
Giuseppe Casarrubea ricostruisce il pensiero e l'azione di Danilo Dolci, poeta, educatore e attivista non-violento, protagonista originale e fuori dagli schemi della vita culturale e sociale del Novecento italiano. "Piantare uomini" segue il percorso biografico di Dolci, dall'infanzia al confine tra Italia e Slovenia, alla difficile educazione etica e politica durante il regime fascista, fino agli anni siciliani, in cui si consolidano le forme di lotta non-violenta e l'impegno in campo civile e educativo. Basandosi sull'intensa frequentazione personale di Dolci, Casarrubea ne racconta i tratti umani e personali, legandoli alla complessa situazione politica e sociale sviluppatasi in Italia e soprattutto in Sicilia a partire dagli anni Sessanta. In questa prospettiva, la storia dell'impegno umano e formativo di Dolci diventa il ritratto di una nazione che, recuperando la memoria di alcune esperienze del suo recente passato, può tornare ad essere qualcosa di diverso e migliore da quello che oggi ci appare. Il testo è arricchito da una serie di documenti storici e letterari, alcuni pubblicati qui per la prima volta.
Chi scrive, produce, vende, legge e fa leggere libri oggi si pone mille domande: l'accelerazione tecnologica sta rendendo obsoleto il libro di carta? Uccide l'idea stessa di libro? E cosa accade nella scuola? Ad esempio, bisogna far acquistare alla propria scuola un tablet per ogni alunno? Le discussioni sono concitate, intervengono ministri affrettati e coloni digitali zelanti pronti a sostenere qualsiasi novità tecnologica. Fioccano le immagini di una nuova generazione a suo agio con lo schermo tattile e l'indice sfiorante, che se pur sarà refrattaria alla lettura avrebbe nuove competenze digitali, tra le quali la capacità di navigare distribuendo l'attenzione su molti schermi. Questo libro sostiene alcune tesi controverse (ma anche di buon senso): che i cosiddetti nativi digitali non esistono e che se veramente esistessero la scuola farebbe meglio ad aiutarli a guardare fuori degli schermi; che non c'è un sostituto elettronico dell'insegnante; e soprattutto che il libro di carta sarà pure a rischio commerciale a causa del suo cugino elettronico, ma è assolutamente insostituibile dal punto di vista cognitivo, perché protegge e non aggredisce la nostra risorsa mentale più preziosa: l'attenzione.
Chi scrive, produce, vende, legge e fa leggere libri oggi si pone mille domande: l'accelerazione tecnologica sta rendendo obsoleto il libro di carta? Uccide l'idea stessa di libro? E cosa accade nella scuola? Ad esempio, bisogna far acquistare alla propria scuola un tablet per ogni alunno? Le discussioni sono concitate, intervengono ministri affrettati e coloni digitali zelanti pronti a sostenere qualsiasi novità tecnologica. Fioccano le immagini di una nuova generazione a suo agio con lo schermo tattile e l'indice sfiorante, che se pur sarà refrattaria alla lettura avrebbe nuove competenze digitali, tra le quali la capacità di navigare distribuendo l'attenzione su molti schermi. Questo libro sostiene alcune tesi controverse (ma anche di buon senso): che i cosiddetti nativi digitali non esistono e che se veramente esistessero la scuola farebbe meglio ad aiutarli a guardare fuori degli schermi; che non c'è un sostituto elettronico dell'insegnante; e soprattutto che il libro di carta sarà pure a rischio commerciale a causa del suo cugino elettronico, ma è assolutamente insostituibile dal punto di vista cognitivo, perché protegge e non aggredisce la nostra risorsa mentale più preziosa: l'attenzione.
L'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù nasce da un regalo. Quello di quattro bambini che, il 25 febbraio 1869, donano alla madre, per il suo compleanno, il loro dindarolo, il salvadanaio nel quale custodiscono i propri risparmi. Vogliono esaudire un suo desiderio: dare un ricovero ai piccoli malati di Roma che non possono permettersi cure adeguate. La donna è la duchessa Arabella Fitz-James Salviati, e il tenero gesto dei suoi figli è il seme che farà fiorire l'iniziativa della famiglia: il 19 marzo dello stesso anno apre a Roma il più antico ospedale pediatrico d'Italia. La prima sede è in una semplice stanza al numero 12 di via delle Zoccolette, sulla sponda sinistra del Tevere; la cura dei bimbi è affidata a due soli medici e la gestione dell'accoglienza alle suore Figlie della Carità di San Vincenzo de' Paoli. Circa vent'anni più tardi l'ospedale si trasferisce al Gianicolo, occupando parte del convento di Sant'Onofrio, e nel 1924 è donato al papa per dare continuità e stabilità a una struttura diventata nel frattempo ampia e importante. Ma la storia dell'ospedale non si limita ai rapporti tra benefattori, medici, pazienti e Chiesa; essa si intreccia infatti con quella del nostro Paese - i primi anni dell'Unità d'Italia, i Patti lateranensi, le due guerre mondiali - e con l'evolversi della medicina: la trasformazione della pediatria, la riforma del Servizio sanitario nazionale, l'internazionalizzazione della comunità scientifica, l'umanizzazione delle cure Oggi la comunità del Bambino Gesù guarda al domani come ospedale dei figli del mondo, coniugando ricerca scientifica e assistenza sanitaria con l'attenzione alla persona e l'impegno nella cooperazione internazionale. Grazie al racconto accurato e coinvolgente di Andrea Casavecchia, questo volume ci porta dunque alla scoperta di una delle eccellenze assolute del nostro Paese, la cui vicenda ci parla della nostra storia e ci proietta al contempo nel futuro.
Una sollecitazione a prendere coscienza delle ragioni delle attuali derive della vita sociale e politica ma anche della predisposizione di percorsi di fuoriuscita che aprono alla speranza nella possibilità di cambiamento.Una vasta panoramica delle questioni di fondo che attengono alla conduzione della vita associata, ricostruendo l'evoluzione che esse hanno avuto nel corso del tempo e suggerendo interessanti piste operative per dare ad esse una soluzione adeguata. Si tratta di risalire ai fondamenti valoriali che stanno da sempre alla base della convivenza civile per renderne attuale il messaggio.
Alla fine degli anni '90 il giovane magistrato Francesco Cascini viene assegnato alla Procura di Locri: è il suo primo incarico dopo la nomina, l'ultimo posto disponibile nella graduatoria. Spaventato e pieno di dubbi, ma anche determinato e carico di buone intenzioni, si ritrova a dover applicare la legge in un territorio controllato dalla 'ndrangheta. Frustrazione e insuccessi fanno venir voglia di andarsene prima possibile, ma il crescente amore per quella terra e la sua gente e il senso stesso della missione di magistrato impongono di rimanere, e provare ancora.
Questo racconto è il ritratto di un Paese pieno di paradossi. Nei territori piú delicati e complessi i magistrati sono sempre «di passaggio», e far entrare i fenomeni illegali nei binari di un processo per perseguire reati e responsabilità è spesso un'impresa eroica, talvolta considerata folle o sciocca dagli stessi colleghi. A Locri un giudice sembra destinato a perdere. Ma lo sguardo di Cascini su questo mondo feroce e contraddittorio è anche lo sguardo di chi crede che la legge sia ancora l'unico, necessario spiraglio.
«Avevo fallito, avevo perso. Ma erano passati già diciotto mesi e mi stavo abituando ai fucili caricati a pallettoni, all'odore dei morti, alle autopsie, al Vicks, a rincorrere la verità. Soprattutto, mi stavo abituando a perdere».
Le sentenze parlano chiaro: un ambiente politico largamente inquinato, settori della società civile degradati, amministratori fortemente collusi, esercenti condizionati, una presenza accentuata di malavitosi. In questo contesto la parrocchia palermitana di Brancaccio era diventata una nicchia di legalità mal sopportata dalla mafia. In quel contesto padre Pino Puglisi si era trovato a vivere. Qui aveva portato la sua chiesa in prima linea nella promozione umana, ma il suo impegno ha sfidato la mafia, che non ha esitato a ucciderlo barbaramente.
Se la cultura è capacità di ricordare, di non dimenticare, di rendere durevole nel tempo ciò che è caduco nella parola, di far rivivere il passato evocandolo e descrivendolo con amore, questa è dunque la funzione che spetta a questa raccolta di proverbi e di antichi detti di Roma, tramandati di bocca in bocca sino a oggi. Detti e proverbi che, strappati a una tradizione orale che va ormai scomparendo e raccolti in volume, assumono tutta l'importanza di un diario popolare, nel quale una mano invisibile è venuta annotando fatti, costumi, esperienze, incontri, personaggi e leggende di una città che da venti secoli è l'ombelico del mondo. Ma soprattutto emerge quella precisa filosofia di vita della plebe romana che si è sempre contentata di godere delle piccole gioie quotidiane, testimone indifferente (e impotente) delle lotte di potere e di possesso che avevano e hanno Roma come teatro. Così in queste pagine dominano il fluire delle stagioni storiche, l'umanità dei personaggi e la bellezza dei luoghi, in una cinica luce di taglio che investe ogni vicolo, ogni cupola, ogni palazzo, ogni finestra.
Cosa significa essere Italiani oggi? Quale è la vera identità nazionale di un popolo che spesso si denigra? Quale è il nostro Spirito? Chi siamo noi Italiani?
Il libro fornisce risposte basate su molti dati statistici inconfutabili e sulle analisi di 21 prestigiosi ed autorevoli studiosi, che sono stati intervistati. Il volume lascia sorpresi ed orgogliosi, intende essere un “manualetto di italianità”, fa scoprire molto dell’animo italiano, rifiuta il nazionalismo ma induce all’orgoglio nazionale.
Gli Italiani hanno un DNA di stampo realistico e pertanto sono flessibili; hanno un carattere comunicativo. La nostra Nazione ha una congenita sintonia con la Bellezza, per questo ha potuto creare tante opere d’arte.
Il volume espone i molti oggettivi dati di fatto che dovrebbero imporci di essere fieri dell’italianità; presenta l’Italia come non l’avete mai vista, opposta agli stereotipi correnti. Punta il faro sulla nostra attuale identità. Mentre quasi tutti sottolineano solo i problemi del Paese, questo libro sfida i luoghi comuni e mette in luce quel tanto che c’è di buono in Italia e nel nostro essere Italiani.
L’autore rivolge un invito: gli Italiani compiano il Miracolo Spirituale di credere in sé e costruiscano un nuovo Rinascimento italiano.
Tutti i popoli hanno virtù e difetti; anche il popolo italiano ha difetti; il principale consiste nel fatto che ignora il proprio grande valore.
Il libro potrebbe interessare in primis studenti del triennio finale di scuole secondarie di II grado ed i loro docenti, in particolare quelli di storia e filosofia.
Il 21 dicembre 2012 è ormai visto come un’ineluttabile scadenza, come una data di non ritorno. C’è chi paventa la fine del mondo, chi invece parla di una nuova era; c’è chi predice la fine della vita sulla terra a causa di una catastrofe ambientale e chi invece preconizza una terza guerra mondiale che annienterà l’umanità.
Tra i mille profeti di sventura, gli autori di questo libro sono una voce fuori del coro che mette in guardia dai falsi allarmismi, indicando la prospettiva corretta nella quale collocare i “segni dei tempi” che sono sotto gli occhi di tutti e che fanno presagire un imminente cambiamento. Si tratta anzitutto di capire che quello della fine del mondo è un argomento vecchio quanto il mondo stesso, una tesi che periodicamente ritorna e che non ha alcuna seria conferma scientifica. Tale ricorrente predizione è anzi sintomo di quel catastrofismo che è la vera malattia del terzo millennio, una fobia diffusa ad arte da chi detiene il potere dell’informazione per creare smarrimento e nichilismo.
L’antidoto è il ritorno all’esperienza cristiana, l’unico avvenimento religioso nella storia che permette di guardare alla realtà in tutti i suoi fattori e di affrontarla con uno sguardo positivo. L’unica esperienza in cui la certezza e l’attesa della fine dei tempi illumina il futuro dell’umanità di una nuova speranza ed esalta la responsabilità degli uomini a lavorare per costruire un mondo migliore, più degno dell’uomo.