
"Fuori contesto". Si chiama così la terra di nessuno delle astrazioni indimostrate in cui vagolano da tempo i fantasmi della psicologia, ossia della disciplina che più di altre dovrebbe invece indagare gli esseri umani nella loro viva, singolare concretezza. A cacciare i fantasmi con intrepido fervore è proprio uno psicologo. Pochi come Jerome Kagan conoscono dall'interno le dinamiche dei progetti di ricerca e sono in grado di additare autorevolmente i preconcetti che ne viziano i risultati. Una miriade di studi empirici iperfinanziati e manuali diagnostici a diffusione universale condividono un identico cono d'ombra, perché si ostinano a ignorare la significatività - per gli stati mentali -dell'appartenenza culturale, della collocazione sociale e delle storie di vita degli individui. Esaminare le emozioni, i sentimenti e i comportamenti fidando soltanto nelle dichiarazioni verbali dei soggetti intervistati, misurare le relative attività cerebrali senza tener conto dei setting specifici, o invocare un'origine monocausale, perlopiù genetica, per le patologie psichiatriche sono procedure avventate, che finiscono con l'oscurare evidenze incontrovertibili e alterare i dati. Il benessere soggettivo descritto da una donna povera del Nicaragua non potrà essere calcolato sull'indice di felicità di un avvocato parigino; gli americani depressi di origine cinese non risponderanno a un questionario sulla depressione, ritenuta stigmatizzante.
Se c'è un personaggio storico che merita di essere definito "genio universale", nessun dubbio che esso sia Leonardo da Vinci, semplicemente un gigante. Progettò i primi automi funzionanti; immaginò i computer digitali; costruì la prima valvola cardiaca; affrontò i primi studi accurati di anatomia; inventò le prime macchine volanti; rivoluzionò, lui, vegetariano e pacifista, l'ingegneria militare... l'elenco dei campi di applicazione del suo ingegno è vertiginoso. Noi celebriamo giustamente Leonardo come il pittore che ha rivoluzionato l'arte del Rinascimento, l'autore del Cenacolo e della Gioconda, probabilmente il quadro più famoso del mondo. Ma in realtà i suoi contemporanei lodavano e corteggiavano in lui più l'ingegnere, l'architetto, l'inventore di marchingegni terribili e portentosi, colui che impersonava una nuova era grazie alle sue scoperte meravigliose. Perché Leonardo è stato a tutti gli effetti il primo visionario della storia, ha inventato un nuovo modo di pensare, e, grazie alla sua prodigiosa capacità di osservazione della natura e alle sue folgoranti intuizioni, ha rivoluzionato ogni campo della conoscenza a cui si è applicato.
L'uso parsimonioso degli aggettivi "strano", "bizzarro" e "misterioso" è indubbiamente una buona regola. Quindi, per mettere bene in chiaro che l'argomento del suo nuovo libro è davvero molto strano, bizzarro e misterioso, Jim Al-Khalili lo dice subito, e si capisce perché lo fa. Il tema del suo libro è infatti il mondo del molto-molto piccolo, quello dei quanti, dove le regole del "nostro" mondo non valgono o, in molti casi, sono completamente rovesciate. Dopo più di un secolo, la fisica si è ormai abituata a scendere a patti con le implicazioni della meccanica quantistica, perché questa teoria controintuitiva si è dimostrata solidissima e perfettamente adeguata a descrivere i fenomeni della materia. Ma chi non ha avuto in sorte l'occasione di studiare fisica è piuttosto perplesso, e fa bene ad esserlo. In che senso una particella può passare da due parti contemporaneamente? Cosa vuol dire esattamente che un corpo si comporta simultaneamente come un'onda del mare e come un granello di materia? Ma davvero il gatto nella scatola è allo stesso tempo vivo-e-morto finché non lo guardiamo? E come è possibile che agendo su una particella qui sulla Terra si ottenga un effetto simultaneo sulla sua gemella, che ormai naviga oltre Plutone, verso il vuoto interstellare. Dopo "La fisica del diavolo", il grande fisico inglese si cimenta ancora una volta paradossi della fisica, facendosi accompagnare, con brevi saggi illuminanti, da invitati d'eccezione, come Anton Zeilinger, Frank Close e Paul Davies.
Passiamo più tempo immersi in un universo di finzione che nel mondo reale. "L'isola che non c'è" è la nostra vera nicchia ecologica, il nostro habitat. Nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l'essere umano, lo "storytelling animal". Questo strano comportamento, che ci porta a mettere al centro della nostra esistenza cose che non esistono, è innato e antichissimo; ci sono segni di finzione fin dai primordi dell'umanità e basta osservare un bambino nel suo quotidiano gioco del "facciamo finta che" per capire che si tratta di un istinto primordiale, che ha già dentro di sé quando viene al mondo. Ma a che scopo? Jonathan Gottschall studia la narrazione da molti punti di vista e ha un'idea originale e affascinante per spiegare come si sia sviluppata questa strana abilità. Appoggiandosi, da letterato, alle ricerche più avanzate della biologia e delle neuroscienze, Gottschall evoca i ben tangibili vantaggi del mondo fantastico, e lo fa con il piglio del grande narratore. Raccontando storie, ad esempio, i bambini imparano a gestire i rapporti sociali; con le fantasie a occhi aperti esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso vivere in prima persona, ma che risulteranno utilissimi nella vita reale; nei romanzi e nei film cementiamo una morale comune che permette alla società di funzionare col minimo possibile di contrasti; e poi è provato che la letteratura ci cambia, fisicamente e in meglio.
Viviamo in un mondo più rischioso, o siamo noi donne e uomini del XX secolo angosciati dai cambiamenti - che abbiamo una percezione deformata della realtà? Alle soglie di una "nuova modernità", la scienza sembra incapace di tenere sotto controllo l'incertezza, che aveva domato grazie al calcolo della probabilità e alla statistica. Le nuove scoperte scientifiche hanno esiti difficili da prevedere e controllare. Questo libro tratta di rischi - piccoli e grandi, naturali e tecnologici - che minacciano di stravolgere la nostra esistenza e di mettere a repentaglio, in alcuni casi, la sopravvivenza della specie umana. Quali di questi rischi siamo disposti a correre, di quali strumenti disponiamo per gestirli? La risposta tocca questioni culturali, etiche e soprattutto politiche: il rapporto tra individuo e istituzioni, tra comuni cittadini ed "esperti", tra ragione ed emozione. Di fronte al pencolo è normale reagire con un istinto primordiale: la paura. Ma la paura è la nemica dell'"intelligenza" del rischio, indispensabile per far fronte alle sfide inedite del nostro tempo.
Nel volume sono raccolte le testimonianze di quarantacinque autorevoli personalità della vita pubblica italiana - da Ciampi a Draghi, da Cossiga a Prodi, da Colombo a Padoa-Schioppa - che, riflettendo sulla figura di Guido Carli allo scopo di ricostruirne il pensiero e l'azione, hanno ripercorso con la memoria gli snodi cruciali del processo di sviluppo del nostro paese. Al lettore viene così fornita una chiave interpretativa originale per comprendere la visione e gli obiettivi che hanno ispirato, spesso alimentando grandi speranze, la classe dirigente che ha guidato l'Italia dalla ricostruzione postbellica fino alla scelta europea del 1992. Nelle parole dei personaggi che hanno dato vita a questo libro si ritrovano le radici della nostra storia contemporanea e le ragioni per cui, di volta in volta, di fronte ad alternative molteplici, è stata imboccata una determinata direzione; vengono avanzate ipotesi sull'evolvere delle nostre strutture economiche; emergono i successi conseguiti e i progressi compiuti dal paese così come le contraddizioni, i vizi, le carenze, le occasioni mancate. Gli eventi raccontati si intrecciano con i fondamentali passaggi della vita di Guido Carli: la nomina a governatore della Banca d'Italia, l'incarico alla presidenza di Confindustria, la fondazione della Luiss Guido Carli, l'elezione a senatore, la nomina a ministro del Tesoro.
Cos'hanno in mente i nostri figli quando, appena in grado di parlare, si impegnano con tutta la serietà di cui sono capaci nella costruzione di realtà immaginarie? Come si articolano i loro stati coscienti? Cosa ci può dire la loro mente sul nostro modo di pensare? Alison Gopnik si muove in una terra di confine, tra scienza, filosofia e i sentimenti di una madre, per mostrarci che i nostri bambini sono tutt'altro che esseri irrazionali o limitati nelle loro capacità intellettuali. Anzi, ci sono buone ragioni per credere che siano molto più intelligenti, perspicaci e consapevoli degli adulti. Scienziata e mamma, Alison Gopnik ha saputo cogliere in queste pagine rigorose ma empatiche, tutta la deliziosa complessità infantile.
Nel corso della storia l'infamia ha assunto molte forme, nessuna più spregevole, probabilmente, di quella incarnata dalla rispettabilità. È tutttavia con questa maschera che l'ideologia razzista e antisemita del nazismo poté imporsi, senza quasi trovare ostacoli, nelle università e nei centri di ricerca di tutta la Germania. Fu così che, mentre figure di spicco come Theodor Adorno, Max Horkheimer, Walter Benjamin, Ernst Cassirer, Hannah Arendt, Karl Löwith, Edmund Husserl, Kurt Huber e altri furono ridotti al silenzio o costretti all'esilio, filosofi eminenti come Martin Heidegger, Carl Schmitt, Alfred Rosenberg, Wilhelm Grau e Max Boehm contribuirono nel dare al nazismo quella facciata di rispettabilità di cui aveva assoluta e radicale esigenza. Filosofi, scrittori, scienziati, storici, rafforzarono ideologicamente e politicamente il regime hitleriano, ne ispirarono e giustificarono le azioni. Fu anche grazie al loro zelante e talora incondizionato appoggio che il nazismo potè attuare il suo programma criminale quasi per intero. Ma solo i documenti venuti alla luce nel corso degli anni, e alcune recenti e decisive scoperte, hanno rivelato l'enormità della loro infamia. Frutto di anni di scrupolose ricerche negli archivi internazionali, "I filosofi di Hitler" è una ricostruzione del complesso rapporto tra quegli uomini e il nazismo, descrive il loro profilo etico e intellettuale, scandaglia le loro vicende umane fin negli aspetti meno noti e più torbidi.
"Se Dossetti avesse continuato a fare politica, la DC si sarebbe spezzata". È l'explicit lapidario che Gianni Baget Bozzo appose nel 1977 a una storia iniziata quattro decenni prima e conclusa da tempo. Quando venivano scritte queste parole, Giuseppe Dossetti era ormai un monaco di sessantaquattro anni votato allo studio e alla preghiera. Ma nell'immediato dopoguerra, da laico, fu il protagonista di una stagione di rinnovamento che coinvolse le forze più vive del cattolicesimo politico italiano e il partito in cui cercarono rappresentanza. Sembrava che di quel tentativo si conoscesse ogni singola mossa, ogni retroscena. Non è così. Lo si scopre nel saggio di Fernando Bruno, che ha il merito di guardare all'intera vicenda da un punto di osservazione finora non abbastanza messo a profitto: la rivista "Cronache Sociali" (1947-51), organo politico quindicinale del gruppo dossettiano, ossia della sinistra democristiana nella sua espressione più alta e sognoficativa. Gli articoli di Dossetti, Lazzati, La Pira, Caffè, le grandi inchieste, l'osservatorio interno e internazionale erano modelli di un giornalismo civile, colto e incalzante, dove veniva allo scoperto l'alternativa alla leadership di De Gasperi. Al tatticismo degasperiano risucchiato nella "manovra governativa" e nel "patteggiamento di gabinetto", e sospinto a destra, Dossetti contrappose un'azione "formativa e suscitatrice, in strati sempre più vasti, di uno slancio collettivo vitale".
Alle grandi imprese sconfitte si rende onore soltanto se non le si celebra con il riguardo sepolcrale che le condannerebbe per sempre alla giacitura. Ciò che è irrealizzato attenta ancora - giudice silenzioso delle sorti che gli hanno voltato le spalle - all'ordine che invano cercò di scuotere e ricreare. Ma le sue ragioni perdute si impennano e scaldano gli animi a patto che qualcuno le tragga fuori dai recinti degli specialismi o dei clichés storiografici. Per questo la vicenda dell'Italia preunitaria e il lascito che ci ha trasmesso trovano in Giulio Bollati, editore e studioso, uno degli interpreti più congeniali. L'editore sensibile al minimo sintomo di convergenza tra saperi scientifici e umanistici procede al passo con l'italianista, a cui si deve l'anamnesi acutissima ed empatica del progetto di modernità che tra fine Settecento e metà Ottocento, in un vortice di idealità spesso dissonanti, cercò di aggiornare l'antica, esclusiva primazia italiana nelle lettere e nelle arti, aprendola alla società in mutamento. Spogliata degli orpelli risorgimentisti, sottratta all'abuso della retorica posteriore, la coppia di aggettivi morale e civile mostra qui una pregnanza quasi eversiva, che ambisce a cambiare il corso delle cose. Eversore e oltraggioso, agli occhi dei contemporanei, è il Leopardi antologista della "Crestomazia", che da cinque secoli di prosa italiana "stacca" e "straccia" di furia brani inusitati, insidiando la maestà del Trecento a profitto dell'ingegnoso Galileo...