
"Credo che a ognuno sia dato, per un istante almeno, d’intravedere il piano concepito in cielo e di sapersi incluso, come uno dei nodi del tappeto." Quella con le scritture sacre per Erri De Luca è una frequentazione fitta e di lungo corso. Dal contatto prolungato con le sue pagine nasce questo racconto dell’Antico Testamento per la viva voce dei personaggi che lo popolano. Sono autobiografie folgoranti. Erri De Luca parte dalle prime persone create, Adamo ed Eva - Adàm e Hauà -, per dare via via la voce, in ordine di apparizione, a una scelta moltitudine dei loro discendenti. Ciascuno parla in prima persona, cerca riparo nelle parole a quei fatti, oppure li rivendica, li chiarisce, li precisa. Voci potenti, piene di verità o di carità, di forza contro le avversità, di speranza, di peccati ormai irredimibili: se la presenza del divino è indubbia, è la loro umanità, il loro arbitrio a farli spiccare e a renderli memorabili.
Il trattato Makkòt appartiene all’Ordine Nezikin del Talmud, dedicato al diritto civile e penale. È strettamente collegato a Sanhedrin, tanto che alcuni lo considerano una sua continuazione, mentre Maimonide lo interpreta come un trattato autonomo. Il nome deriva da makkòt, "colpi", "percosse", "pene corporali", termine che nella Torà ricorre sia in senso letterale sia figurato, fino a indicare le piaghe d’Egitto. Il tema centrale è la punizione corporale della fustigazione, prevista per determinati trasgressori. La Mishnà stabilisce un massimo di 39 colpi, inflitti sotto controllo medico per non superare i limiti consentiti dalla Torà. In realtà, la pena era raramente applicata, data la complessità delle procedure richieste: testimoni affidabili, avvertimento preventivo del reo, e verifiche mediche rigorose. Quando la colpa comportava anche una pena pecuniaria, questa sostituiva la fustigazione. Il trattato chiarisce anche che la pena capitale, pur prevista teoricamente, non veniva quasi mai eseguita. La Mishnà insegna: «Un Sinedrio che condanna a morte una persona ogni sette anni viene chiamato "distruttore". Rabbì Elazàr ben Azaryà dice: una persona ogni settant’anni. Rabbì Tarfon e rabbì Aqivà dicevano: se noi fossimo stati membri del Sinedrio, non sarebbe mai stato condannato a morte nessuno» (Makkot 7a). Il trattato si articola in tre capitoli. Il primo riguarda gli edim zomemim, falsi testimoni che ricevevano la pena che avrebbero voluto infliggere all’imputato. Il secondo è dedicato alle città-rifugio, dove trovavano protezione e al tempo stesso espiazione gli autori di omicidi colposi. Lì il condannato conduceva una vita dignitosa e, se studioso o maestro, era accompagnato da un maestro o da discepoli, poiché lo studio della Torà è considerato essenziale alla vita. La permanenza in esilio durava fino alla morte del Sommo Sacerdote, ritenuto responsabile di non aver invocato la misericordia divina per evitare simili tragedie. Il terzo capitolo tratta in dettaglio la fustigazione e le sue regole. Non mancano pagine di Aggadà, con insegnamenti morali e spirituali: come l’idea che l’uomo sia guidato lungo la strada che sceglie di percorrere, responsabilizzandolo nelle sue scelte. Il trattato si chiude con celebri episodi legati a rabbì Aqivà. Di fronte alla distruzione del Tempio e alle rovine di Gerusalemme, mentre i suoi colleghi piangono, egli sorride, certo che la realizzazione delle profezie di sventura confermi la futura ricostruzione e la redenzione. Le sue parole diventano un messaggio di consolazione e speranza, tanto che i Maestri esclamarono: «Aqivà, ci hai consolato!».
Il trattato Horayòt è il decimo e ultimo dell’Ordine Nezikin della Mishnà. Breve ma complesso, affronta uno dei temi più delicati: gli errori involontari commessi dalle autorità religiose e giudiziarie - il tribunale, il Sommo Sacerdote e il Nasì (il capo, inteso come re d’Israele). Il titolo significa "istruzioni", "insegnamenti" o "prescrizioni": qui si tratta di insegnamenti sbagliati che, pur provenendo da guide autorevoli, inducono l’intero popolo a trasgredire. Il riferimento biblico principale è il quarto capitolo del Levitico, che prescrive sacrifici di espiazione per errori commessi dal Kohen Mashiach (il "sacerdote unto"), dal popolo intero, dal Nasì o da un singolo individuo. A questi si aggiunge Numeri 15, che disciplina i sacrifici collettivi per peccati legati all’idolatria. La Mishnà e la Ghemarà discutono dettagliatamente le diverse situazioni: chi è responsabile del sacrificio? Solo il tribunale, l’assemblea o entrambi? Cosa si intende per "popolo": l’intera comunità, la maggioranza o persino una sola tribù? E se un giudice aveva dissentito dalla decisione, ricadeva anch’egli nell’obbligo di espiazione? Il trattato dedica ampio spazio alle figure del Kohen Mashiach e del Nasì, analizzando i casi di colpe anteriori o posteriori alla loro nomina, e le differenze tra i vari sacrifici richiesti. Ma dal terzo capitolo il discorso si allarga: partendo dalla distinzione dei ruoli si passa a questioni più generali di priorità nei riti e nelle persone, all’unzione di re e Sommi Sacerdoti, fino ad ampie parentesi aggadiche. Vi si trovano episodi sorprendenti, come una delle più antiche citazioni della cometa di Halley, il racconto dell’istituzione del seder di Rosh haShanà e la vicenda di un tentativo di deporre il Presidente del Sinedrio. I Maestri discutevano queste norme in un’epoca in cui il Santuario era già distrutto e molti precetti risultavano inapplicabili. Già allora, gran parte delle disposizioni aveva valore soprattutto teorico e speculativo. Tuttavia il trattato resta attuale in almeno due sensi: da un lato, quando si riflette sul tema delle priorità e delle risorse limitate - questioni che attraversano ogni società, antica o moderna; dall’altro, nella sua grande lezione sulla fallibilità umana. Anche i più alti responsabili del popolo possono sbagliare, talvolta con conseguenze gravi. Horayòt diventa così una meditazione profonda sull’errore, sul peso delle guide spirituali e sul dovere collettivo di riconoscere e riparare.
Il rabbino capo di Roma e un ebreo che ha assunto posizioni critiche su Israele in guerra si confrontano sulla tragedia in corso e sulle divisioni dell’ebraismo contemporaneo. Affrontano temi di cruciale attualità: le sofferenze di tutte le popolazioni coinvolte nel conflitto, il sionismo religioso, il nuovo antisemitismo, il rapporto difficile con la Chiesa cattolica, la sospetta ammirazione delle destre nazionaliste per Israele, il divorzio degli ebrei dalla sinistra, i rapporti fra la diaspora e lo Stato ebraico, la piaga del fanatismo. I giudizi restano distanti anche sulle polemiche che hanno agitato le Comunità ebraiche italiane dopo la pubblicazione di un appello contro la pulizia etnica sottoscritto da una minoranza di dissidenti. L’ebraismo è al tempo stesso una religione, una cultura e una nazione, ma in che misura questi aspetti possono coesistere senza entrare in conflitto? Ebrei in guerra ha dunque molteplici significati; perché se è vero che Israele chiama gli ebrei a essere coinvolti nella sua guerra, altrettanto vero è che il dissenso interno dà luogo a lacerazioni profonde. Un libro che si cimenta con le domande che tutti si pongono. Perché la vicenda millenaria degli ebrei resta centrale nel nuovo tempo di guerra, e dunque ci riguarda da vicino. Il rabbino capo di Roma e un intellettuale ebreo dissidente si confrontano sulle divisioni che la guerra sta provocando all’interno del mondo ebraico e sul destino dello Stato di Israele.
È possibile pensare ad una rivelazione cristiana escatologica, ossia ultima e definitiva, nel confronto con una rivelazione precedente come quella ebraica? Per rispondere a questo arduo problema teologico, il libro si apre nella prima parte con un confronto, accurato e intellettualmente onesto, con dodici pensatori ebrei moderni e contemporanei: storici, filosofi e teologi, includendo pure una voce altra come quella di Primo Levi. La scelta è metodologicamente istruttiva: il dialogo interreligioso si costruisce sulla conoscenza dell'identità dell'altro, senza preclusioni ma anche senza facili irenismi. Nella seconda parte del saggio Emanuele Giordana propone alcune linee interpretative per la costruzione di una teologia cristiana dell'ebraismo. Il grande sforzo di sintesi e meticolosa ponderazione alza lo sguardo sull'orizzonte complessivo, per riformulare il problema a partire dall'evento radicalmente storico di Gesù di Nazaret. E così, quelli che sembravano problemi in-solubili, ad un'analisi più approfondita si rivelano come problemi mal-posti, che questo libro affronta con quel pizzico di temerarietà senza il quale non si tenterebbero imprese inedite.
"Anche grazie agli studiosi ebrei, l'ebraicità dell'Apostolo dei gentili è tornata nell'agenda del pensiero cristiano, quello biblico-teologico in particolare. Tale evidenza deve ora scendere a livello pastorale, bloccando usi impropri di alcuni passi paolini, estrapolati dal loro contesto e usati in chiave di pregiudizio antiebraico." Dall'introduzione di Fabio Ballabio e Massimo Giuliani
La storia degli ebrei in Italia è antichissima: nessuna comunità in Occidente ha una presenza così costante, dalla Roma antica fino a oggi.
Gesù in sinagoga è un testo innovativo perché offre una ricchissima presentazione di voci ebraiche – e un confronto con esse alla ricerca del cuore teologico di un possibile dialogo ebraico-cristiano – su Yehoshùa ha-Nozri, Gesù di Nazaret, secondo le ricerche condotte da studiosi e pensatori nel corso del Novecento e agli inizi del nuovo millennio, a fronte della domanda essenziale che Gesù pose storicamente fin dall’inizio anzitutto al suo popolo: “Chi sono io, per voi?”. A tale dilemma corrispose di fatto una duplice risposta, che lacerò la comunità ebraica: una parte di essa lo accolse come l’Atteso, l’altra lo rifiutò, pur lasciandosi seriamente interpellare dalla sua persona.
In queste pagine incontriamo il frutto di un rigoroso impegno intellettuale che ha prodotto, in ambito ebraico, molteplici e anche discordanti approcci al “mistero” di Gesù di Nazareth, il figlio di Israele che ha saputo interrogare la coscienza di molti e in ogni epoca.
Il lettore non ebreo potrà indagare personalmente su “chi sia Gesù” collocando la sua persona all’interno della storia e della cultura del popolo ebraico e, in particolare, il cristiano troverà in questi studi un motivo profondo di riflessione sulla propria fede in Gesù. In ambito ecclesiale, l’approfondimento del mistero di Cristo, indissolubilmente congiunto con quello di Israele, assume una valenza spirituale primaria nella ricerca dell’unità delle chiese. Quanto a chi non si riconosce in alcuna confessione religiosa, le tante voci ebraiche riportate e discusse nel testo offrono l’occasione preziosa per proseguire nella libera ricerca di una propria “cristologia”.
A ogni modo, sullo sfondo e al centro dello sviluppo di questo libro sta l’invito rivolto alle tradizioni ebraica e cristiana «a smettere di percepirsi come isole identitarie e a porsi invece alla ricerca di sorgenti comuni della fede e della storia delle fedi».
Ciò che i cristiani chiamano "Antico Testamento" corrisponde in parte - ma solo in parte - al testo della Bibbia ebraica. Quali sono le differenze tra i due testi? Come si spiega la formazione del canone biblico? In qualità di archeologo dei testi, Thomas Römer conduce un'indagine e porta alla luce, sotto gli strati accumulati dai numerosi compilatori e redattori, le diverse origini di un libro diverso da tutti gli altri. Storico e filologo, ripercorre la formazione delle tre parti della Bibbia collocandole nei rispettivi contesti socio-storici. Un'immersione affascinante che vi farà leggere la Bibbia con occhi nuovi! La Bibbia fa parte del patrimonio letterario e filosofico dell'umanità. Senza di essa non ci sarebbero stati né l'ebraismo né il cristianesimo, e persino l'islam è inconcepibile senza le tradizioni bibliche. Innumerevoli opere d'arte traggono ispirazione direttamente da essa. Sebbene la Bibbia abbia avuto origine nell'antico Vicino Oriente, molti testi, come il racconto detto "della caduta" (Gen. 3) e quelli della torre di Babele (Gen. 11), del sacrificio di Abramo (Gen. 22) o ancora quello dei dieci comandamenti, hanno segnato la memoria collettiva dell'Occidente. Questo libro offre un'introduzione storica alla Bibbia ebraica, che l'ebraismo chiama "TaNaK" e che i cristiani hanno adottato, con una serie di modifiche e persino di aggiunte, chiamandola "Antico Testamento".
Questo libro racconta di illustri protagonisti di cammini e di snodi culturali e artistici nella millenaria storia del popolo ebraico e fantastica sull'incontro virtuale di personaggi storici e mitologici, uniti da un comune denominatore: la lingua ebraica. Il palazzo dell'ebraico sorge in un giardino e ha un'ampia terrazza sul tetto in cui si celebrano le feste. A ogni piano, dietro ogni porta, troviamo storie personali e collettive di epoche e geografie diverse, che conducono il lettore alla conoscenza di una lingua arcaica e, allo stesso tempo, in continuo divenire. Dal Re Salomone alle poetesse israeliane dell'ultimo secolo, passando per Rashi, Rabbi Nachman di Breslav, il Dybbuk e il padre dell'ebraico contemporaneo Eliezer Ben Yehuda, il testo offre un patrimonio di parole e di pensieri, che ha ispirato ogni arte, dal klezmer dei villaggi esteuropei all'America di Woody Allen. «L'ebraico è una lingua viva e antica di tremila anni, che ha percorso itinerari imprevedibili, sacri e profani ed è stata la linfa culturale di un gran numero di comunità nel mondo. Lungo i secoli le persone hanno scritto, parlato, sognato e cantato in ebraico; i redattori della Bibbia, i maestri e i pensatori hanno creato un universo di parole e di immagini che qui si incontrano aldilà del tempo, in un intreccio di suggestioni, facendo incontrare gli antichi testi sacri, le esegesi rabbiniche e le narrazioni contemporanee, con un tocco di poesia e un guizzo d'ironia». (dall'introduzione)
La Genesi, Bereshith, è il libro delle origini, il racconto della creazione e delle prime grandi storie dell'umanità. Ma è anche un testo enigmatico, denso di significati nascosti e aperto all'interpretazione. In questo dialogo a due voci, Erri De Luca e Haim Baharier si confrontano con i primi capitoli della scrittura sacra, dando vita a un'opera che è al tempo stesso racconto e commento, poesia e studio, visione e scavo nella parola. De Luca affronta la Genesi con il suo inconfondibile stile narrativo: prende i dettagli e li trasforma in storie, restituendo corpo e anima a uomini e donne che troppo spesso restano ai margini. Baharier, invece, si muove nel solco della tradizione esegetica ebraica, esplorando la ricchezza del linguaggio biblico, decifrando lettere e simboli che compongono le parole sacre, sciogliendo stratificazioni di senso. Adamo, Noè, Abramo, Isacco: i patriarchi della Genesi tornano a vivere in queste pagine, non come figure lontane ma come uomini di carne e ossa, immersi nel mistero del loro tempo e delle loro scelte. Il rapporto con il divino, il senso della legge, la tensione tra libertà e obbedienza sono temi che emergono con forza da questo confronto, dove la scrittura sacra si rivela ancora una volta libro vivo e capace di parlare al presente. Un'opera che riporta la Genesi alla sua dimensione originaria: testo da interrogare, da raccontare, da far risuonare nel tempo. Un libro che è incontro tra narrazione e interpretazione, tra poesia e sapere, tra voce e ascolto. Due voci, due modi di leggere la scrittura sacra. Erri De Luca narra la Genesi con la forza della letteratura, Haim Baharier ne esplora i significati nascosti, attraverso la profondità della tradizione esegetica ebraica. Un dialogo tra parola e interpretazione, tra poesia e studio, tra racconto e ricerca del senso. Un libro che riporta la Scrittura alla sua essenza più viva: essere letta, interrogata, riscoperta.
«Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti. E i profeti la trasmisero agli uomini della grande sinagoga. Questi dissero tre cose: siate cauti nel giudizio; educate molti scolari; fate una siepe intorno alla Torah». Queste parole del trattato di Abot contengono una promessa di fecondità e disseminazione: la pietà di Israele ha saputo congiungere la Voce divina del Sinai alle discussioni dei maestri e dei discepoli che hanno normato tutti gli aspetti della vita ebraica, fino a imprimersi - in una catena ininterrotta - sulle pagine del Talmud. La «siepe dei maestri» è un recinto pensato per custodire quel tesoro di sapienza inestimabile, destinato ad essere apprezzato da un uditorio più ampio. Disponendosi su questa soglia, Matteo Bergamaschi accoglie le scintille che promanano da quella tradizione secolare, irradiando il loro chiarore fino a noi. Sono trentasette luci dai trattati talmudici per illuminare il nostro comune essere umani.

