
Consigli e strumenti per aiutare i genitori nella educazione dei propri figli. Il bambino non e un cucciolo, non e un tubo digerente. L'opuscolo prova che il piccolo e persona e ne trae le conseguenze. Pagine attualissime: mai come oggi i bambini sono stati tanto vezzeggiati e coccolati, pero, forse mai, come oggi, sono stati cosi poco capiti. Urge ritornare a comprendere chi e, davvero, il bambino, per non sciuparlo e non ferirlo.
Ottimista globale, utopista impaziente, riluttante imperatore contemporaneo - per censo e per influenza -, Bill Gates dedica ormai da anni le sue risorse, economiche e intellettuali, a cercare di risolvere i problemi del mondo. Il padre di Microsoft Corporation si racconta in questa conversazione con Massimo Franco, ripercorrendo le tappe significative della sua vita e tratteggiando la sua filosofia di intellettuale organico della globalizazzione. Gates è il figlio naturale di quella Silicon Valley estesa fino a Seattle, vera costola della nostra modernità e della ricchezza americana: una realtà che ostenta una posa minimalista ma che è in grado di forgiare lo stile di vita, i modelli di lavoro e il modo di pensare di miliardi di persone. Durante la lunga intervista Bill Gates non smette mai di dondolarsi sulla sedia in velluto del Four Seasons di Parigi: è il suo modo personalissimo di concentrarsi, da quando era bambino. E con la sua voce nasale, quasi metallica, analizza le sfide dirimenti dei prossimi anni: dalle migrazioni alle crisi finanziarie, dalle guerre alle grandi emergenze umanitarie. Delinea le ragioni profonde delle sue numerose imprese, come la creazione della Bill & Melinda Gates Foundation e poi del Global Fund, una rete di miliardari mossi dalla determinazione a migliorare le sorti delle zone più svantaggiate del pianeta. Con le loro generose e a volte anche controverse iniziative vantano di aver salvato venti milioni di vite in quindici anni, scongiurando centinaia di migliaia di nuove infezioni e coinvolgendo governi e istituzioni sovranazionali. "Sono un ottimista globale" tocca questioni di assoluta rilevanza. Affronta problemi ineludibili. Interpreta i segni della contemporaneità e tenta di delineare le sfide strategiche dell'Occidente attraverso le riflessioni di uno dei personaggi più influenti del nostro tempo: un visionario dell'era digitale e un fuoriclasse del software che, con sforzi anche economici straordinari, sta provando a riprogrammare il destino del mondo.
"Sono stato io ad aprire agli inquirenti il libro della 'ndrangheta." Questa è là storia dell'uomo che per primo ha raccontato l'infiltrazione della 'ndrangheta nel Nordovest d'Italia, in particolare in Piemonte e in Liguria. Si chiama Rocco Varacalli, la sua è un'epopea criminale che inizia in Calabria e finisce a Torino. Nel mezzo scorre una vita violenta, qui raccontata in prima persona e dall'interno dell'organizzazione. Più volte arrestato, Varacalli è stato condannato per traffico di stupefacenti. Dodici anni di militanza che gli hanno valso contatti di primissimo livello nell'onorata società, fino alla decisione di diventare testimone di giustizia. La sua confessione è diventata l'architrave dell'inchiesta Minotauro che nel giugno 2011 ha portato all'arresto di 150 persone e al coinvolgimento di politici, assessori, consiglieri regionali e imprenditori. L'alta velocità, i cantieri delle Olimpiadi invernali a Torino, la costruzione del centro commerciale Le Gru di Grugliasco (Torino) con le famiglie calabresi che stringono la mano a Berlusconi il giorno dell'inaugurazione, il porto di Imperia. E poi il traffico internazionale di droga dall'America del Sud all'Europa e alle grandi città dell'Italia del Nord, passando per l'Africa. Varacalli racconta tutto: la scelta di pentirsi, le pressioni della famiglia, il disconoscimento, le minacce, le stragi e gli omicidi. E come funziona l'organizzazione.
Sei una mamma in carriera? Di sicuro stai trascurando i tuoi doveri domestici. Se però rimani a casa, sei una presenza ingombrante e opprimente per i tuoi figli. Imponi loro regole e divieti severi? Cresceranno timidi e insicuri. Ma se non sai dirgli di no, a tredici anni spacceranno nel parchetto dietro casa. Insomma, qualsiasi scelta tu faccia, sei una cattiva mamma, destinata a fare i conti con il senso di inadeguatezza causato dal confronto con modelli inarrivabili: perché diciamolo, le supermamme, quelle che “I bimbi sono meravigliosi, la tata è un angelo e al lavoro mi danno molta fiducia” nella realtà non esistono.
Lo sa bene Ayelet Waldman, che, stanca dei sensi di colpa e delle ipocrisie, ha trovato il coraggio di chiedersi pubblicamente cosa vuol dire oggi essere madre, giungendo ad affermare sulle colonne del “New York Times” di amare il marito più dei propri figli. La pattuglia Anti-Cattiva Madre si è mobilitata all’istante, gettando la scrittrice sulla graticola dei blog e dei giornali.
Sono una cattiva mamma è la sua risposta provocatoria e spiazzante a tutte le accuse che le sono piovute addosso. Un libro spassoso e sincero sulle difficoltà e le mille contraddizioni che scandiscono le giornate di ogni madre. Perché l’unica cosa di cui i nostri figli hanno davvero bisogno è una mamma meravigliosamente imperfetta.
Ayelet Waldman (1964) è autrice di saggi e romanzi di successo. Il suo ultimo, controverso libro è Bad Mother, uscito negli Stati Uniti nel 2009. Vive a Berkeley col marito, lo scrittore Michael Chabon, e i loro quattro figli.
L'autore individua nel mondo attuale della droga italiana due sistemi coesistenti. Il primo, denominato sistema-Milano, è basato appunto su un modello di rete in costante evoluzione. Comprende i settori cocaina, droghe sintetiche, smart drugs. Il secondo è antico, piramidale, con un centro fisso e ruoli statici. È il cosiddetto sistema-Scampia. Riguarda essenzialmente l'eroina. Il libro descrive questi due sistemi dall'interno, attraverso un itinerario-inchiesta tra luoghi e protagonisti della droga. Poi sottopone la realtà dei fatti all'opinione di Pier Luigi Vigna, Gianni Degli Antoni, Giampaolo Fabris, Annamaria Testa, Oliviero Toscani e propone le soluzioni suggerite da Riccardo C. Gatti.
Una donna, una scelta: quella di salvare centinaia di ebrei a rischio della propria vita. Una storia di umanità e di fede contro la banalità del male nell'Italia divisa in due dopo l'8 settembre 1943. La guerra, le difficoltà, le spie fasciste, i delatori avrebbero potuto farle paura. Non fu così. Anzi, con coraggio e con la forza della fede aiutò profughi, antifascisti e perseguitati politici perché andava fatto. Per questo aderì al gruppo clandestino Frama, collaborò con il finanziere Gavino Tolis e passò informazioni segrete oltre confine. Corrispondenza e ordini riservati destinati alle brigate partigiane operanti nel comasco. Per molti diventò l'angelo di Ponte Chiasso. Arrestata e deportata sopportò terribili sofferenze. Superò l'orrore del campo di concentramento e ritornò in Italia. Un racconto che fa riscoprire una figura poco conosciuta insignita con la Medaglia d'Oro al Merito Civile dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Quando fu liberata, con l'arrivo degli Alleati, Liliana Segre aveva 14 anni e pesava 32 kg. Come abbia potuto sopravvivere nell'inferno di Auschwitz in quelle condizioni, non sa spiegarselo ancora oggi. Non è mai più ritornata ad Auschwitz. Dopo tanti anni di voluto silenzio, la donna ha deciso di testimoniare per una serie di ragioni private e universali insieme: il debito verso i suoi cari scomparsi ad Auschwitz; la fede nel valore della memoria, e nella necessità di tenerla viva per tutti coloro che verranno dopo. Perr tutti è importante conoscere ciò che successe allora e ricordare? Perché simili aberrazioni della storia non si ripetano più.
Nel giorno del suo quindicesimo compleanno, Eva viene arrestata dai nazisti ad Amsterdam e deportata ad Auschwitz. La sua sopravvivenza dipende solo dal caso, e in parte dalla ferrea determinazione della madre Fritzi, che lotterà con tutte le sue forze per salvare la figlia. Quando finalmente il campo di concentramento viene liberato dall'Armata Rossa, Eva inizia il lungo cammino per tornare a casa insieme alla madre, e intraprende anche la disperata ricerca del padre e del fratello. Purtroppo i due uomini sono morti, come le donne scopriranno tragicamente a mesi di distanza. Ad Amsterdam, però, Eva aveva lasciato anche i suoi amici, fra cui una ragazzina dai capelli neri con cui era solita giocare: Anne Frank. I loro destini - seppur diversissimi - sembrano incrociarsi idealmente ancora una volta: nel 1953 Fritzi, ormai vedova, sposerà Otto Frank, il padre di Anne. La testimonianza di Eva (scritta in collaborazione con Karen Bartlett) è dunque doppiamente sbalorditiva: per la sua esperienza personale di sopravvissuta all'Olocausto e per lo straordinario intreccio del destino, che l'ha unita indissolubilmente a quella ragazzina conosciuta molti anni prima.
Quando fu liberata, con l’arrivo degli Alleati, Liliana Segre aveva 14 anni e pesava 32 kg. Come abbia potuto sopravvivere nell’inferno di Auschwitz in quelle condizioni, non sa spiegarselo ancora oggi. Non è mai più ritornata ad Auschwitz.
Dopo tanti anni di voluto silenzio, Liliana ha deciso di testimoniare per una serie di ragioni private e universali insieme: il debito verso i suoi cari scomparsi ad Auschwitz; la fede nel valore della memoria, e nella necessità di tenerla viva per tutti coloro che verranno dopo. L’esperienza inumana del periodo di deportazione, non ha condizionato la sua volontà di essere una donna di pace e di perdono.
E racconta soprattutto per i giovani e per gli adulti che si occupano di giovani. Per tutti è importante conoscere ciò che successe allora e ricordare… perché simili aberrazioni della storia non si ripetano più.
Quando fu liberata, con l'arrivo degli Alleati, Liliana Segre aveva 14 anni e pesava 32 kg. Come abbia potuto sopravvivere nell'inferno di Auschwitz in quelle condizioni, non sa spiegarselo ancora oggi. Non è mai più ritornata ad Auschwitz. Dopo tanti anni di voluto silenzio, Liliana ha deciso di testimoniare per una serie di ragioni private e universali insieme: il debito verso i suoi cari scomparsi ad Auschwitz; la fede nel valore della memoria, e nella necessità di tenerla viva per tutti coloro che verranno dopo. L'esperienza inumana del periodo di deportazione, non ha condizionato la sua volontà di essere una donna di pace e di perdono. E racconta soprattutto per i giovani e per gli adulti che si occupano di giovani. Per tutti è importante conoscere ciò che successe allora e ricordare... perché simili aberrazioni della storia non si ripetano più.
Quando Irène Némirovsky viene arrestata, nel luglio del 1942, la maggiore delle sue due figlie, Denise, ha tredici anni, ma è molto più infantile delle sue coetanee; la minore, Élisabeth, soltanto cinque. Tre mesi dopo anche il padre sarà deportato. Per le due bambine - vissute fino a quel giorno al riparo da ogni minaccia, da ogni bruttura grazie alla barriera di amorosa felicità domestica che i genitori avevano costruito loro attorno - cominciano gli anni atroci della fuga: braccate dalla polizia francese e dalla Gestapo, passano da un nascondiglio all'altro, spostandosi di notte, prendendo treni da cui bisogna saltare giù prima che entrino nelle stazioni per evitare i poliziotti e i loro cani, trovando rifugio in un convento di suore, in cantine umide, in sottoscala. Alla Liberazione, Denise ed Élisabeth si recheranno, insieme a molti altri, alla Gare de l'Est, dove assisteranno sgomente all'arrivo dei treni che riportano a casa quei fantasmi macilenti che sono i sopravvissuti dei campi: ma da quei treni non vedranno scendere né l'uno né l'altro dei genitori. Di loro resta soltanto la valigia che Michel Epstein ha affidato alla figlia maggiore raccomandandogliela come cosa preziosa appartenuta alla madre: la valigia dentro la quale, molti anni dopo (quando finalmente avrà il coraggio di aprirla), Denise troverà il manoscritto di Suite française, che ricopierà con straziata pietas filiale, per poi darlo alle stampe nel 2004. In questa lunga intervista Denise (che nel novembre 2009 ha compiuto ottant'anni, e che da più di un decennio ha perso la sorella) ripercorre, con la limpida chiarezza del suo spirito indomabile, ma anche con l'arguzia e l'ironia che le sono proprie, un'esistenza in cui le assenze hanno pesato più delle presenze, e la memoria (e la difesa della memoria stessa) ha svolto un ruolo determinante.
C'è contrapposizione fra "buona morte" e "dolce morte"? E allora: dove comincia e dove finisce la dignità del vivere e del morire? In Europa e nel mondo sono in crescita i Paesi che hanno approvato una legge sull'eutanasia e sul suicidio assistito. Il "diritto alla vita" presume anche un "obbligo alla vita"? E con quale prerogativa - affermano i fautori dell'eutanasia - la società vieta a uno di voler morire se liberamente lo sceglie? Monsignor Paglia - uno dei più autorevoli esponenti della Chiesa di Francesco, consigliere spirituale della Comunità di Sant'Egidio e Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia - affronta con estrema delicatezza e lucidità tutti gli aspetti legati al "fine vita" che continuano a suscitare aspri confronti in Italia e nei paesi europei. In un saggio che farà discutere, l'autore insiste sulla necessità di allargare gli orizzonti evitando gabbie ideologiche o ambigue urgenze legislative. Sono in campo profonde dinamiche affettive, culturali e spirituali e sarebbe riduttivo trattare i problemi al di fuori di una visione umanistica e sapienziale. Paglia non disdegna di mettere in guardia un Occidente che pare aver posto nel dimenticatoio alcune grandi verità: ogni persona, unica e irripetibile, è patrimonio dell'umanità; gli anziani e i morenti possono insegnarci qualcosa fino all'ultimo respiro; a nessuno piace morire dimenticato; solo accettando il traguardo della morte - che tutti ci affratella - potremo avere una vita intensa, feconda di relazioni personali autentiche e di valori umani condivisi, una vita degna di essere vissuta, fino alla fine.

