
Può un vivace e spensierato studente napoletano, affamato di vita e di esperienze come tutti i suoi coetanei, incamminarsi lungo i sentieri della ricerca di Dio seguendo la vocazione cristiana? La risposta è sì, se ha avuto la provvidenziale fortuna di incontrare un santo come Josemaría Escrivá, che insegnava a trovare Dio nelle più diverse circostanze della vita quotidiana. E Pippo Corigliano ebbe, ancora ragazzo, l'opportunità di entrare in contatto, nella sua città natale, con i giovani che già avevano fatto propria la missione di san Josemaría, restando affascinato dalla naturalezza con cui riuscivano a coniugare allegria e serietà, operosità e capacità di divertirsi, affidabilità e slancio apostolico. La conoscenza diretta della personalità esuberante e mistica del fondatore dell'Opus Dei fu per lui un ulteriore incentivo a intraprendere decisamente un percorso ispirato alla fede e allo stile di vita dei primi cristiani, che seguivano le orme di Gesù con generosità, semplicità e fiducia nella preghiera. Per spiegare, soprattutto ai giovani, come vivere un'esistenza cristiana nella realtà di ogni giorno, san Josemaría «inventò» chiacchierate settimanali che chiamò «circoli di San Raffaele», dal nome dell'Arcangelo che, come racconta la Bibbia, guidò felicemente il giovane Tobia in un viaggio pericoloso. Nei circoli si parlava, e si parla tuttora, del Vangelo, di riscoprire il valore della Santa Messa e della preghiera personale, dedicando particolare cura alle virtù cristiane proprie di un laico: la laboriosità, l'amicizia, il fidanzamento e il matrimonio, la disciplina, l'attenzione verso i disagiati, la libertà di opinione, in politica e nella professione, con la relativa responsabilità personale delle scelte via via effettuate. In questo modo, all'interno dei circoli si formano non soltanto cittadini esemplari, ma anche autentici apostoli, capaci di testimoniare nel loro quotidiano la verità e il calore della fede. Raccontando con leggerezza e brio come la frequentazione dei circoli abbia arricchito e trasformato la sua esistenza, dandole salde fondamenta su cui costruire, Corigliano sa rendere attraente e stimolante il progetto di una vita coraggiosa e impegnata, quanto mai necessaria nei tempi in cui viviamo, sempre più segnati dall'indifferenza, dall'egoismo e dalla paura.
A Londra con gatto Pip Pip, in Algeria con l'investigatore Cusous, tra le montagne della Svizzera con lo scalatore Ernst, a Venezia con il gondoliere Mario... Un viaggio dalla Danimarca all'India, dall'Antico Egitto alla Finlandia a caccia di avventure. In questo libro ogni disegno racconta con inesauribile fantasia come è fatto il mondo e chi lo abita! Età di lettura: da 3 anni.
A Stella piace avere il controllo su tutto, il che è piuttosto ironico, visto che da quando è bambina è costretta a entrare e uscire dall'ospedale per colpa dei suoi polmoni totalmente fuori controllo. Lei però è determinata a tenere testa alla sua malattia, il che significa stare rigorosamente alla larga da chiunque o qualunque cosa possa passarle un'infezione e vanificare così la possibilità di un trapianto di polmoni. Una sola regola tra lei e il mondo: mantenere la "distanza di sicurezza". Nessuna eccezione. L'unica cosa che Will vorrebbe poter controllare è la possibilità di uscire una volta per tutte dalla gabbia in cui è costretto praticamente da sempre. Non potrebbe essere meno interessato a curarsi o a provare la più recente e innovativa terapia sperimentale. L'importante, per lui, è che presto compirà diciotto anni e a quel punto nessuno potrà più impedirgli di voltare le spalle a quella vita vuota e non vissuta, un viaggio estenuante da una città all'altra, da un ospedale all'altro, e di andare finalmente a conoscerlo, il mondo. Will è esattamente tutto ciò da cui Stella dovrebbe stare alla larga. Se solo lui le si avvicinasse troppo, infatti, lei potrebbe veder sfumare la possibilità di ricevere dei polmoni nuovi. Anzi, potrebbero rischiare la vita entrambi. L'unica soluzione per non correre rischi sarebbe rispettare a regola e stare lontani, troppo lontani, uno dall'altra. Però, più imparano a conoscersi, più quella "distanza di sicurezza" inizia ad assomigliare a "una punizione", che nessuno dei due si è meritato. Dopo tutto, che cosa mai potrebbe accadere se, per una volta, fossero loro a rubare qualcosa alla malattia, anche solo un po' dello spazio che questa ha sottratto alle loro vite? Sarebbe davvero così pericoloso fare un passo l'uno verso l'altra se questo significasse impedire ai loro cuori di spezzarsi?
"È il primo sguardo quello che lascia il segno. Quello che in un istante ti permette di comunicare un milione di parole. Eccomi, sono qui. Sono io. E tu sei mia madre, mio padre, mia figlia, mia sorella, il mio amore. Sei tu, sei tutto. E il primo sguardo difficilmente fallisce, mette in moto tutto ciò che hai dentro. I tuoi occhi guardano, ma la vista scorre veloce nei tuoi tessuti fino a esploderti nel cervello. È una fucilata che attraversa le vene. Colpisce il tuo cuore e lo fa battere forte. La saliva sparisce, in bocca ti rimangono solo schegge di vetro. Le tue mani tremano perché è giunto persino lì, anzi, va oltre, arriva alle gambe che si spezzano dall'emozione. Barcolli. E il respiro? Anche quello è andato. Ti accorgi che manca proprio. Sei in apnea. Ti senti svenire e hai paura di perdere i sensi. Sai che figura, se ruzzoli a terra. È lo sguardo di una madre che osserva il figlio, di un innamorato che contempla l'amata, di un fratello che rimira una sorella, di un'amica che guarda un amico. È lo sguardo di chi sa cosa significa amare." Giorgio Panariello racconta la sua personalissima visione dell'amore. Un amore fatto di passione, cura reciproca, sentimento. Di discussioni e lotte, fughe in avanti e festosi ritorni. Un amore fatto di giornate in casa a tirare il fiato e di corse pazze in campagna. Di foto nei cassetti, paura dei tuoni, coccole lunghe un giorno, silenzi traboccanti di parole. Un racconto intenso e inatteso, guidato da un sentimento puro e generoso, quello che ti fa aprire il cuore al mondo intero. Una storia che custodisce un colpo di scena capace di allargare i confini di ciò che noi sappiamo sull'amore.
Il 12 settembre 1919 un poeta, alla testa di duemila soldati ribelli, conquista una città senza sparare un colpo. Vi rimarrà oltre un anno, opponendosi alle maggiori potenze sotto gli occhi di un mondo ancora sconvolto dalla Grande Guerra. Lo scopo di Gabriele d'Annunzio e dei suoi legionari non era solo rivendicare l'italianità di Fiume: il Vate sognava di trasformare la sua «Impresa» in una rivoluzione globale contro l'ordine costituito, e nell'avveniristica Carta del Carnaro - una costituzione avanzatissima - teorizzò un governo della cosa pubblica lontano da quello dello Stato liberale, socialista, fascista. Per sedici mesi Fiume fu teatro di cospirazioni, feste, beffe, battaglie, amori, in un intreccio diplomatico e politico sospeso tra utopia e realtà. Militari, scrittori, aristocratici, industriali, femministe, sovversivi, politici, ragazzi fuggiti di casa componevano l'esercito del «Comandante», inconsapevoli di quanto avrebbero influenzato l'immaginario del Novecento. Nelle luci e nelle ombre dell'Impresa ritroviamo, a distanza di cento anni, molti aspetti del mondo di oggi: la spettacolarizzazione della politica, la propaganda, la ribellione generazionale, la festa come mezzo di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, il ribellismo e la trasgressione. Mussolini, che a Fiume tradì d'Annunzio, saccheggiò quell'epopea adottandone la liturgia della politica di massa: i discorsi dal balcone, il dialogo con la folla, il «me ne frego», l'«eia eia alalà», riti e miti: così l'Italia democratica ha voluto dimenticare che la «Città di Vita» fu anzitutto una «controsocietà» sperimentale, in contrasto sia con le idee e i valori dell'epoca sia - e tanto più - con quelli del fascismo. Eppure, se molti legionari aderirono al regime, come Ettore Muti, molti altri furono irriducibilmente antifascisti, confinati o costretti a morire in esilio, come il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Giordano Bruno Guerri ricostruisce quei sedici mesi attraverso migliaia di documenti custoditi negli Archivi del Vittoriale, intrecciando la grande storia con le vicende degli uomini e delle donne che hanno vissuto quell'irripetibile avventura, e portando alla luce un aspetto inedito della poliedrica personalità dell'uomo che ne fu l'ispirato animatore e l'indiscusso protagonista.
Molti di noi rispondono agli ostacoli della vita chiudendosi in se stessi e ignorando i problemi, finendo però per diventare vittime di ansia e depressione. Altri reagiscono buttandosi nel lavoro, in ufficio, a scuola o a casa, sperando che questo possa rendere più felici le persone che amano. E se invece bastasse essere se stessi? È come quando in aereo ci suggeriscono di indossare la maschera per l'ossigeno prima di pensare ad aiutare il nostro vicino: il messaggio è che dobbiamo innanzitutto essere in pace con noi stessi e solo dopo possiamo cercare di essere in pace con il mondo intorno a noi. In questo seguito a "Quando rallenti, vedi il mondo", il monaco buddhista zen Haemin Sunim rivolge la saggezza dei suoi insegnamenti alla cura di sé, sostenendo che solo accettando noi stessi - con tutte le imperfezioni che ci rendono ciò che siamo - possiamo avere relazioni piene e compassionevoli col nostro partner, la nostra famiglia, i nostri amici. Arricchito da più di trentacinque illustrazioni a colori, "Ama ciò che è imperfetto" appaga gli occhi e il cuore, e ci aiuta a imparare ad amare noi stessi, la nostra vita e tutte le persone e le cose che la riempiono.
Cosa significa educare? Il difficile momento di trasformazione sociale e culturale che stiamo attraversando sembra impedire a genitori e insegnanti di rispondere a questa domanda. Si tratta tuttavia di una questione decisiva per provare a comprendere i tanti cambiamenti in corso. Partendo dalla testimonianza delle scuole Penny Wirton per l'insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati, Eraldo Affinati racconta la storia di una nuova esperienza didattica dove ci si guarda negli occhi, sedendo allo stesso tavolo, senza classi e senza voti, in una relazione d'amicizia e simpatia. Nel suo diario personale e pubblico, in cui s'intrecciano la dimensione pedagogica e letteraria, troveremo una riflessione su temi cruciali: la responsabilità di chi viene chiamato a formare i ragazzi, i viaggi della speranza mischiati a quelli della morte, i fantasmi della Shoah, la natura equivoca della nuova libertà digitale, gli adulti fragili, il rischio delle parole gratuite e delegittimate, la potenza del vero volontariato, il nodo spinoso del giudizio e della valutazione, il possibile inganno della risposta esatta e il valore paradossale di quella sbagliata. Insegnare, scrivere e parlare chiamano in causa il nostro modo di stare insieme e ci spingono a ripensare un'idea dell'Europa. Guidato dai maestri che hanno segnato il suo percorso umano e culturale, da Lev Tolstoj a Dietrich Bonhoeffer, da Michel de Certaud a don Lorenzo Milani, da Silvio D'Arzo a Mario Rigoni Stern, lo scrittore ci consegna, nello stile lirico e speculativo a lui più congeniale, il referto implacabile della crisi etica che stiamo vivendo. Ma in questo libro formula anche un'importante scommessa sul futuro, non teorica bensì militante, invitandoci a puntare tutto sulla capacità di rinascita degli adolescenti italiani che insegnano la nostra lingua ai loro coetanei provenienti da ogni parte del mondo.
Ci fu un tempo in cui sinistra e popolo erano quasi la stessa cosa. Adesso in tutto il mondo le classi lavoratrici, i mestieri operai vecchi e nuovi, cercano disperatamente protezione votando a destra. Perché per troppi anni le sinistre hanno abbracciato la causa dei top manager, dell'Uomo di Davos; hanno cantato le lodi del globalismo che impoveriva tanti in Occidente. E la sinistra italiana da quando è all'opposizione non ha corretto gli errori, anzi. È diventata il partito dello spread. Il partito che tifa per l'Europa «a prescindere», anche quando è governata dai campioni della pirateria fiscale. È una sinistra che abbraccia la religione dei parametri e delle tecnocrazie. Venera i miliardari radical chic della Silicon Valley, nuovi padroni delle nostre coscienze e manipolatori dell'informazione. Tra i guru «progressisti» vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer sui social media, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo. Non rispondetemi che «quegli altri» sono peggio - scrive Federico Rampini -, non ditemi che è l'ora di fare quadrato, di arroccarsi tra noi, a contemplare con orgoglio tutte le nostre sacrosante ragioni, a dirci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un'orda fascista. Quand'anche fosse vero che «quelli» sono la peste nera, allora dobbiamo chiederci: com'è stato possibile? Come abbiamo potuto regalare a «loro» l'Italia più gli Stati Uniti, l'Inghilterra più la Svezia e in parte la Francia? Se davvero una barbarie reazionaria sta dilagando in tutto l'Occidente, dov'eravamo noi, cosa facevamo mentre questo flagello si stava preparando? (Aiutino: spesso eravamo al governo). C'è qualcosa di malsano nel pensare che una maggioranza degli italiani sono idioti manipolati da mascalzoni: come si costruisce su queste basi una convivenza civile, un futuro migliore? Attingendo alla sua formazione giovanile nel Pci di Enrico Berlinguer, fine anni Settanta; poi alle sue esperienze successive di reporter globale a Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino e ora New York, Federico Rampini prende di mira alcuni dogmi politically correct. E spiega che la sinistra può ripartire. Deve farlo. Il tracciato verso la rinascita parte dalle diseguaglianze, e abbraccia senza imbarazzi una nuova idea di nazione.
Ambientato in una Torino malefica e metafisica, "La donna della domenica" è da molti considerato il capostipite del "giallo italiano". La trama si snoda tra i vizi, l'ipocrisia, le comiche velleità e gli esilaranti chiacchericci che animano la vita della borghesia piemontese.