pelli e fodere scarlatte è Dora Damage, la moglie di Peter Damage. L'artrite reumatica sta deformando le mani del marito e, in barba a tutte le leggi della corporazione dei legatori che vietano il lavoro alle donne, Dora ha preso il suo posto. Le sue originali rilegature suscitano l'entusiasmo di sir Knightloey e dei suoi amici. Dora comincia così a rilegare tutte le opere proibite e galanti del gruppo con l'aiuto di Jack, un giovane apprendista, e di Din, uno schiavo nero americano condotto nel laboratorio dalla filantropica e ambigua Lady Sylvia, la moglie di Sir Knightloey. Ma non finisce forse puntualmente nei guai chi entra in una "società del vizio"? Un'eroina moderna che non esita a infrangere le regole e i tabù della Londra del XIX secolo, in cui gli ideali più nobili si accompagnano alle miserie più sordide.
Il cielo di Parigi ha il colore grigio e slavato della cenere in questo primo mattino dell'agosto del 1944. Daniel e Max Berenzon, padre e figlio, sono tornati in Rue de La Boétie dopo un'assenza durata più di quattro anni. Erano scappati, insieme con migliaia di altri ebrei, quando i primi aerei della Luftwaffe erano comparsi nel cielo francese. Daniel Berenzon è tornato con un solo scopo: riprendere possesso della sua straordinaria collezione di quadri, esposta per anni nella sua rinomata galleria di Rue de La Boétie. Opere di rara maestria e di incalcolabile valore, soprattutto "Les amandes" il quadro che Manet dipinse al termine della sua vita, con il fisico ormai devastato dalla sifilide. Berenzon stranamente non ha mai osato vendere quest'opera, comprata nel lontano 1918 per trentamila franchi. Max, il giovane figlio ed erede del mercante, si ritrova invece a Parigi con una sola speranza nel cuore: rivedere Rose Clément, l'assistente di suo padre. Padre e figlio, tuttavia, si imbattono nella più crudele delle scoperte: l'intera collezione di quadri è stata trafugata e di Rose Clément non vi è nemmeno l'ombra. Per Max il ritrovamento dei quadri perduti diventa una vera e propria ragione di vita. Il giovane inizia a perlustrare ogni angolo della città alla ricerca dei quadri e di Rose Clément, e sulle tracce di un devastante segreto di famiglia.
Rosso è morto da tre anni, e Agnes Browne continua a fare da madre, padre e arbitro a sette figli scatenati, i suoi adorabili marmocchi. Il primogenito Mark la aiuta a far quadrare il bilancio, e il francese Pierre le ricorda di essere una donna. Sembrerebbe tornato il sereno, in Larkin Court, ma Frankie, la pecora nera della famìglia, la deruba di tutti i suoi averi e fugge in Inghilterra, dove rimarrà intrappolato nella rete della droga. Agnes dovrà lasciare l'amato Jarro a seguito del piano di recupero del centro storico di Dublino e andrà a vivere nella periferica Finglas. Intanto, i figli crescono: Cathy, diventa donna e si fidanza con un poliziotto di Cork (sul cui mestiere Agnes nutre più di una riserva); Mark, si sposa, dopo aver evitato il fallimento della Wise & Co.; il balbuziente e poco dotato Simon ottiene un posto da inserviente in ospedale grazie a un provvidenziale quanto esilarante colloquio di lavoro; Rory, il figlio gay, subisce le angherie di un gruppo di skinhead, ma riesce a trovare la propria strada dedicandosi con successo al lavoro di parrucchiere e conquistando l'amore di un collega; infine Trevor, il più piccolo e il più tardo di tutti, si rivela un bambino prodigio, un artista in erba. Agnes saprà affrontare tutto questo con lo spirito e l'ironia che contraddistinguono le donne dell'Isola di Smeraldo. O'CarrolI, ci intrattiene con questa nuova puntata della trilogia, senza mai far mancare al lettore un sorriso o una risata liberatoria, nel più puro stile dei narratori irlandesi.
Scritto a cavallo tra il XIV e il XV secolo da Cennino Cennini, un pittore di scuola fiorentina, nato a Colle di Val d'Elsa, allievo di Agnolo Gaddi e autore forse di una "Madonna col Bambino" conservata presso il Deposito degli Uffizi, "Il libro dell'arte" è certamente tra i più famosi trattati sulle tecniche artistiche che siano stati tramandati. La fortuna di quest'opera, che probabilmente nacque nell'ambito di una delle potenti corporazioni che regolamentavano e tutelavano l'attività dei pittori risale soprattutto agli ultimi due secoli, nei quali è diventata una sorta di totem, di manifesto della pittura a partire da Giotto, il gran maestro che secondo le parole di Cennino "rimutò l'arte del dipingere di grecho in latino e ridusse al moderno". Sin dai primi dell'Ottocento divenne un documento prezioso per la storia dell'arte e per quanti ne potevano cogliere i valori storici, stilistici o filologici. Con l'edizione curata da Franco Brunello nel 1971, fu definitivamente recepito come "il primo esempio di opera tecnologica rinascimentale, precorritrice di quella serie di trattati sulle diverse arti industriali, fioriti in Italia tra il XV e il XVI secolo". Questa edizione sottopone il testo cenniniano a un esame integrale e contestuale.