
La vita umana è fatta di alti e bassi, di piaceri e dolori, e "normalità" non è sinonimo di felicità costante. È quindi legittimo chiedersi se sia proprio necessario interpretare ogni sofferenza o difficoltà nei termini di un disturbo psicologico. I manuali diagnostici che classificano le patologie mentali hanno conosciuto, soprattutto a partire dalla sua ultima versione (il DSM-5), un tale ampliamento delle proprie categorie da comprendere quasi ogni genere di disagio. Il lutto per una morte può venire scambiato per depressione, l'agitazione di un bambino diventa sindrome da deficit di attenzione e, sebbene disturbi come l'insonnia non siano paragonabili alle psicosi, pare esserci una medicina per tutti. Così i trattamenti di tipo farmacologico conoscono sempre maggiore successo, per la gioia delle industrie farmaceutiche che investono nel marketing per aumentare le proprie vendite. Gli interessi economici non sono infatti di poco conto, se si considerano i numeri dei potenziali pazienti. Tutto ciò ha incentivato la tendenza odierna a prescrivere gli psicofarmaci con estrema facilità, anche da parte di medici non specializzati in psichiatria. Ma gli psicofarmaci non sempre servono, spesso sono anzi dannosi, in ogni caso bisogna conoscerli e somministrarli con cautela visti i considerevoli effetti collaterali. Potrebbe invece dimostrarsi più utile una psicoterapia, con ricorso ai farmaci solo quando indispensabili e dietro attento controllo medico specialistico. Nel campo della psiche è comunque sempre fondamentale adattare il trattamento al tipo di problema presentato -di carattere biologico oppure psicologico, relazionale, familiare, sociale - in modo da agire allo stesso livello, secondo l'antico principio che "le cose simili sono curate dalle cose simili".
Gli uomini non parlano. Mai come in questo momento, gli uomini sembrano non avere le parole per "dire": la loro paura e il loro smarrimento, la loro fragilità e i loro desideri. Coloro che per millenni sono stati i dominatori del mondo da tempo non lo sono più e oscillano continuamente tra inedite libertà offerte loro dalle donne e la nostalgia degli antichi privilegi. No, gli uomini non sanno ancora parlare di sé, ed è in questo silenzio che Iaia Caputo coglie una "condizione tragica del maschile", che nella dismisura di una sessualità incapace di evolvere e nella scorciatoia della violenza ha le sue derive più preoccupanti. Così, l'autrice indaga sui padri che uccidono i figli ma anche sulla nuova paternità che ha scoperto la gioia della cura e della prossimità dei corpi; decodifica i gesti che hanno caratterizzato la politica e la sfera pubblica negli ultimi vent'anni, mettendone a fuoco l'arroganza, la volgarità e l'urgenza di costruire e denunciare un nemico; riflette sulle forme del desiderio maschile attraverso l'esemplarità del caso Marrazzo o dell'affaire Strauss-Kahn - passando, evidentemente, per il "ciarpame senza pudore" dell'era berlusconiana. Cita dalla cronaca, intervista, ascolta, analizza nella prospettiva primitiva in cui tornano, inaspettatamente attuali, i gesti di Medea, e quelli di una senescente classe politica, i Crono del postpatriarcato tanto disinteressati al destino dei propri figli quanto intrinsecamente misogini.
A volte la temiamo e la fuggiamo, più spesso la desideriamo e la ricerchiamo. La verità ci interessa. Ma che cos'è?
Queste pagine sono una "cronaca per immagini" dell'altra faccio dello "sballo", il business colombiano della Cocaina che si trascina dietro un'interminabile agonia.
Uno straordinario reportage che racconta la sanguinosa guerra in atto in Messico tra lo Stato e i cartelli della droga; che, a loro volta, sono in guerra tra di loro, avvalendosi dell’alleanza di parti consistenti dello Stato, le quali parteggiano – contro lo Stato stesso e contro i cittadini – ora per l’uno ora per l’altro cartello della droga. Questa guerra è mossa dalla volontà di controllare i principali business gestiti dai clan criminali, primo fra tutti quello della droga. La droga viene inviata in Europa utilizzando il porto di Gioia Tauro, come snodo logistico, e la ‘ndrangheta, come «partner commerciale». Lucia Capuzzi ha girato le zone «calde» del Messico per raccogliere informazioni e testimonianze: Città del Messico,Tijuana, Ciudad Juárez, Saltillo, Ixtepec e altre città e stati del Messico. Ha intervistato decine di persone: dai residenti di Juárez che si organizzano in gruppi di autoaiuto per resistere alla violenza, ai migranti latinos vittime dei sequestri, alle ragazze violentate e alle madri dei desaparecidos; ha incontrato personaggi straordinari (giornalisti, genitori, sacerdoti, vescovi, poliziotti...) e gente comune, e racconta le loro storie e testimonianze.
La narcoguerra messicana riguarda l’Italia e gli italiani molto più di quanto si pensi. Non solo perché i narcos fanno affari con la ‘ndrangheta, la quale poi reinveste i guadagni di questi traffici in attività dell’economia «lecita». Ma anche perché è proprio la «domanda» di cocaina che arriva dall’Europa ciò che attiva il narcomercato messicano e mondiale, con le tremende violenze ad esso connesse.
lucia Capuzzi è nata a Cagliari nel 1978 dove si è laureata in Scienze Politiche. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca in «Storia dei Partiti e dei Movimenti Politici» all’Università di Urbino, svolgendo una ricerca sull’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra. Da questo studio è nato il libro La frontiera immaginata. Profilo politico e sociale dell’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra (Franco Angeli 2006). Ha pubblicato inoltre Colombia. La guerra (in)finita (Marietti, 2012); Adiós Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro (con Nello Scavo), (Lindau, 2011); Haiti. Il silenzio infranto (Marietti, 2010). Dal 2004 ha intrapreso la carriera giornalistica. Ha lavorato per il Tg Leonardo della Rai. Attualmente lavora nella redazione Esteri di Avvenire e si occupa in particolare di questioni latinoamericane.
La guerra civile in Colombia, ossia la guerra più lunga d'Occidente, s'è conclusa quasi in sordina il 24 novembre 2016. Il libro racconta l'ieri e l'oggi di quel martoriato Paese, in bilico tra conflitto e pace, attraverso le voci di tre sopravvissute. Tre donne - metafora di molte, molte altre - che la guerra non è riuscita a uccidere, nel corpo e nello spirito. È la forza vitale a unirle al di là delle vicende e delle barricate su cui la brutalità del conflitto le ha collocate. Quella forza che le fa camminare, ferite e sanguinanti, a passi piccoli ma ostinati, verso il domani.
Prefazione di Guillermo «Coco» Fariñas
Cuba è a una svolta. Il passaggio di consegne fra Fidel Castro e il fratello Raúl, avvenuto nel 2006, è al centro di analisi e di interrogativi nelle cancellerie di mezzo mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Senza la guida carismatica del Lider Máximo, la dittatura continuerà a resistere alla pressione internazionale? E quale risposta darà alle incalzanti richieste di apertura e di democrazia provenienti dalla società civile, che ha trovato nella Chiesa un importante mediatore?
A Cuba l’opposizione ha il volto di Orlando Zapata, morto il 23 febbraio 2010 a 42 anni, dopo 85 giorni di sciopero della fame contro la dittatura. Ma in molti continuano la sua lotta, in modi diversi: dai dissidenti Guillermo Fariñas (Premio Sakharov 2010 del Parlamento europeo) e Héctor Maseda Gutiérrez alle Damas de Blanco, dalla blogger Yoani Sánchez allo scomodo Canek Guevara (nipote del Che…), allo scrittore Roberto Ampuero, fino ai preti e ai vescovi cattolici che operano sull’isola, il cui attivismo è certamente una delle novità più importanti degli ultimi anni.
Le voci di tutti loro raccontano in questo libro i sogni e le speranze di una nuova generazione di cubani che sente più che mai vicina la libertà.
L'AUTORE
Lucia Capuzzi è nata a Cagliari nel 1978. Laureata in Scienze Politiche e specializzata in Storia dei Partiti Politici a Urbino, ha lavorato al tg «Leonardo» della Rai. Ora è alla redazione Esteri di «Avvenire». È autrice del volume Haiti. Il silenzio infranto, edito da Marietti 1820 nel 2010.
Nello Scavo è nato a Catania nel 1972. Giornalista del quotidiano «Avvenire», ha studiato presso il BBC College of Journalism di Londra. Si occupa di cronaca giudiziaria, criminalità e terrorismo internazionale. Ha scritto Di rata in rata. Viaggio nel paese strozzato dall’usura, edito da L’Ancora del Mediterraneo nel 2009.
L’Amazzonia non è un mondo altro, lontano ed esotico. È lo specchio del nostro. Ed è una questione di vita o di morte. Nostra, loro, di tutti.
Oro, petrolio, rame, legname, coltivazioni intensive. Le sfavillanti ricchezze dell’Amazzonia oggi sembrano assumere i colori tetri della sua rovina. Lo sfruttamento dei beni naturali in quell’area del pianeta causa una spoliazione drammatica delle sue risorse che interessa – letteralmente – tutto il mondo: ogni cinque bicchieri d’acqua che beviamo, uno viene dall’Amazzonia. Ma questa non è solo una questione ecologica: i drammi sociali generati da tale abuso selvaggio stanno sconvolgendo popolazioni indifese, lasciate in balia della legge del più forte. Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, giornaliste che non si rassegnano al sentito dire, hanno seguito il corso del Rio delle Amazzoni. E qui raccontano la terra amazzonica e i popoli che vi abitano tramite un prisma di situazioni-limite, ad esempio lo sfruttamento selvaggio delle miniere di rame nella Cordillera ecuadoriana e i traffici di legname che grondano sangue sulla Triple frontera tra Colombia, Brasile e Perù. Danno voce a chi resiste alla forza dell’agrobusiness in Brasile e prestano ascolto agli indios che rifiutano di abiurare al proprio stile di vita. Il racconto delle ferite dell’Amazzonia odierna, che troviamo in queste pagine, è illuminato dalle storie delle tante persone che ogni giorno lottano perché la bellezza di quella terra e la dignità di quelle genti restino vive e continuino a parlarci.
«I reportage di Lucia Capuzzi e Stefania Falasca con coraggio ci fanno entrare dentro ai progetti di colonizzazione dell’Amazzonia animati dallo spirito di dominio e di rapina: venire a sfruttare, per poi andarsene con le valigie piene» card. Cláudio Hummes
2 ottobre 1955: nasce "l'Espresso", settimanale finanziato da Adriano Olivetti. L'esordio è difficile. A poco più di un anno dalla sua nascita Olivetti ne cede le azioni, a titolo gratuito, al trentenne Carlo Caracciolo, fino a quel momento coinvolto solo nella gestione pubblicitaria della rivista. Colpo di fortuna o salto nel buio? È l'antefatto di una vocazione che, tra successi e delusioni, incontri felici e scontri tumultuosi, ha fatto di Carlo Caracciolo il presidente di una delle imprese editoriali italiane più ampie e ramificate e un testimone vivace e partecipe degli ultimi cinquant'anni della nostra vita culturale, politica e civile.