
Il passato è presente parla a ognuno di noi attraverso il dialogo che la scrittrice immagina con il compagno di tutta una vita, l'ispanista Cesare Acutis, che troppo presto l'ha lasciata sola. Fu un grande amore, burrascoso e complice. Ma il discorso intellettuale e sentimentale non si è mai interrotto e le consente di disegnare a tratti ora più leggeri ora più incisi momenti e tappe di una vita anche attraverso piccole vicende, "emozioni trascurate, sensazioni appena sfiorate", che adesso emergono suscitando riflessioni. Le tante persone e cose amate: i genitori, gli amici, le opere degli artisti e i capolavori della natura. Ma anche la passione per la scrittura e per la parola che può illuminare il vuoto delle assenze, "ombra del sole, refrigerio e conforto" anche nel momento della prova più difficile: una malattia che imprigiona nei movimenti, che priva della libertà. Perché "di tutti i nostri atti, consapevoli o meno, nessuno va perduto". Ed è nell'insperata influenza di un nostro gesto sulle vite degli altri che continuiamo - laicamente - a sopravvivere.
Tre leggendari pionieri ottocenteschi rivivono fra le pagine dell'originale e struggente mescolanza di fatti e finzione che è "Livelli di vita": Fred Burnaby, colonnello della cavalleria della Guardia Reale inglese e viaggiatore per terre esotiche e inesplorate, la "divina" Sarah Bernhardt, la più grande attrice di tutti i tempi a detta di alcuni, e Félix Tournachon, il caricaturista, vignettista, aeronauta e celebre fotografo ritrattista noto come Nadar. Ad accomunarli, un'incomprimibile passione per il volo, l'impulso sacrilego a issarsi a bordo di una cesta di vimini appesa a un pallone e, affidandosi a un precario equilibrio di pesi e correnti, sganciarsi dal regno che ci è deputato per conquistare lo spazio degli dèi. Una buona metafora per ogni storia d'amore. Quella immaginata fra Burnaby e Sarah Bernhardt, ad esempio - l'aria, l'assenza di vincoli, l'eccentricità, lei; la concretezza, l'avventura, la disciplina, lui. O quella, cinquantennale, fra Nadar e l'afasica moglie Ernestine. Oppure la storia d'amore, durata trent'anni e poi proseguita, fra Julián Barnes e la moglie Pat Kavanagh. Storie in cui "metti insieme due cose che insieme non sono mai state e il mondo cambia", esempi di una "devozione uxoria" che travalica ogni barriera. Volare è esaltante e semidivino, volare è pericoloso. Un calcolo sbagliato, un vento contrario, un disegno avverso, o la casuale assenza di esso, e si può precipitare.
La distanza tra la Nigeria e gli Stati Uniti è enorme, e non solo in termini di chilometri. Partire alla volta di un mondo nuovo abbandonando la propria vita è difficile, anche se quel mondo ha i tratti di un paradiso, ma per Ifemelu è necessario. Il suo paese è asfittico, l'università in sciopero. E poi, in fondo, sa che ad accoglierla troverà zia Uju e che Obinze, il suo ragazzo dai tempi del liceo, presto la raggiungerà. Arrivata in America, Ifemelu deve imparare un'altra volta a parlare e comportarsi. Diverso è l'accento, ma anche il significato delle parole. Ciò che era normale viene guardato con sospetto. Ciò che era un lusso viene dato per scontato. La nuova realtà, inclemente e fatta di conti da pagare, impone scelte estreme. A complicare tutto c'è la questione della pelle. Ifemelu non aveva mai saputo di essere nera: lo scopre negli Stati Uniti, dove la società sembra stratificata in base al colore. Esasperata, Ifemelu decide di dare voce al proprio scontento dalle pagine di un blog. I suoi post si conquistano velocemente un folto pubblico di lettori, che cresce fino ad aprire a Ifemelu imprevisti e fortunati sbocchi sul piano professionale e privato. Ma tra le pieghe del successo e di una relazione con tutte le carte in regola si fa strada un'insoddisfazione strisciante. Ifemelu si sente estranea alla sua stessa vita e, lì dov'è, non riesce ad affondare le radici, pur sapendo che in Nigeria il nuovo modo di guardare il mondo le guadagnerebbero l'epiteto di "Americanah".
Questo libro affronta un aspetto poco indagato della cultura letteraria, il non detto, e dalla dimostrazione che un buon racconto è un racconto che sa tralasciare qualcosa arriva a identificare l'idea stessa di letteratura con quella di lacunosità. La nozione di "lacuna", assunta a principio di metodo, serve a ridefinire concetti cardinali come scrittura, testo, trama, lettura, stile, realtà e realismo, verità, conoscenza, piacere, interpretazione, impegno, libertà, e il complesso rapporto tra letteratura e vita. Gardini raccoglie e analizza un'affascinante varietà di fonti (Aristotele, Platone, Cicerone, Seneca, Dante, Manzoni, Stendhal, Flaubert, Proust, Henry James, Virginia Woolf, Nietzsche, Thomas Mann, Conan Doyle, Simenon, Yourcenar ecc.), collegando gli esempi in sorprendenti sintesi e scoperte. Ne esce per la prima volta il profilo di un'estetica fondativa, lunga secoli. Ma soprattutto risulta che il lacunoso è uno dei paradigmi più vivaci della nostra immaginazione, e un bene da coltivare. Con "Lacuna" Gardini afferma con vigore la missione conoscitiva della letteratura e, al tempo stesso, fornisce una prova saggistica molto originale, coniugando l'impegno nella ricerca alla chiarezza.
In una calda notte di primavera, una giovane donna cammina nel centro esatto della strada provinciale. È nuda e coperta di sangue. A stagliarla nel buio, i fari di un camion sparati su di lei. Quando, poche ore dopo, verrà ritrovata morta ai piedi di un autosilo, la sua identità verrà finalmente alla luce: è Clara Salvemini, prima figlia della più influente famiglia di costruttori locali. Per tutti è un suicidio. Ma le cose sono davvero andate cosi? Cosa legava Clara agli affari di suo padre? E il rapporto che la unisce ai tre fratelli - in particolare quello con Michele, l'ombroso, il diverso, il ribelle - può aver giocato un ruolo determinante nella sua morte? Le ville della ricca periferia barese, i declivi di ogni rapida ascesa sociale, una galleria di personaggi indimenticabili, le tensioni di una famiglia in bilico tra splendore e disastro: utilizzando le forme del noir, del gotico, del racconto familiare, scandite da un ritmo serrato e da una galleria di personaggi e di sguardi che spostano continuamente il cuore dell'azione, Nicola Lagioia mette in scena il grande dramma degli anni che stiamo vivendo.
Un'impresa capace di creare profitto non solo per gratificare gli azionisti, ma anche per produrre benessere, sicurezza e bellezza, per chi vi lavora come per la comunità che la ospita: Olivetti è stato un imprenditore e un uomo di cultura in straordinario anticipo sui propri tempi. A più di cinquant'anni dalla sua morte, le idee di Olivetti - sul ruolo dell'industria, sulle funzioni dello stato sociale, sul rapporto tra impresa e territorio -, continuano a sembrare in aperto contrasto con quanto si pratica e si scrive. Per cercare di comprendere (e di colmare) questa discrepanza, Luciano Gallino, che a Ivrea ha lavorato diversi anni come ricercatore, torna a riflettere su quell'idea di "impresa responsabile" che Olivetti cercava, giorno per giorno, di mettere in pratica nei suoi stabilimenti e uffici. Gallino è stato assunto da Olivetti nel 1955 e ha potuto cosí conoscere da vicino, a Ivrea, come questi pensava e operava nel quotidiano impegno di capo d'industria, e al tempo stesso, di pensatore politico, editore, promotore di piani territoriali. Questa intervista, pubblicata da Edizioni Comunità nel 2001, viene presentata qui riveduta, e con l'aggiunta di una nuova Prefazione. Gallino, sollecitato da Paolo Ceri, ricostruisce, senza alcun intento agiografico, la storia di un percorso umano, filosofico ed economico che continua a sfidare, per modernità e lungimiranza, il nostro presente.
Dall'Apocalissi festosa de "L'ultimo capodanno dell'umanità" alle peripezie del picciotto Albertino protagonista di "Fango", i racconti di Niccolò Ammaniti mettono in scena i nuovi eroi di un'umanità borderline e metropolitana, capace di passare con leggerezza da una modesta aspirazione a un efferato delitto. Sono racconti che mescolano tutti i generi, dall'horror alla commedia all'italiana, trovando infine in una grottesca vena comica il vero elemento comune. Storie nelle quali una minuziosa osservazione della realtà si fonde con una scatenata fantasia, per cui anche la morte si trasforma in uno scintillante spettacolo.
Ci sono cose che non fareste mai. Cosi dite: né ora né mai. Sprecare una fruttuosa domenica pomeriggio negli studi di Cinecittà per partecipare a una trasmissione televisiva, per esempio. Sgomitare in autogrill durante l'esodo delle vacanze. Mettersi in coda per il giro della morte sulle montagne russe e spendere un intero stipendio sotto il giogo di figli ipnotizzati. Affrontare il pigia-pigia per l'ultimo cinepanettone, quello che vanno a vedere tutti, quello che incarna l'animo dell'italiano medio e trovarsi li con tanti italiani medi a sorbirsi l'ennesimo girovagare degli equivoci. E poi succede che vi ritrovate dentro le cose che non fareste mai. A tutti, prima o poi, succede. "E il momento in cui ci si chiede se ci si sente un po' stupidi. E la risposta non è: no. La risposta è: si. Ma questo si è comprensivo e caloroso, suggerisce un diritto a essere un po' stupidi qualche volta nella vita. E a lasciarsi andare". Francesco Piccolo ci porta con sé alla scoperta di un paese, il nostro, dove i cliché stereotipati che etichettano precisi gruppi umani non hanno "diritto di cittadinanza". Perché non può esistere un "noi" e un "loro".
La ricostruzione di Ostrogorsky prende avvio con il trasferimento del centro politico dell'impero romano nell'Oriente ellenistico, per concludersi con la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II. L'originale fisionomia dell'impero bizantino nasce dall'incontro della struttura statale romana con la cultura greca e la religione cristiana. Sono le tre grandi linee di cui tiene conto l'autore nel delineare un'avventurosa vicenda di lotte armate, di dispute religiose e teologiche e una fioritura artistica che fece di Bisanzio, per alcuni secoli, il più importante centro di cultura e di studi.
I cambiamenti profondi avvenuti nelle coppie e nelle famiglie sono spesso evocati dagli psicologi e dai sociologi con toni di cupa inquietudine. C'è però un fenomeno, almeno a prima vista, rassicurante: quello dei nuovi papà. Sensibili e gentili, attenti e disponibili, capaci di assolvere tutte le funzioni della maternità con naturalezza e piacere, sembrano molto diversi dai padri di un tempo, distanti e tiranni. Simona Argentieri si confronta con questa mutazione epocale e con gli aspetti più spinosi del problema, nella dimensione psicoanalitica e nell'intreccio di vari piani, dalla storia alla fenomenologia, dall'arte alla pubblicità, dalla letteratura al cinema. Imbattendosi nella questione fondamentale: quali sono le conseguenze sui figli? Con un contributo di Adolfo Pazzagli.