
Il fondo archivistico "Pietro Ingrao", "Carte CRS", consistente in 930 fascicoli e 112 faldoni, è diviso in quattro serie: A (Corrispondenze), B (Scritti e discorsi), C (Atti e materiali) e D (Foto). Le carte sono quelle raccolte presso gli uffici del Centro di studi e iniziative per la Riforma dello Stato e coprono un arco cronologico che va dal 1930 ai giorni nostri. La maggior parte riguarda però il periodo tra la metà degli anni Settanta e gli anni Novanta: gli anni della presidenza di Ingrao al CRS, seppur con il noto intervallo istituzionale del 1976-79. La mappatura dell'Archivio fornisce utili indicazioni per approfondire l'analisi della storia politico-istituzionale dell'Italia repubblicana.
"Ho scritto la biografia di un bandito vissuto nel XVI secolo, il duca di Montemarciano Alfonso Piccolomini, inquadrata nel periodo storico in cui visse. Su questo turbolento e affascinante personaggio che finì giustiziato a Firenze per ordine del granduca Ferdinando I dei Medici, ho compiuto una vasta ricerca su fonti documentarie inedite, da cui a suo tempo trassi un breve saggio pubblicato sulla rivista "Ricerche Storiche" intitolato "Alfonso Piccolomini, duca e bandito del secolo XVI". Mai come alla fine del Cinquecento il fenomeno del banditismo assunse proporzioni così imponenti da spaventare il Papato, la Spagna e il Granducato di Toscana e da divenire strumento di ricatto nella politica internazionale. Evidentemente una sorta di rivoluzione parallela allo smantellamento della società di stampo medioevale si manifestava nelle sedi del potere. L'aristocrazia prendeva il posto dei cavalieri e degli ecclesiastici che avevano dominato per secoli, ma la politica accentratrice dei pontefici, che si accentuò sotto il pontificato di Gregorio XIII, inevitabilmente avrebbe determinato un nuovo sistema sociale, nel quale i feudatari avrebbero perso molte delle loro prerogative. Così in quest'epoca di mutamenti tra i banditi non c'erano soltanto contadini, braccianti, delinquenti comuni, per i quali il banditismo si presentava come l'unica alternativa alla sopravvivenza, ma anche esponenti della classe feudale in rivolta contro l'autorità sempre più pressante dei papi. Il più autorevole e temibile bandito dello Stato Pontificio e dell'intera Italia fu appunto un nobile, il duca di Montemarciano Alfonso Piccolomini, discendente di papa Pio II Piccolomini. Nella sua breve e tumultuosa esistenza difese strenuamente i suoi diritti e le sue prerogative cosicché a ragione si può considerare una sorta di "ultimo feudatario" di un mondo destinato a scomparire sotto l'avanzata dell' accentramento dell'autorità statale."
Si tratta di un piccolo spaccato di storia "vera" che aiuta a capire come nella vita di ognuno possa avvenire un repentino mutamento del destino da capovolgere il percorso di un'intera esistenza. La vicenda di Santi di Cascese colpì molto l'immaginazione dell'epoca e forse potrebbe colpire anche oggi la fantasia dei giovani e meno giovani. Santi di Cascese era nato a Poppi e stava imparando l'arte della lana a Firenze presso la corporazione dei lanaioli sotto la tutela dello zio Antonio, essendo rimasto orfano, quando, inaspettatamente, gli fu comunicato dalla delegazione giunta da Bologna che non era figlio di Agnolo di Cascese, bensì figlio illegittimo di Ercole Bentivoglio. Santi aveva circa 21 anni. Con istanza ufficiale i bolognesi gli chiesero di assumere il comando di Bologna per preservare dalla fine la famiglia Bentivoglio, minacciata dalla fazione avversa dei Canetoli. I cronisti dell'epoca riferiscono che Santi "molto se ne meravigliò" e cadde in preda a una notevole agitazione. L'incontro con il grande Cosimo de' Medici che aveva allora la più alta autorità su Firenze, fu decisivo. Lo racconta Niccolò Machiavelli...
Mai come alla fine del '500 il fenomeno del banditismo assunse proporzioni così imponenti da contrapporsi al Papato, alla Spagna e al Granducato di Toscana e da divenire strumento di ricatto nella politica internazionale. In questi tempi di inevitabili spietatezze, spicca la figura di Alfonso Piccolomini, duca di altissimo lignaggio, pronipote del coltissimo Papa Pio II. Questo libro narra la vicenda umana, sentimentale e pubblica del Piccolomini, il quale si trasformò in un protagonista temibile e implacabile di una lotta senza quartiere; un eroe da romanzo di cappa e spada, amato dal popolo e temuto dal granduca di Toscana, Francesco I de' Medici. Un libro che narra di amicizie tradite, di alleanze improbabili e di segreti inconfessabili. Quante sincere menzogne si possono annidare nell'animo umano?
Lo sviluppo e la diffusione delle intelligenze artificiali sollevano nuovi problemi di natura etica. Che cosa accade, infatti, quando non sono gli uomini, ma le macchine a decidere? L’autore, noto a livello internazionale nell’ambito della bioetica e del dibattito sul rapporto tra teologia, bioingegneria e neuroscienze, guarda con favore alla diffusione delle «macchine sapienti» e ragiona sul fatto che i processi innovativi hanno valenza positiva solo se orientati a un progresso autenticamente umano che si concretizzi in un sincero impegno morale dei singoli e delle istituzioni nella ricerca del bene comune.
Sommario
Una premessa. 1. Guardare le stelle. 2. Cosa significa essere umani? 3. Primo interludio. Una mappa può essere una copia esatta della realtà? 4. Secondo interludio. Macchine emotivo-razionali. 5. Un codice etico per le intelligenze artificiali. 6. Verso una governante delle intelligenze artificiali. 7. Conclusioni.
S
Note sull'autore
Paolo Benanti specializzato in Bioetica e nel rapporto tra Teologia morale, Bioingegneria e Neuroscienze, è docente alla Pontificia Università Gregoriana. Collabora con l’American Journal of Bioethics – Neuroscience ed è membro dello staff editoriale di Synesis.
Nella spasmodica ricerca di contenere il dilagare della pandemia, sempre più nazioni, inclusa l'Italia, hanno approvato decreti emergenziali volti a ridurre il più possibile i contatti sociali dei cittadini. A marzo del 2020, nel picco della pandemia, si tratta di quattro persone su dieci, in pratica il 43% della popolazione della Terra. Se la speranza, per molti, è quella di un rapido ritorno alla normalità, è lecito chiedersi: come sarà il "dopo"? Il Sars-Cov-2 potrebbe condurre a due ambivalenti e possibili scenari futuri: l'uomo vivrà una fase di benessere, pace e serenità che si configuri come post-bellica, post-patologica o post-povertà oppure si arriverà a una soglia in cui il post- collassa nel significato di dis-, creando un contesto dis-umano che nega ogni forma di valore condiviso e di comunione sociale. Fare i conti con questa ambiguità rivela l'esigenza di pensare come e cosa fare per uscire dal presente ed essere ancora umani nel futuro.
Se il migliore scenario possibile, per molti, è un rapido ritorno alla normalità dopo la lunga parentesi del Covid-19, è lecito chiedersi come sarà questa normalità. Il "domani" è da virgolettare, perché non si tratta solo di individuare l'orizzonte che segnerà la fine dell'emergenza: avremo una fase di benessere, pace serenità, più simile a una situazione post-bellica, e perché non post-patologica, di post-povertà? Oppure tutti questi post- potranno collassare in un dis-, un contesto dis-umano arido di valori condivisi e comunione sociale?
Il Digital Age è una nuova epoca nella storia dell'uomo: a causa del potere della tecnologia sta davvero cambiando tutto ed è bene comprendere quanto ci sta trasformando. Questo testo descrive: 1. il cambiamento avvenuto e ancora in corso; 2. le caratteristiche della cultura contemporanea; 3. le nuove coordinate esistenziali - e le sfide aperte - che la nuova epoca ci suggerisce, in primo luogo a proposito delle nostre relazioni fondamentali. Nella prima parte l'autore delinea la teoria del cambio d'epoca: in che mondo viviamo? Quali i suoi strumenti? Quali i suoi linguaggi? Quale la nuova cultura che preme sulle nostre tradizioni e abitudini e ci costringe a cambiarle profondamente? Chi è l'uomo nuovo del Digital Age? Nella seconda parte si affrontano alcune questioni decisive: i nuovi valori, il rapporto tra la tecnologia e la qualità della vita, le caratteristiche della cultura pop di oggi, i giovani e la famiglia ecc. Al termine di ogni capitolo della seconda parte, l'autore sintetizza e raccoglie le sfide che maggiormente emergono nell'ambito del vivere concreto che il capitolo stesso analizza.
Il linguaggio non è uno strumento: è una condizione in cui abitiamo e viviamo senza nemmeno accorgercene. Pensiamo a un piccolo aneddoto raccontato dallo scrittore David Foster Wallace: «Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: Salve ragazzi, com'è l'acqua? E i due giovani pesci continuano a nuotare per un po' e alla fine uno di loro guarda l'altro e fa: che diavolo è l'acqua?». Il linguaggio è come molti aspetti del vivere quotidiano: proprio perché presenti da sempre sullo sfondo dell'esistenza, ci sono sconosciuti, diventano pressoché invisibili. Un libro che spiega al lettore la "tecnologia del linguaggio" e il linguaggio come tecnologia, cioè un'abilità e un'abitudine che è di tutti noi e che è sorprendete analizzare: a cosa serve? Come è nato? Perché lo abbiamo sviluppato in un certo modo? Qual è il suo futuro?
Al suo inizio e fino alla sua "esplosione", il mondo di internet ha promesso di dare un volto nuovo all'intera umanità: al suo modo di comunicare, di presentarsi al mondo, di informarsi e farsi conoscere, ma anche al suo modo di decidere, di investire, di governare. Oggi assistiamo a una fase di profonda crisi di tutto questo: la moderna "torre di Babele" un mondo unito in cui tutti parlano la stessa lingua e si sentono allo stesso titolo cittadini sta per crollare, per generare una probabile nuova dispersione dei linguaggi e delle esperienze. Gli scricchiolii del grande edificio sono diversi: non riusciamo più a stare in rete con i nostri corpi e le nostre voci, non sappiamo più chi siamo e cosa pensiamo, non possiamo fidarci di nulla, né compiere un passo verso un nuovo progresso, di cui abbiamo smarrito ogni mappa. Il crollo è inevitabile. Cosa ci attende all'indomani del clamoroso evento? Un mondo connesso, ma forse non più così dipendente, che non conosciamo ancora.
Viviamo una condizione digitale popolata da macchine pensanti, dove l'intelligenza artificiale e le nuove tecnologie elaborano fatti e idee ridefinendo i confini della nostra esistenza. Trasformare i problemi dell'umanità in numeri ed equazioni, però, non equivale a risolverli, e delegare le decisioni a computer e algoritmi - che sempre più tendiamo a percepire come creature superiori - rischia di macchinizzare la nostra specie svilendone le più preziose peculiarità e le strutture valoriali. In questa ottica, Noi e la macchina intende porre le basi per un processo collettivo di formazione, un luogo di pensiero e una struttura di dialogo per far rifiorire l'umano nella stagione di quella che sembra essere una machina sapiens che compete con noi e sembra destinata a surclassarci. Benanti e Maffettone ci guidano in un viaggio che parte dalla consapevolezza delle sfide e delle opportunità offerte dal digitale, analizzando criticamente l'impatto delle tecnologie sulla sfera pubblica e sul benessere collettivo. Gli autori arrivano a delineare un concetto rivoluzionario, la "sostenibilità D", proponendo una nuova etica capace di armonizzare progresso tecnologico ed equità sociale, ponendo l'individuo al centro di un modello di sviluppo sostenibile che non lascia indietro nessuno. Attraverso un'architettura di sistema attenta al design e alla resilienza, il libro offre soluzioni concrete per un futuro in cui la tecnologia.
In "ChatGPT non pensa (e il cervello neppure)" Miguel Benasayag, che da decenni si occupa del rapporto tra la macchina e il vivente, dialoga con Ariel Pennisi. È un dialogo stimolato dalla recente diffusione di massa di ChatGPT-4, ma che viene da lontano, si intreccia con spazi di vita, ricerca scientifica e un impegno politico comune. Non si tratta di essere tecnofobi o tecnofili: «Mentre gli uni si ripiegano sulla nostalgia di una natura perduta, gli altri si gettano nel vortice del funzionamento totale, dove il corpo, la finitezza, i limiti immanenti dell'esperienza vitale e perfino i segni della storia non sono che un ostacolo per una volontà di efficienza che gira a vuoto». Un dialogo serrato, meditato e chiarificante che rivendica la necessità di pensiero e di pratiche contro le nuove forme pervasive di colonizzazione digitale e in favore della "singolarità del vivente", della «capacità di noi bestie di non funzionare, di vivere da inutili e di percepire tale condizione come la perfezione stessa». Ancora una volta, Benasayag ci invita a elaborare un modello di ibridazione tra la tecnica e gli organismi viventi che non si riduca a una brutale assimilazione.