
Le libertà liberali e i diritti politici democratici sono imprescindibili perché tutti siano considerati membri alla pari nella comunità politica in quanto condividono la condizione morale di essere persone.
«Perché ci dovrebbe importare che le nostre libertà siano eguali, quando magari qualcuno non ne fa uso e le baratterebbe volentieri con più benessere, se non il fatto che il disconoscimento di un eguale spazio di libertà per tutti implicherebbe una minor considerazione e rispetto per alcuni? E perché dovremmo tenere all’eguale partecipazione alla vita politica, quando sappiamo che il nostro voto non fa la differenza, se non il fatto che la mancanza dei diritti politici per qualche gruppo ne afferma implicitamente la condizione di minorità e disparità, in una parola di sottomissione? La ragione per cui le libertà liberali e i diritti politici democratici siano imprescindibili, al di là delle effettive opportunità di vita offerte ai singoli, sta proprio nel loro essere segno che tutti e chiunque sono trattati e considerati membri alla pari nella comunità politica».
Il principio politico dell’eguale rispetto afferma che gli appartenenti alla comunità politica devono essere considerati e trattati da pari perché condividono la condizione – morale – di essere persone, degne in quanto tali di essere rispettate. Un concetto che, da una parte, ha un ruolo fondante nei confronti della legittimità liberaldemocratica e, dall’altra, comporta oneri precisi relativi alle scelte e alle azioni politiche che regolano la vita e la convivenza delle democrazie contemporanee.
Indice
Ringraziamenti - Introduzione - I. L’eguaglianza di rispetto e i fondamenti dell’ordine liberaldemocratico - II. Il rispetto come riconoscimento - III. La politica del rispetto - Conclusioni. L’irrinunciabilità del rispetto eguale per le persone - Cos’altro leggere - Bibliografia - L’autrice
Picchetti, case dell'ospitalità, file per la zuppa: così Dorothy Day (1897-1980) - giornalista, ragazza-madre, attivista, anarchica e pacifista - si è presa cura degli scartati d'America, di quelli che vivono ai margini estremi, di senza fissa dimora inavvicinabili per il loro odore, di madri che perdono il senno vedendo i figli morire di fame, di disoccupati annichiliti che arrivano brandendo coltelli. Per evitare di addomesticare una figura complessa e incredibile, Giulia Galeotti ritrae Dorothy Day in una biografia che è tante cose insieme: un viaggio nella letteratura e nella storia del Novecento (dal Village degli anni Dieci alla morte di papa Luciani, passando per la Grande depressione, Hiroshima, Cuba e il Vietnam), un trattato di sociologia, uno studio sui molti tipi di pidocchi umani, un poema di vangelo incarnato, un'inedita guida di New York e una storia del difficile rapporto tra una madre e sua figlia. Donna dalla vita avventurosa, scomoda, difficile e di un'attualità sconcertante (tra disuguaglianze, non-violenza, maternità e aborto, ecologia e difficile legame con la Chiesa) Day non solo ha accolto gli ultimi, ma ha vissuto nelle stesse case, mangiato alla stessa tavola, usato gli stessi bagni, vestito gli stessi abiti. Perché alla domanda «sono forse io il custode di mio fratello?», Dorothy Day ha risposto sì.
Il volume propone una ricostruzione delle dinamiche psichiche che caratterizzano lo sviluppo umano. Riprendendo argomentazioni ormai classiche della ricerca psicoanalitica, il volume propone una ricostruzione delle dinamiche psichiche che caratterizzano lo sviluppo umano nel suo essere al centro di una trama di investimenti determinati da desideri, conflitti soggettivi, rimozioni, inibizioni, sovrainvestimenti. Ne è derivato un percorso che, partendo dalle ipotesi freudiane, si sviluppa seguendo essenzialmente le indicazioni di quattro guide": Winnicott, Lacan, Laplanche, Aulagnier. "
Arriva un momento in cui si è convinti che non ci sia più bisogno di imparare. Ma basta un attimo per capire che le nostre sicurezze, spesso, sono solo un modo per far tacere la paura. Perché vivere intensamente è questo che fa: paura. E sono proprio i giovani a metterci davanti agli occhi una simile verità. Sono loro a rendere chiaro e lampante ciò che nella vita si è sempre saputo, ma non si sapeva di sapere. O ci si rifiutava di sapere. Capitolo dopo capitolo, Enrico Galiano ci porta a scuola di felicità. Una scuola in cui le lezioni sono piccole e grandi allo stesso tempo - sull'amore, il coraggio, la libertà - e impartite non da chi siede dietro la cattedra, ma dai ragazzi stessi. Scopriremo così che hanno ragione loro, quando ridono fino alle lacrime mentre gli adulti li osservano seri. Hanno ragione, quando amano fino a stare male mentre gli adulti li guardano con un sorriso accondiscendente. Hanno ragione, quando cadono, quando non capiscono, quando tartassano di domande finché ottengono una risposta chiara. Quando si arrabbiano perché non si sentono ascoltati. Grazie ai ragazzi, ci si rende conto che, per quanta strada si sia fatta, per quanta esperienza si sia accumulata, si è sempre eterni ripetenti. Eterni ripetenti alla scuola della felicità. Dopo "L'arte di sbagliare alla grande", Enrico Galiano torna con un saggio che è come una giornata di sole dopo mesi di pioggia. Ci fa entrare nella sua classe ad ascoltare le voci e le storie di ragazze e ragazzi, e ci trasmette un'inaspettata leggerezza: leggendo queste pagine, nasce, spontanea, una voglia improvvisa di cominciare a vivere davvero.
«È molto più importante insegnare a rialzarsi che a non cadere mai; insegnare a essere veri invece che perfetti.» Qualcuno ha detto che nella nostra vita non commettiamo tanti errori ma sempre lo stesso, ripetuto infinite volte. Perché i nostri sbagli raccontano di noi molto più di quanto non crediamo: della nostra storia, di come eravamo, di cosa siamo diventati. Eppure, soprattutto quando si è ragazzi - a scuola, in casa, persino con gli amici - sbagliare è diventato un tabù. Enrico Galiano, con sincerità e coraggio, ha deciso per la prima volta di sfatare il mito della perfezione e svelare tutti i suoi errori e le scelte azzardate. Da quelli apparentemente più piccoli, come quando ha buttato via l'occasione di uscire con la ragazza dei suoi sogni, a quelli più terribili, come quella notte in cui per poco non è stato arrestato; i brutti voti presi, quelli dati, gli sbagli perdonabili e imperdonabili, e come tutto questo l'abbia reso l'uomo che è oggi. Perché non c'è dubbio: sbagliare può causare ferite che impiegano anni a rimarginarsi e può lasciare segni indelebili nella nostra anima. Ma è necessario per capire chi siamo, per vivere una vita piena, per trovare davvero la nostra strada. Enrico Galiano è uno dei professori più letti e amati d'Italia. Con la sua straordinaria sensibilità, e grazie a una presenza online di successo, è in grado di dare voce ai sogni e alle aspettative degli adolescenti di oggi come nessun altro. E con questo libro offre sia ai ragazzi sia a tutti coloro - genitori, educatori, insegnanti - che hanno a cuore il loro futuro la rinnovata consapevolezza che ogni errore altro non è che una tappa di quell'avventurosa e appassionante ricerca di sé stessi che è la vita. Ricordandoci che, se si vuole davvero crescere, allora occorre soprattutto imparare a sbagliare.
Matteo Renzi ha cambiato la politica italiana: in meno di cinque anni ha rottamato la vecchia classe dirigente della sinistra e conquistato il Governo del Paese. Il metodo Renzi è caratterizzato da comunicazione pop, linguaggio ad alto tasso emotivo, immagine di politico "normale" alimentata a colpi di selfie, retorica da sindaco anticasta, stile obamiano, leadership carismatica. I contributi qui raccolti sono tasselli preziosi che aiutano a comporre il mosaico del "renzismo", restituendo a trecentosessanta gradi, tra pregi e limiti, meriti e zone opache, la figura del premier boy scout.
Secondo un'antica leggenda poco prima di morire, a Caracalla, angosciato da visioni spaventose, comparve in sogno Settimio Severo armato di spada, che gli rivolgeva parole minacciose: «Come tu hai ucciso tuo fratello, io ucciderò te!». Per la tradizione infatti Caracalla è un assassino tormentato da apparizioni angosciose legate ai suoi crimini. Del resto la fama di sanguinario se l'era conquistata sul campo, in particolare durante la repressione dei moti di Alessandria nella primavera del 216. Il primo atto del suo regno fu il fratricidio e ciò non poteva non funestarlo, anche nel profondo. L'imperatore infatti aveva ritenuto intollerabile che il fratello potesse pensare di prendere il suo posto o che insidiasse il suo primato. Tuttavia proprio in seguito al fratricidio prese avvio la grande iniziativa che lo riabilitò: l'estensione della cittadinanza romana a (quasi) tutti gli abitanti dell'impero, oltre i confini di Roma. Seguì la costruzione delle terme, tra le più imponenti e sfarzose di tutti i tempi; le guerre in Occidente (contro i Germani) e in Oriente (contro i Parti), a onor del vero di non grande rilievo, ma lo schiacciante confronto con il padre lo mortificava. Calvo, di bassa statura, ma dotato di un fisico possente, univa doti straordinarie a un temperamento sanguigno e poco incline al compromesso. Nonostante il suo temperamento gli avesse attirato l'odio del senato, Caracalla godette di una grande popolarità: fu amato soprattutto dai soldati, legionari e pretoriani, con i quali si dimostrò sempre molto generoso, ma anche dalla plebs, come mostra il successo delle terme. Ecco perché - anche per la pochezza del suo successore - alla sua morte fu divinizzato e rimpianto.
L'uomo soffre per "l'insensatezza" del suo lavoro, per il suo sentirsi "soltanto un mezzo" "nell'universo dei mezzi", senza che all'orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento. Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali, per i processi di simbolizzazione sono inefficaci. Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, la filosofia si è applicata alla ricerca di senso.
In breve
Culto della giovinezza, idolatria dell’intelligenza, ossessione della crescita economica, tirannia della moda: sono alcuni dei miti di oggi che Umberto Galimberti passa in rassegna per smontarli e denunciarne la natura ingannevole, mostrando come i falsi miti del mondo in cui viviamo siano in realtà “idee malate”, non avvertite come tali, e quindi tanto più capaci di diffondere i loro effetti nefasti senza trovare la minima resistenza.
Il libro
“Chi non ha il coraggio di aprirsi alla crisi, rinunciando alle idee-mito che finora hanno diretto la sua vita, si espone a quella inquietudine propria di chi più non capisce, più non si orienta.”
Giovinezza e intelligenza, felicità e amore materno. E poi moda e tecnica, sicurezza e potere, e ancora mercato, crescita economica, nuove tecnologie... Sono i miti del nostro tempo, le idee che più di altre ci pervadono e ci plasmano come individui e come società. Quelle che la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa propongono come valori e impongono come pratiche sociali, fornendo loro un linguaggio che le rende appetibili e desiderabili.
I miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel profondo della nostra anima. Sono idee che noi abbiamo mitizzato perché non danno problemi, facilitano il giudizio, in una parola ci rassicurano. Eppure occorre risvegliarsi dalla quiete apparente delle nostre idee mitizzate, perché molte sofferenze, molti disturbi, molti malesseri nascono proprio dalle idee che, comodamente accovacciate nella pigrizia del nostro pensiero, non ci consentono più di comprendere il mondo in cui viviamo. Per recuperare la nostra presenza al mondo dobbiamo allora rivisitare i nostri miti, sia quelli individuali sia quelli collettivi, dobbiamo sottoporli al vaglio della critica, perché i nostri problemi sono dentro la nostra vita, e la nostra vita vuole che si curino le idee con cui la interpretiamo.
Nel 2007 Umberto Galimberti ha pubblicato un libro, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, in cui descriveva il disagio giovanile da imputare, a suo parere, non tanto alle crisi psicologiche a sfondo esistenziale che caratterizzano l’adolescenza e la giovinezza, quanto a una crisi da lui definita “culturale”, perché il futuro che la cultura di allora prospettava ai giovani non era una promessa, ma qualcosa di imprevedibile, incapace di retroagire come motivazione a sostegno del proprio impegno nella vita.
A distanza di anni cos’è cambiato di quell’atmosfera che Galimberti aveva definito “nichilista”? Non granché, fatta eccezione per una percentuale forse non piccola di giovani che sono passati dal nichilismo passivo della rassegnazione al nichilismo attivo di chi non misconosce e non rimuove l’atmosfera pesante del nichilismo senza scopo e senza perché, ma non si rassegna. E dopo un confronto serrato con la realtà, si promuove in tutte le direzioni, nel tentativo molto determinato di non spegnere i propri sogni.
La parola ai giovani raccoglie la voce di questi giovani, che hanno un gran bisogno di essere ascoltati per poter dire quelle cose che tacciono ai genitori e agli insegnanti, perché temono di conoscere già le risposte, che avvertono lontane dalle loro inquietudini, dalle loro ansie e dai loro problemi. E allora si affidano a un ascoltatore lontano, che prende a dialogare con loro, non per risolvere i loro problemi, ma per offrire un altro punto di vista che li faccia apparire meno drammatici e insolubili.
“Al nichilismo passivo della rassegnazione, non sono pochi i giovani che sostituiscono il nichilismo attivo di chi, prendendo le mosse proprio da quel desolante scenario, e non da consolanti speranze o inutili attese, inventa il proprio futuro.”
L'uomo soffre per "l'insensatezza" del suo lavoro, per il suo sentirsi "soltanto un mezzo" "nell'universo dei mezzi", senza che all'orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento. Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali, per i processi di simbolizzazione sono inefficaci. Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, la filosofia si è applicata alla ricerca di senso.