
Le crisi sono eventi o processi storici doppiamente decisivi. Perché impongono di decidere, appunto, nella consapevolezza che "il tempo stringe" e che, dalle proprie decisioni, dipenderà l'alternativa tra vita e morte, salvezza e catastrofe, pace e guerra. E perché, nella stessa misura in cui procurano uno strappo nel corso normale delle cose, le crisi mettono a nudo aspetti dell'ordine politico e del suo linguaggio che, in condizioni di routine, passano quasi sempre inosservati: le diseguaglianze di potere politico ed economico, il grado residuo di efficienza e legittimità delle istituzioni, l'inadeguatezza o il logoramento dei linguaggi a disposizione degli attori. Questa ambivalenza della crisi è sempre più pronunciata anche nell'attuale momento storico. Dietro l'urgenza dei singoli eventi critici (la crisi economico-finanziaria, le "primavere arabe", la guerra civile siriana, la crisi in Ucraina) si profila, infatti, una crisi più comprensiva di tutte le determinanti fondamentali dell'ordine internazionale, dal progetto eccezionalmente ambizioso di ordine concepito agli inizi degli anni novanta su iniziativa americana, alla legittimità delle istituzioni interne e internazionali che avrebbero dovuto sostenerlo, fino allo smottamento dello stesso ordinamento politico-giuridico in senso lato "moderno", edificato sulla duplice centralità dell'Occidente nel mondo e dello Stato in Occidente.
Nello scenario internazionale di oggi la pace è sempre più intrecciata con la violenza. Dalla guerra civile in Jugoslavia all'intervento della Nato in Kosovo, dagli attentati dell'11 settembre 2001 alle guerre in Afghanistan e in Iraq, la violenza si è rivelata una presenza costante nelle relazioni internazionali. Ma la sua vera particolarità è il fatto di sfuggire sempre più alle regole del passato, le quali prescrivevano che solo certi soggetti (gli stati) potessero ricorrere alla forza, che solo certi individui (i combattenti) potessero essere oggetto di violenza. Questa crisi delle regole, che aveva già profondamente segnato tutti i conflitti del Novecento, è esplosa definitivamente dopo la fine della guerra fredda.
La guerra in Ucraina e la rimilitarizzazione dei rapporti tra le potenze hanno rimesso al centro dell'attenzione il tema della sicurezza. Ma già dall'inizio del XXI secolo preoccupazioni analoghe erano state sollevate dagli attacchi dell'11 settembre 2001 e dalla conseguente guerra globale al terrore, poi dalla tempesta economica del 2007-2009, subito dopo dall'offensiva terroristica dell'Isis e infine dalla pandemia di Covid-19. Questo crescente senso di insicurezza basterebbe già a rivelare le tensioni che attraversano l'attuale contesto internazionale. Ma la sua intensità non si comprende se si dimentica che, nei quindici anni precedenti, l'Occidente si era convinto di essere avviato verso un futuro opposto, incarnato nel grande progetto del Nuovo Ordine Liberale. Oggetto del libro è il rapporto tra questa promessa liberale di sicurezza e la "frustrazione securitaria" subentrata una volta che la promessa si è rivelata irrealizzabile.
Dopo quasi quarant'anni dalla fine della Guerra fredda, la guerra è tornata dalla periferia al centro del sistema internazionale, costringendo l'Europa e il mondo a confrontarsi persino con il rischio di uno scontro diretto tra grandi potenze. Questo disincanto è il segno per eccellenza del collasso dell'ordine internazionale: un collasso che investe i rapporti diplomatici, le istituzioni internazionali, la globalizzazione economica e le norme fondamentali della convivenza internazionale - a cominciare da quelle sull'uso e sui limiti dell'uso della forza. Da qui, allora, l'urgenza di chiedersi come sia stato possibile ricadere in questa condizione, dopo le illusioni e l'euforia di soli trent'anni fa. Rinunciando come prima cosa a contrapporre una presunta età dell'oro dell'apertura e dell'ottimismo a una regressione nella chiusura e nel risentimento. E riconoscendo come, in realtà, la condizione attuale sia in larga parte figlia delle forzature, delle amnesie e dei veri e propri errori che l'ordine internazionale liberale ha accumulato già a partire dalla sua fondazione.
Dal 1990 a oggi un'ondata di guerre civili si è abbattuta su singoli paesi e intere aree regionali: la Jugoslavia all'indomani della fine della guerra fredda, la Somalia, l'Africa occidentale e la regione dei Grandi Laghi nei dieci anni immediatamente successivi, il Medio Oriente, l'Africa settentrionale e l'Ucraina nel periodo più vicino a noi. Questa proliferazione di guerre civili ha attirato l'attenzione di decisori politici, operatori umanitari, giornalisti e, naturalmente, studiosi. Ma, allo stesso tempo, li ha convinti sempre di più a vedere nella guerra civile un fenomeno marginale, confinato una volta per tutte fuori degli spazi 'centrali' del sistema internazionale e associato a qualche forma di arretratezza economica, politica o persino culturale. Allargando la prospettiva oltre l'ultimo trentennio, il libro rovescia questa immagine. È sufficiente attingere all'esperienza storica, infatti, per constatare che la guerra civile costituisce un'esperienza centrale nella storia europea (e italiana). Attorno a essa ruotano alcune delle determinanti fondamentali dell'ordine politico: l'edificazione e la successiva implosione della distinzione tra 'noi' e gli 'altri'; la conseguente separazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dall'unità politica e, quindi, tra politica 'interna' e politica 'estera'; la distinzione ancora più capitale tra violenza 'buona' e violenza 'cattiva', 'legittima' e 'illegittima', 'legale' e 'criminale'.
La morte di Moro sarebbe stata decisa sin dall'inizio del sequestro dello statista e niente avrebbe potuto evitarla, questa è la tesi di più ampia circolazione. Diversa invece l'argomentazione di Andrea Colombo che, analizzando il caos di quei 55 giorni di detenzione, ne rintraccia un filo conduttore. Il Pci temeva l'estremismo e la possibilità di un radicamento del terrorismo in una parte della sua base, la De la crisi di governo perché non si sentiva pronta a nuove elezioni; le Br pensavano che senza il clamore di quella violenza sarebbero scomparse. A condannare a morte Moro non furono né la ragion di Stato né le necessità rivoluzionarie, ci spiega Colombo, bensì la convenienza politica a breve termine, la meschina "logica di partito". La paura di perdere consenso e potere condizionò tutti: i partiti di governo, il Pci ma anche le Br, che un partito si consideravano e che come tale agirono. Il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro furono la conseguenza di un durissimo scontro a sinistra che nel 1978 durava già da dieci anni, e questa "guerra civile" a sinistra ha determinato sia la scelta omicida delle Br, una scelta che gli stessi brigatisti consideravano perdente, sia la rigidità del Pci che di fatto impose alla stessa Democrazia Cristiana la linea della fermezza. Lo scontro finale che si svolse a sinistra nei 55 giorni del sequestro Moro, si concluse senza vincitori.
Il disastro di Roma si è realizzato in tempi brevi: 10 anni. Addossare la responsabilità del collasso all'irruzione di soggetti criminali è un alibi comodo, che scarica la politica delle sue colpe. Lo sfascio si deve innanzitutto alla necessità di foraggiare la clientela, le correnti dei partiti, i potentati economici. Si è creata così una situazione di corruzione pervasiva, all'interno della quale hanno trovato posto anche le contaminazioni col mondo criminale. Ricostruire la vicenda della Capitale significa rimettere a fuoco il ruolo non della mafia ma della politica nel tracollo di Roma.
Una vita lunga un secolo. Italia. Romania. Israele. L'amore per un uomo. L'amore per un figlio. L'amore per un'utopia sociale e politica. L'amore per l'insegnamento. Il fascismo. L'antisemitismo. Le persecuzioni. Il comunismo sovietico. Anna Colombo, nata nel 1909 ad Alessandria da una famiglia ebrea piemontese, racconta una vita che incrocia drammaticamente la Storia e si rivela, pagina dopo pagina, l'esistenza di una donna che conserva, a ogni svolta del tempo e della sua educazione sentimentale, una impavida libertà e una smagliante autonomia di giudizio, una straordinaria volontà di imparare e una altrettanta radicata passione per l'insegnamento.

