
Sono stati molti gli scrittori in galera, finiti dentro a causa dei motivi più diversi - dalle rapine a mano armata all'assassinio della moglie (delitto, questo, molto diffuso tra i letterati, da Verlaine a Burroughs a Norman Mailer a Fallada). Addirittura tra galera e scrittura sembra correre una affinità: alcuni scrittori, come Jean Genet o Chester Himes, lo sono diventati dentro, altri, da Kleist a Giuseppe Berto, vi hanno potuto rinnovare ispirazioni e giustificazioni a creare, quasi tutti hanno trovato il modo di correggere la propria linea di scrittura. E come se dietro le sbarre i loro pensieri vietati trovassero nuove e più efficaci fantasie ("vi siete sbagliati - diceva Sade ai carcerieri -avete acceso la mia testa, mi avete spinto a creare fantasmi che dovrò realizzare"). Perché? Secondo quanto mostra l'autrice di questo erudito e divertente pellegrinare di cella di scrittore in cella di scrittore (in ordine cronologico, da quelle di Voltaire e Diderot, a quelle di Adriano Sofri e Goliarda Sapienza: e sono celle che coprono tutta la scala reclusoria, dalle galanti e libertine, tali quelle settecentesche, alle celle plumbee, quali quelle dei lager e dei gulag), è perché l'immaginazione, costretta, cresce e soprattutto cresce il desiderio. Le scrittrici, in particolare, confessano tutte che in carcere, affrancate dall'obbligo di accudire gli altri, sperimentano un'insolita forma di libertà: possono occuparsi di se stesse.
Questi saggi letterari sono stati scritti da Foucault tra il 1962 e il 1969, e quindi accompagnano tutto l'arco di tempo della sua produzione più importante. Se "Le parole e le cose" contengono il "sistema" di pensiero di Foucault sotto il profilo teorico più generale, gli "Scritti letterari" contengono l'esemplificazione realizzata di tale "sistema". "Le parole e le cose" e le altre opere sono ancora discorsi sulla follia, sulla merce, sulla società, sulla cultura e sulle opere: sono, per dirla con Foucault, "archeologia". Gli "Scritti letterari" sono essi pure discorsi sull'autore, sulla letteratura e sulle opere, cioè sono anch'essi "archeologia", ma con qualcosa in più: sono essi stessi opera letteraria.
Dagli scritti che delineano un nuovo modello dell'inconscio alle riflessioni sulla guerra e la pace, dai testi che definiscono la teoria dei codici affettivi alle considerazioni sul rapporto tra psicoanalisi e istituzioni, questa antologia consente di accostarsi a tutti gli aspetti più rilevanti del pensiero di Franco Fornari, lo psicoanalista che ha impresso maggiormente la sua impronta sulla cultura italiana. Le opere di Fornari descrivono un percorso coerente che, a partire da una rilettura di Freud e dall'originaria adesione al modello kleiniano, è progressivamente approdato a una innovativa teoria della simbolizzazione affettiva e della soggettività inconscia. Si tratta di contributi ancora oggi molto attuali, che descrivono la maturazione di un pensiero creativo capace di spaziare dalla psicoanalisi infantile alla teoria del linguaggio, dalla psicosomatica alla psicoanalisi delle istituzioni e della politica. Il volume ripercorre tutte le tappe teoriche che hanno portato Fornari a rifondare la pratica psicoterapeutica, a teorizzare il modello dell'analisi dei codici affettivi e a desacralizzare la posizione dello psicoanalista, in favore di una psicoanalisi autenticamente laica.
Più di un motivo fa di questa raccolta un vero e proprio strumento culturale. Innanzi tutto la scelta dei testi. Dai diciotto volumi delle opere complete di Carl Gustav Jung sono stati tratti quei saggi che, caratterizzati da felicità di scrittura e facilità di lettura, vanno a toccare, punto per punto, tutti i temi della psicologia analitica. Il curatore del libro è Joseph Campbell, studioso di miti e religioni, che della psicanalisi junghiana fu sottile conoscitore, acuto interprete e abile divulgatore.
Il dolore, la morte, il conflitto, il dominio, la sicurezza, la libertà ma anche il sesso, il gioco, il bar, il calcio, la pizza, il cretino, il niente sono tra i temi di questi "Scritti selvaggi". Se ne compone una filosofia del quotidiano ad altissima temperatura umorale emanata, come per esplosione atomica, dalla perenne belligeranza tra pensiero e vita. I due poli si attraggono e si erodono, si influenzano e si completano: "La vita - afferma il filosofo selvaggio - risale al pensiero e chiede di essere compresa e risanata. E il pensiero, una volta compiuta la sintesi, si rida in pasto alla belva che lo divora". In queste pagine vi è soprattutto un metodo, non convenzionale, di guardare ai fatti del mondo attraverso i registri del pamphlet o del diario in pubblico, dell'invettiva o dell'oracolo che ogni spirito libero può far proprio e applicare a se stesso. Un libro scorretto, vitale, antiaccademico, letterario, a volte anche sboccato (mai incivile), in cui si avverte il tono di grandi maestri, da Nietzsche ad Heidegger a Croce, o ci si imbatte, inaspettatamente, in Ennio Flaiano e Indro Montanelli, Totò e Franco Califano, Manlio Sgalambro e i Baustelle.
Sergio Cotta (1920-2007) è ampiamente noto, in sede nazionale e internazionale, per essere stato un'autorità nel campo della filosofia del diritto e della politica. Il costante richiamo a opere come "Il diritto nell'esistenza" e "I limiti della politica" ne attestano la significativa, persistente influenza sul dibattito scientifico-culturale. L'attenzione, e la sensibilità di matrice liberale, alla profondità della ricostruzione storica dei temi studiati è stata altrettanto rilevante, in tutta la sua sterminata produzione. Ne danno prova i 16 Scritti che qui vengono riproposti, dopo la pubblicazione di 22 Scritti di filosofia e religione (Rubbettino, 2019): elaborati con un rigore argomentativo e una grande chiarezza espositiva che li rendono accessibili anche a lettori non specialisti, questi testi offrono altresì uno spaccato significativo della fase di grandi cambiamenti che ha interessato, in particolare, la società italiana tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso, e non mancano di presentare originali riflessioni critiche, e proposte innovative, su tematiche di carattere istituzionale - l'università, la magistratura, l'assetto dei poteri in una repubblica parlamentare - come sulla dimensione globale assunta dai fenomeni della violenza e della guerra, nella prospettiva di una strutturazione giuridica dei processi di pace.
A un anno dall'improvvisa scomparsa del Professor Giuseppe Dalla Torre, non pochi hanno ripercorso i suoi prestigiosi incarichi nell'Università, nella comunità accademica italiana e internazionale, nella Curia romana e nello Stato della Città del Vaticano, e ne hanno ricordato le qualità intellettuali e umane nonché la sterminata produzione scientifica. C'è tuttavia un profilo della sua versatile personalità che forse è rimasto in ombra: quello legato alla sua attività giornalistica, invero assai protratta e fertilissima. Probabilmente a causa del pregiudizio per il quale scrivere sui giornali o interfacciarsi con i mass media, per l'approccio più semplice e divulgativo con cui le materie vengono affrontate, rientri in una sorta di dimessa 'arte minore' cui i docenti si dedicano a tempo perso: quasi un leggero diversivo rispetto alla più scrupolosa e severa stesura di testi rigorosamente scientifici. Per converso Giuseppe Dalla Torre, sin dalla giovinezza, mai ha disdegnato di applicarsi all'elaborazione di articoli giornalistici, in particolare per il quotidiano Avvenire: scendendo dalla cattedra universitaria e rivolgendosi con immediatezza al lettore della testata di ispirazione cattolica, per illustrare, con linearità logica e chiarezza concettuale, l'autentica sostanza dei problemi trattati in tutti i loro risvolti, specie giuridici, più controversi. Attraverso la lettura di questi articoli su argomenti quanto mai eterogenei - sintetici e quasi lapidari, come postulato dal genere letterario - emerge l'avvincente itinerario ultratrentennale della vivace militanza, nella compagine ecclesiale e nella società civile, di un giurista cattolico che non ha mai, anche nelle condizioni di più aspro scontro su differenti fronti, abdicato al suo munus - diremmo canonisticamente - genuinamente laicale di animazione cristiana delle realtà temporali, secondo il magistero più vivido del Vaticano II. Il volume, riproponendo molti di tali interventi e corredandoli di brevi analisi di suoi allievi, diretti e indiretti, auspica di dar conto di questo aspetto sinora poco indagato, e invece così pregnante, della sua opera.