
«Ama la Patria ininterrottamente, notte e giorno, sveglio e dormiente, o che so io? La ama tutta e sempre? Come una donna? Una mamma?» Giorgio Manganelli
«Per molti l'italiana non è una nazionalità, ma una professione.» Ennio Flaiano
«Quel poco che sono, sento di esserlo come italiano; e che, se non fossi più italiano, non sarei più nulla…» Indro Montanelli
«Non so che farmene di una patria che non sopporta la verità.» Curzio Malaparte
«Diffido di chi dice: "Gli italiani sono fatti così". Così come?» Enzo Biagi
«La mia Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina.» Oriana Fallaci
«Forse conviene scegliere dal catalogo possibile un paio di Italie decenti, e limitare l'orgoglio a quelle.» Edmondo Berselli
Stando ai sondaggi per il 150° anniversario dell'Unità nazionale, due italiani su tre sono orgogliosi di essere tali. Quando però si tratta di spiegare perché, tutto si fa più complicato. «Cosa ci tiene insieme?» è la domanda che meno invecchia, in questo Stato ancora giovane. Il rischio è quello di aggirarsi, in cerca di risposte, tra i monumenti e gli stereotipi.
Qui, invece, sono raccolte voci: grandi scrittori, giornalisti, intellettuali impegnati a diventare o ri-diventare italiani. A malincuore, con allegria, con rabbia, con indignazione, con stupore, con disincanto. A volte, perfino con ottimismo.
Tutto entra in gioco: i momenti drammatici o felici della storia unitaria; la memoria e le memorie; i volti e le maschere, da Arlecchino a don Abbondio; i colori della vita di ogni giorno.
Come in un'inchiesta a ritroso, le ipotesi e gli indizi sul tavolo sono molti. Per chi domanda: «Scusi, lei si sente italiano?», sono pronte nuove risposte. Razionali e sentimentali insieme. Cercate lontano, ma proiettate al futuro.
Si vince e si perde ovunque, non solo in Italia. Ma in Italia, più spesso che altrove, chi è vinto non accetta la sconfitta. "Bisogna saper perdere" racconta il declino, l'uscita di scena ma anche l'horror vacui dì alcuni degli uomini più potenti del nostro Paese. Politici che sono stati alla guida di un partito, o che hanno governato l'Italia per anni. Che hanno avuto a disposizione soldi e voti. Che hanno regalato sogni e speranze, e attirato invidie e diffidenze. E che prima o poi, inevitabilmente, hanno fatto i conti con il fallimento di un progetto o la fine di una carriera. Questo libro è una storia pubblica, ma anche un diario privato. Rivela i dubbi di Umberto II e Mario Segni, il risentimento di Parri e Prodi, l'amarezza di De Gasperi, il cinismo di Togliatti, gli insuccessi di Nenni e Fini, le fughe e la pervicacia di Fanfani e De Mita, la rabbia di Craxi, l'ostinazione di Berlusconi, fino all'irruzione di Renzi. C'è chi, ieri come oggi, grida al "colpo di stato", chi invoca i "brogli", chi si scaglia contro le congiure, chi prepara rivalse e vendette, chi ostacola con ogni mezzo la sua successione e chi ostenta distacco, finge l'addio, ma prova a mantenere il controllo su poltrone e programmi. Perché, a volte, saper perdere conta molto più di vincere. E soprattutto perché la sconfitta svela meglio di qualsiasi vittoria la natura degli uomini e la maturità di una democrazia.
La nascita di uno statuto letterario germanico, durante l'Alto Medioevo, rappresentò una conquista culturale mediata dalla cristianizzazione e dalle relative necessità liturgiche, dottrinarie ed esegetiche. Poiché la conversione al Cristianesimo delle numerose etnie germaniche richiese quasi un millennio, non stupisce che il diverso grado di integrazione delle élite barbariche nell'universo dottrinario e culturale della Chiesa - erede di molti valori della cultura greco-romana - si tradusse in una altrettanto lenta percezione della dignità dei propri volgari in funzione di lingua scritta, la cui forma richiedeva l'acquisizione di una coscienza 'alfabetica' e di forme 'scrittorie' locali ancora inedite. La frammentazione culturale che ne conseguì e la prolungata assenza di un canone alfabetico univoco per le singole lingue - unitamente all'egemonia esercitata ancora per secoli dalla cultura latina - si tradusse in risultati letterari tra loro disomogenei in ciascuna area linguistica. Il monopolio degli studi e della cultura scritta, esercitato per secoli in Occidente dall'autorità ecclesiastica, ebbe conseguenze dirette sul piano del contenuto e della relativa trasmissione. All'interno dei codici manoscritti realizzati per lo più tra le mura di scriptoria monastici riuscì a filtrare soltanto una minima parte, opportunamente emendata, del patrimonio tradizionale delle culture volgari, patrimonio che continuò viceversa a essere tramandato attraverso i canali impalpabili dell'oralità. Le prime forme di una tradizione letteraria germanica restarono dunque confinate per lungo tempo ad ambiti istituzionali - giuridici, notarili e religiosi -, nei quali i volgari riuscirono inizialmente a far breccia sotto forma di strumenti interpretativi d'immediata utilità, come le glosse esplicative di concetti e di lessemi non immediatamente comprensibili. "Medioevo volgare germanico" cerca di raccogliere e introdurre i principali documenti e i relativi generi letterari delle singole tradizioni linguistiche del Medioevo germanico, a partire dalla più antica traduzione della Bibbia in gotico fino agli esempi più raffinati del patrimonio letterario poetico e prosastico.
Un ritratto talora imprevedibile del nostro Paese, e al tempo stesso un'impietosa denuncia di antichi vizi e inedite magagne: cos'è cambiato in Italia e quali sono invece i problemi a cui pare non esserci rimedio? Corruzione, cattiva amministrazione, disastri ecologici, criminalità, morti bianche. La cronaca dettagliata si fa racconto in questa antologia di inchieste realizzate negli ultimi cinquant'anni da giornalisti e scrittori italiani e, attraverso i suoi testimoni, diventa storia. Dalla politica all'economia, al costume, una cruda radiografia di abusi, inefficienze e potenzialità inespresse.
La notte del 24 marzo 1945, la contessa Margit Batthyamy-Thyssen e il marito, ricchi eredi di una tra le dinastie più in vista della Germania nazista, danno una festa principesca per le SS del distaccamento locale nel loro castello di Rechnitz, al confine tra Austria e Ungheria. Intorno alla mezzanotte, la furia dei nazisti - e forse di tutti gli ospiti - si abbatte su un gruppo di ebrei ungheresi rinchiusi vicino alla proprietà in attesa di essere deportati. Vengono uccisi in centottanta, dopo aver scavato lo propria fossa, mentre al castello il ricevimento continua, si balla e ci si ubriaca. Ma uno dei peggiori crimini nazisti della fine della Seconda guerra mondiale è per l'autore una questione personale: la "padrona di casa dell'inferno" è Margit, una zia di cui in famiglia non si parla mai. Era presente all'eccidio? Vi ha partecipato? Che cosa è veramente accaduto quella notte? Per rispondere a queste domande Sacha Batthyany, guidato dal diario della nonna che a sua volta nasconde un segreto inconfessabile, intraprende un viaggio alla ricerca della verità, dalla Svizzera in cui è cresciuto all'Ungheria delle origini della sua famiglia, dall'Austria del dopoguerra alla Siberia dei Gulag, fino a Buenos Aires, nel salotto di una sopravvissuta di Auschwitz, dove scopre il segreto che cambierà lo sua vita e il suo destino. "È il patto segreto di noi discendenti, nipoti dei carnefici o delle vittime. Tutti noi andiamo a prenderci qualcosa, un pezzo di esistenza."
"Tutti, più o meno, siamo prigionieri delle nostre abitudini, paure, illusioni. Le sofferenze dovrebbero indurci ad abbandonare l'ego, che chiude la strada del ritorno alla nostra natura divina".
L’opera si presenta come cantiere aperto e sollecitazione per lavori futuri, condotti in modo inclusivo e comparato, perché le teologie possano arricchirsi reciprocamente. La fede oltre le religioni, la pluralità degli studi teologici con i suoi punti di arrivo, in continuo dinamismo, il decisivo lume dell’orizzonte verticale inclusivo nella rispettosa pluralità delle teologie in campo educativo, sono gli spazi di riflessione offerti dal volume. Giuseppina Battista richiama sovente l’opportunità di considerare i vari processi educativi e le teologie che li sostengono, come ‘processi educativi insieme’; insomma teologie delle confessioni cristiane e teologie che si rifanno all’esperienza di fede di Abramo, che possano essere ‘teologie insieme’ a servizio nel vasto campo dell’educazione. (Dalla presentazione di Sua Ecc.za Mons. Enrico dal Covolo)
Giuseppina Battista,
L’Autrice con lunghi anni di ricerca e di studio ha individuato nella pluralità delle antropologie e delle teologie uno spazio di straordinaria importanza per l’educazione che si apre alla trascendenza, colta nella pluralità delle riflessioni di teologia. Con l’attenzione alla ricchezza di questa pluralità, aperta allo scambio del dialogo e all’impegno della testimonianza di credenti, è nata l’idea e la realizzazione di questo volume. Un costante servizio educativo nella scuola statale e in varie Università Pontificie ha corredato il suo percorso di studiosa. Attualmente è docente invitata per il corso di Teologia dell’educazione presso la Università Pontificia Salesiana.
Dedicata a interrogare le categorie di metafora, mito e modernità, la riflessione di Hans Blumenberg (1920-1996) è senz'altro una delle più inquiete, profonde e decisive del secondo Novecento. Il presente volume ne offre una serrata ricostruzione evolutiva, partendo da un'analisi della prima, inedita fase del suo pensiero, e descrivendone la trasformazione nel corso del primo ventennio (1946-1966). Mostrando come la sua indagine si sia sistematicamente nutrita di un confronto "corpo a corpo" con la storia del pensiero cristiano - Agostino, Pascal, Kierkegaard -, vengono allora esplorate le radici teoriche profonde della tesi della legittimità dell'età moderna, quale contraccolpo conseguente all'entrata in crisi dell'assolutismo teologico di matrice agostiniana. Ne emerge così un'immagine nuova della proposta filosofica e antropologica di Blumenberg, in costante debito critico nei confronti della memoria cristiana della cultura occidentale, seppure ritrattata in prospettiva nietzschiana.
"Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei 'ragazzi di Salò'. Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla 'gabbia del gorilla' in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di 'esule in Patria' nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine."
"Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei 'ragazzi di Salò'. Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla 'gabbia del gorilla' in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di 'esule in Patria' nell'Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un'apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell'Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli. Che cosa abbia significato per me essere figlio di un fascista, e vergognarsi di avere provato vergogna per i padri che abbiamo tradito andandocene da un'altra parte, e che invece hanno vissuto con dignità, coraggio e coerenza la loro solitudine."
«Che libri leggi? Che film hai visto? Che musica ascolti? Quali oggetti acquisti, e di quali senti di non poter fare a meno? Cosa mangi, e che rapporti hai con la medicina, con la scienza? Quali vestiti indossi? E che mi dici della politica? Credi in Dio? Ti soddisfa il mondo così com'è, o vorresti cambiarlo? E hai fiducia che possa essere cambiato?». Un padre nato negli anni Cinquanta tempesta la figlia venticinquenne con domande pressanti, talvolta invadenti, ma sempre animato dalla voglia incontenibile di conoscere i suoi interessi, le sue scelte di vita, i suoi dolori e le sue speranze e, attraverso di lei, quelli della generazione dei cosiddetti «millennials», dai quali sente di essere diviso da una voragine psicologica e culturale. Le risposte che riceve lo lasciano dubbioso, a volte incredulo, recalcitrante e persino adirato, ma non spengono il suo desiderio di capire come va il mondo di adesso, quale direzione ha preso, con quale linguaggio parla, con quali immagini si emoziona. E così, per farsene un'idea più chiara, si ritrova a rubare brandelli di conversazione, a scavare nei ricordi, a spiare gergo, gesti e gusti, a scrutare comportamenti e rituali collettivi (la figlia in compagnia degli amici) che spesso precludono ogni genere di dialogo. Alla fine scoprirà che le tante, drastiche differenze (l'abbandono completo dei giornali, la sacralità della «natura» contrapposta alla scienza e alla tecnica, il diverso valore attribuito alla medicina, la preferenza accordata all'erboristeria rispetto alla farmacia, il ruolo centrale assunto dalla qualità del cibo e dalla cura del corpo, il culto del vintage), al pari delle insospettabili affinità (l'amore per i libri, ancora intatto nonostante certe statistiche, o la passione per la musica, per il cinema e per i musei, sia pure virtuali), descrivono una realtà in cui tutto muta a una velocità forsennata. Eppure qualcosa resta, anche se non sempre sappiamo riconoscerlo fino in fondo. Nel suo spiritoso e autoironico racconto di cose vissute, che ruota attorno a un sapiente intreccio di sfera personale e sfera pubblica, Pierluigi Battista è un padre che non sale in cattedra, ma si sforza di ascoltare i pensieri e le ragioni della figlia Marta, senza però mai mancare di far sentire la sua voce quando vede che alcuni valori essenziali di ieri rischiano di andare perduti nel grande cambiamento che sta rivoluzionando il mondo.
Dove sono finiti gli intellettuali
irregolari, gli unici che possano
resuscitare la cultura italiana?
Uno spettro si aggira per l’Italia: solo questo è rimasto della vittima eccellente del nostro tempo, la cultura. Si è spenta, o a essere ottimisti è in coma, l’idea di pensiero come valore civico e civile, come vero sforzo di comprensione del reale, come libertà. Avevano già inflitto un serio colpo alla cultura i linciaggi di partito come quello a Hannah Arendt. L’hanno ridotta in fi n di vita terribili silenzi come quello sul caso Solzenicyn. Le stanno dando il colpo di grazia le dietrologie, dall’11 settembre alle intercettazioni telefoniche; l’inesausta rivalutazione dei dittatori altrui, da Castro a Chávez; il pensiero doppio di un Nobel come Saramago che tuona contro la censura di un libro fotografico blasfemo (per i cattolici) dopo averla invocata per vignette altrettanto blasfeme (ma per gli islamici). Che ne è stato degli irregolari come George Orwell e Albert Camus, dei grandi intellettuali anticonformisti come Georges Bernanos e Simone Weil, che tradirono la loro appartenenza per non tradire se stessi? L’arma del delitto ultimamente è sempre il conformismo, che strumentalizza la realtà e distrugge gli individui a colpi d’ideologia. E come in un romanzo giallo troppo sperimentale, alla fine l’assassino coincide con la vittima: è la casta culturale italiana che, con il suo strabismo e i suoi pregiudizi, ha ucciso la cultura. La penna pungente di Pierluigi Battista individua e spietatamente trafigge la miopia intellettuale e l’incubo revisionista, i nuovi oscurantismi e il laicismo sfrenato, i germi del conformismo responsabili della cancrena del dibattito italiano. Ma con questo libro cerca anche di iniettarli come un antidoto nel pensiero di politici, scrittori, artisti, filosofi , intellettuali. Colpirne cento per educarne almeno uno.