
Preceduti da un ampio e illuminato saggio di Remo Bodei, sono qui presentati i più importanti testi hölderliniani sulla filosofia e l'essenza del tragico. Composti tra il 1795 e il 1804, essi offrono l'immagine di un pensatore originale, la cui opera teorica non è inferiore a quella poetica. Hölderlin, infatti, pur nel costante dialogo con i grandi contemporanei, si pone alla confluenza di antiche tradizioni filosofiche. Con produttiva inattualità rivendica così al presente, a un'epoca segnata dalle lacerazioni di un "caos" politico rigeneratore, l'eredità di Empedocle e dei "presocratici", accanto a quella del panteismo eretico di Vanini e Spinoza. Egli scopre in tal modo per primo un mondo ellenico oscuro, ctonio, "orientale" e panico - come è rivelato dalla tragedia -, specularmente opposto alle figure solari della Grecia di Winckelmann e di Schiller.
I due saggi sul suicidio e sull'immortalità che aprono questa raccolta di scritti morali di David Hume furono pubblicati - anonimi e senza indicazione dell'editore - solo nel 1777, dopo la morte del loro autore. Con prosa lucida, semplice ed efficace, il filosofo inglese smonta implacabilmente una dopo l'altra le impalcature della morale religiosa, svelando l'infondatezza della pretesa di limitare la libertà individuale in nome delle paure e delle speranze che accompagnavano le credenze nella vita eterna, nel paradiso e nell'inferno. Le sue proposte teoriche - sui temi più disparati, dal suicidio al matrimonio, dalle relazioni tra i sessi alle virtù della castità e della modestia - sorprendono per la radicalità e l'affinità con il pensiero contemporaneo. In queste pagine Hume elabora una prospettiva secolare e naturalistica sull'etica percorrendo in modo chiaro e comprensibile analisi e argomentazioni radicate nell'esperienza comune. Ne emerge una visione equilibrata e razionale della natura umana: "paradiso e inferno presuppongono due distinti tipi di uomini, i buoni e i cattivi, mentre la maggior parte dell'umanità oscilla tra il vizio e la virtù".
Basta un viaggio in un paese lontano, il contatto con persone che vivono in condizioni completamente diverse dalla nostra, l'incontro con una povertà che ci appare insuperabile o con un esempio di vita ascetica in un monastero remoto per mettere in crisi le nostre risposte a tutti quegli interrogativi che accompagnano da sempre la vita dell'uomo. Ma è alla dimensione trascendente che bisogna fatalmente guardare? Non secondo l'autore, che opta per una ricerca di tipo individuale e soggettivo, nella convinzione che ciascuno abbia il diritto di realizzare il proprio modo di dare un senso all'esistenza, ovviamente senza nel fare ciò danneggiare gli altri.
Se il telefono suona, siamo di fronte a due possibilità: James Bond può alzare il ricevitore oppure no, e questo naturalmente può indirizzare il racconto in due direzioni completamente diverse. In questa conversazione inedita con Paolo Fabbri, registrata a Firenze nel dicembre del 1965, Roland Barthes affronta il tema dell'analisi strutturale dei racconti a partire dalle intuizioni di Vladimir Propp, che suscitarono un dissidio teorico tra Claude Lévi-Strauss e Algirdas J. Greimas. E così, dall'Odissea a Sherlock Holmes, da Don Chisciotte a Madame Bovary, il racconto viene esaminato come un'architettura e una stratigrafia di sequenze. Postfazione di Gianfranco Marrone.
Questo manoscritto del 1941 affronta e sviluppa il concetto fondamentale che ha animato il grande confronto del pensatore con l'impronta greca della tradizione filosofica occidentale e che lo ha condotto a proclamare la fine della filosofia e la necessità di un altro inizio del pensiero. Comprendere veramente Heidegger significa giungere a condividere la ricerca di un principio della storia che ancora ci precede e in tal senso le possibilità che ancora attendono di essere tradotte nei sentieri del pensiero a venire. Questa edizione è arricchita da apparati che permettono di addentrarsi nel lessico che governa il pensiero di Heidegger e particolarmente i manoscritti degli anni '30 e '40.
Riflettere sulla morte. La maggior parte di noi si sforza di non farlo: la morte è un argomento sgradevole, spaventoso, che cerchiamo di bandire dalla nostra mente e dalle nostre conversazioni. Affidandoci a credenze e argomentazioni rassicuranti, ci convinciamo che la morte non è la fine di ogni cosa, che non siamo soltanto semplici corpi destinati a dissolversi nel nulla, oppure che l'anima esiste ed è immortale, che la vita è un dono così prezioso che il suicidio non può mai essere una decisione razionale e sensata. Soprattutto, che la morte rimane un mistero, profondo e insondabile. Secondo Shelly Kagan, professore di filosofia alla Yale University, tali credenze, sottoposte al vaglio della logica, si rivelano per quello che sono realmente: illusioni che abbiamo costruito per arginare le nostre paure più irrazionali. Infatti, sostiene Kagan, nonostante quanto affermino alcune grandi tradizioni filosofiche e religiose, noi esseri umani siamo soltanto macchine. Macchine stupefacenti, certo, capaci di amare, sognare, creare, progettare. Ma comunque macchine. E quando la macchina si rompe, tutto finisce. La nostra vita finisce. Ineluttabilmente. E dopo non c'è più nulla. Nessun mistero da svelare, nessuna luce bianca da raggiungere. Per quanto riguarda il morire, dunque, sembra non ci sia altro da dire. Ma se «il significato della vita sta nel fatto che finisce», come scriveva Kafka, se è vero che «si va in scena» una volta sola e che non è prevista una seconda chance, allora la morte diventa un momento eticamente cruciale, che decide della nostra intera esistenza e ci pone di fronte a domande impossibili da eludere: come dobbiamo vivere? Dobbiamo essere responsabili della nostra vita? Abbiamo il dovere di non sprecarla? Che cosa conta davvero? E come si devono affrontare questioni essenziali quali il fine vita, l'eutanasia, la moralità del suicidio? Basato sulle lezioni tenute per diversi anni alla Yale University e diventate in seguito parte del progetto «Open Yale Courses», "Sul morire" si presenta come un raffinato esercizio intellettuale, stimolante e al tempo stesso provocatorio, divertente e tuttavia profondo. Dalla dottrina dell'anima di Platone al dualismo cartesiano, dalle riflessioni sul male della morte di Thomas Nagel agli esperimenti mentali di Robert Nozick, Kagan ripercorre il «catalogo» delle idee sulla morte e, attraverso un ininterrotto e coinvolgente sfoggio di arte maieutica, ci aiuta a liberarci di luoghi comuni e pregiudizi, accompagnandoci alla scoperta di un nuovo senso delle cose. «Possiamo essere tristi perché moriremo, ma questo sentimento dovrebbe essere compensato dalla consapevolezza di quanto siamo stati fortunati per avere avuto l'opportunità di vivere.»
Un marito, sposato da otto anni. Uno scienziato del matrimonio che conosce tutte le meraviglie dell'istituzione più antica del mondo. E la difende replicando ad ogni possibile obiezione. È lui il protagonista di questo scritto di Kierkegaard. Di mestiere fa il giudice. E qui prepara un appello puntiglioso e impeccabile a favore del matrimonio. Ad uso del marito fedele. Perché solo il marito è un vero uomo. Solo il marito è un uomo felice. Diceva il filosofo Gorgia: "L'illuso è più saggio di chi illuso non è". Ma sarà proprio così?
Costante, nella tradizione filosofica, è stata l'argomentazione della teodicea: discolpare Dio dei mali del mondo, per giustificarne la bontà. Il Novecento - accanto a un ritorno di quell'argomento trasformato in domanda sull'assenza di Dio ad Auschwitz - sembra consegnare al pensiero un'altra sfida: demitizzare il concetto di male assoluto, per far fronte agli orrori che gli uomini procurano a se stessi e ai propri consimili. Quelle sofferenze causate dalle ideologie protese alla realizzazione nella storia di un valore assoluto. E la filosofia, distanziandosi criticamente dalle tentazioni idolatriche, è invitata a trasformarsi in "etica del finito", "cura di sé": un sapere dove gli uomini trovino, a partire dalle tradizioni anche religiose dalle quali provengono, le parole per gli enigmi del male - quelle parole che offrano loro disincanto, responsabilità e amore del prossimo. Amore che è insieme custodia e pietas degli altri e di sé.
Rallentare il ritmo. Ascoltare gli altri, rivolgere maggiore attenzione alle cose che ci circondano. E indulgere, perché no, al dolce far niente. In un mondo dominato dalla fretta (di arrivare primi, di diventare grandi, potenti, ricchi), a volte fa bene resistere all'imperativo della velocità e dell'efficienza È il modo più saggio di stare al mondo, secondo un maestro del saper vivere come Pierre Sansot In questo elogio della lentezza, una voce fuori dal coro ci esorta in maniera divertente e contagiosa a dare al tempo qualche chance in più: aspettare, passeggiare senza meta, sognare, scrivere, gustare la buona tavola e il buon vino. Assaporare ogni giorno e ogni istante, fino in fondo.
Nella prima parte: La polarità antropologica individuo-comunità, che raccoglie i contributi dei professori Belardinelli, Botturi e Lanza, abbiamo voluto presentare una riflessione articolata a più voci sulla polarità antropologica individuo-comunità. Il tema delle polarità antropologiche, che si rifà al pensiero del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar.
Nella seconda parte - riflessioni sul buon governo. In essa si raccolgono sei contributi provenienti da diversi ambiti disciplinari: il diritto, la filosofia politica, la sociologia, la psicologia e l'economia. Gli autori non affrontano, come nella prima parte, un tema comune, ma sviluppano i loro argomenti a partire dal proprio ambito disciplinare e secondo accenti diversi.
La modernita' si sta suicidando. Non tanto perche' le radici cristiane non fanno piu' parte della sua memoria, quanto perche' la laicita' non e' piu' parte costitutiva del suo orizzonte o, almeno, rischi di non esserlo piu'. Proprio la laicita', in questa vicenda,e' la grande straniera, l'assente, l'elemento rimosso.