La storia di Giancarlo Rastelli, oltre ad essere quella di uno scienziato riconosciuto in tutto il mondo per i risultati delle sue ricerche cardiovascolari, colpisce più di tutto per l'esaltazione della normalità. Gian, come lo chiamavano amici e colleghi, è stato un medico, un ricercatore brillante, ma soprattutto un grande uomo, umile, guidato da un profondo amore per la vita e da una vocazione sincera, un marito e un padre che ha saputo affrontare la malattia e la morte. «Gian era stato educato in famiglia ai principi della fede cristiana, e questi principi e questi ideali, vissuti in maniera gioiosa, adulta, senza pietismi ma con profonda convinzione, sono stati la bussola e i mezzi di discernimento di tutta la sua vita. E sono stati la forza che lo ha sostenuto negli anni della malattia e della sofferenza fisica e morale. Infine sono stati la ragione della sua grande speranza fino all'ultimo» (Umberto Squarcia). La bellezza e l'armonia della sua vita, la profonda spiritualità e la costante dedizione alle virtù cristiane hanno affascinato così tante persone da richiedere l'avvio della causa di beatificazione. Nel 2005 l'allora vescovo di Winona (Minnesota), Bernard Joseph Harrington, ha concesso il nulla osta alla Diocesi di Parma per l'apertura della causa, adducendo come ragione la compassion for mankind e l'eroismo con cui Giancarlo Rastelli ha vissuto gli ultimi anni della sua vita, nel totale abbandono alla volontà del Padre.
«Ciao Burgio. Stammi bene e prega Allah che ti dia la sua retta via e ci guida verso sé nella sua luce inshallah il paradiso...». È l'ultimo messaggio inviato tramite un sms da Monsef a don Claudio Burgio. Porta la data di sabato 17 gennaio 2015. Monsef, che per quasi cinque anni ha vissuto nella comunità di accoglienza per ragazzi in difficoltà Kayròs, è partito all'improvviso, insieme con Tarik. Destinazione: Siria. Sono diventati combattenti di Daesh. Monsef è il più giovane jihadista partito dall'Italia alla volta dell'autoproclamato e sedicente Stato islamico. Tra l'incredulità e la riflessione, una lunga lettera del sacerdote formatore a Monsef per entrare senza reticenze nel dramma di questa storia e, al contempo, per invitare a riflettere sul senso dell'educare e del trasmettere la fede in Dio.
Il 24 marzo 1980 Óscar Arnulfo Romero, l'arcivescovo di San Salvador, venne assassinato mentre celebrava l'Eucaristia. Morte annunziata, per il suo popolo. Negli ultimi tre anni Romero era divenuto la «voce di denunzia più lucida e attendibile del Paese»: punto di riferimento obbligato e il solo capace di rendere la dignità rubata a migliaia di vittime, passate alla storia. Per comprendere la sua figura è necessario guardare al suo popolo. Lui, infatti, mai sarebbe diventato profeta se non gli fosse toccato d'essere vescovo di un popolo già profetico, né mai avrebbe avuto il coraggio di arrivare fino al martirio, se non gli fosse toccato d'essere vescovo di tal popolo martoriato.
Ottobre-novembre 1917, dodicesima battaglia dell'Isonzo, disfatta di Caporetto. Di quel tragico momento sente l'eco il giovane ufficiale medico Filippo Petroselli, appena trasferito con il suo reparto a Bassano del Grappa. «Non dite - avverte - che il soldato italiano ha tradito.» E nelle sue memorie ammonisce: «Ricordatelo! La guerra non purifica. È una menzogna! La guerra è una melma che tutto copre e imputridisce». Già in Libia con gli alpini, Petroselli ama la «santa immagine della patria». Ma è intriso di spirito cristiano, e in lui amor di patria e pietà per il costo umano della Grande Guerra si confondono in una lettura critica degli eventi. Scritte nel 1920-21, le sue memorie antiretoriche, talvolta ironiche, talvolta cupe, sempre realistiche, aprono uno spaccato sul clima culturale italiano del travagliato secondo decennio del Novecento. Risorgimentale "riluttante", formatosi in un ambiente familiare e sociale clericale, il primo conflitto mondiale è stato per Petroselli l'«inutile strage» di Benedetto XV.
Il selvaggio contemplativo, il sognatore con i piedi nel fango e il costruttore di ponti. Sono le tre anime di Don Armando Zappolini, quelle che, intersecandosi, fanno di lui un uomo, un prete e un prete sociale. Don Armando è parte di quella "Chiesa di strada" di cui tanto parla Papa Francesco: fatta da uomini e donne che vivono il loro impegno accanto alla sofferenza, nelle comunità di accoglienza, vicino alla gente e a tutti coloro che "non si sono mai sentiti a casa". Quella parte della Chiesa dimenticata che, con Papa Francesco, ritorna ad avere voce. «Conosco Armando da anni, eppure leggere queste pagine appassionate, nelle quali ripercorre la sua storia di uomo e di prete, è stata una sorpresa e un piacere. Una sorpresa perché sono venuto a conoscenza di episodi che ignoravo e a cui magari Armando stesso non aveva dato troppo peso, salvo riconoscerne a distanza di tempo il profondo significato». (Don Luigi Ciotti)
Oltre 300 lettere, molte delle quali pubblicate per la prima volta in questo libro, compongono il copioso epistolario tra don Primo Mazzolari e i vescovi della sua diocesi di Cremona: Geremia Bonomelli, Giovanni Cazzani e Danio Bolognini. Si tratta di un vero e proprio patrimonio di spiritualità, che permette di approfondire le diverse stagioni del ministero sacerdotale del parroco di Bozzolo e di mostrare il suo rapporto filiale con l'autorità ecclesiastica, senza nascondere incomprensioni e crisi. Anche i vescovi fanno emergere i loro diversi temperamenti e il loro differente approccio nei confronti di Mazzolari. L'epistolario è un utile tassello per approfondire la figura del parroco, ma anche per sondare la spiritualità cristiana come luogo di incarnazione e di decisioni, soprattutto in merito al tema tanto discusso dell'obbedienza. Le lettere mostrano la fatica della fedeltà al vangelo e rivelano schiettezza, apertura di cuore, fiducia, sostegno, dubbi, incoraggiamenti, condivisione, ragionevolezza. Un quadro di fede e di amore alla Chiesa tutt'altro che scontato.
L’amore di Dio rivelato al modo attraverso il Sacro Cuore di Gesù e di quello Immacolato di Maria è il messaggio fondamentale per il mondo e la Chiesa di oggi, come rivelato dalla Vergine a Fatima nel 1917. Una tale devozione, che risale all’opera di Giovanni Eudes e di Margherita Maria Alacoque nel XVII secolo, trova una colonna fondamentale in Suor Maria del Divin Cuore, al secolo Maria Droste zu Vischering (1863-1899). Questo libro ne ricostruisce la storia, dalla sua educazione in una delle famiglie più aristocratiche della Westfalia al suo ingresso nell’Ordine delle Suore del Buon Pastore, prima a Münster e poi a Lisbona, dove fu nominata Superiora. Sostenitrice instancabile delle opere di carità, promosse la consacrazione del mondo al Sacro Cuore di Gesù, effettuata da papa Leone XIII nel 1899 con l’enciclica Annum Sacrum, fino a essere beatificata da papa Paolo VI nel 1975.
Il popoloso quartiere di Scampia, all'estrema periferia nord di Napoli, è divenuto l'emblema del degrado e dell'abbandono. Tra i principali mercati italiani della droga e con uno dei tassi di disoccupazione più alti del Paese, è stato ripetutamente dipinto come un luogo di violenza, soprattutto per le faide e la dominante presenza della camorra, che governa lo spaccio e l'occupazione abusiva delle case popolari. Eppure questo concentrato di sofferenza, dove molte famiglie hanno la maggioranza dei componenti in carcere, non è solo il fondale del film Gomorra di Matteo Garrone, girato in parte all'esterno e all'interno delle "Vele", i mastodontici palazzi di edilizia popolare costruiti negli anni Sessanta e Settanta. Anche in questa polveriera sociale, infatti, molte cose stanno cambiando. Anno dopo anno è cresciuta una rete di associazioni che ha dato vita a un laboratorio di sartoria e a una biblioteca, a un'orchestra di bambini e a progetti contro la dispersione scolastica, a un caffè letterario e a corsi di formazione professionale, ad attività artistiche e sportive, a un portale internet. Perché, come sostiene in queste pagine il gesuita Fabrizio Valletti, «anche a Scampia si può sognare, si può cercare di vivere insieme nella legalità e nella libertà». Ed è possibile, soprattutto attraverso la scuola, modificare l'immaginario simbolico dei moltissimi ragazzi del quartiere.
Per secoli, nel mondo cattolico, Lutero è stato definito «l'eretico» per definizione, mentre il mondo protestante lo ha considerato, di volta in volta, il combattente che avversa il papato, il liberatore dalle tenebre del medioevo, il genio religioso della Germania e il padre della lingua tedesca. A cinquecento anni dalla Riforma, un evento che si colloca alle origini del mondo moderno e che ha segnato profondamente la storia del cristianesimo e dell'Europa, è necessario accostarsi al monaco agostiniano mettendo da parte secoli di guerre di religione e annose controversie teologiche. Lutero si poneva davanti alla Chiesa di Roma, cui era sinceramente legato, con quella autonomia di giudizio che rifiuta l'obbedienza acritica a direttive che vengono dall'alto. Per capire la forza che ha animato il suo pensiero e la sua azione occorre soprattutto ritornare al suo tempo, al suo mondo, alla sua teologia e alla Bibbia, il cui insegnamento rappresentava il ritorno alle fonti del cristianesimo.
Dal ritrovamento di documenti inediti in italiano emerge la singolare vita di un frate tedesco, fervente patriota, morto ad Auschwitz per aver aiutato gli ebrei. Aniceto Koplin, cappuccino, autore di testi poetici e articoli scientifici, intesse in gioventù le lodi del soldato tedesco e del suo eroismo ed è un convinto sostenitore della potenza germanica e della funzione della guerra. Il suo patriottismo subisce però un notevole contraccolpo mentre si trova a Varsavia, la prima città europea occupata da Hitler. Cambia allora il suo cognome in Kopli?ski per solidarietà con la nazione polacca e dedica la maggior parte del suo tempo ai poveri. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la capitale viene occupata dai tedeschi e viene istituito il ghetto. Padre Aniceto aiuta gli ebrei a nascondersi e fabbrica per loro certificati falsi. Il suo disprezzo nei confronti della Germania hitleriana diviene manifesto. Arrestato e condotto ad Auschwitz, vi troverà la morte. Viene beatificato nel 1999.
Ancora un libro di don Antonio Mazzi!?! Sì, ma questa volta è la sua autobiografia: finalmente si può capire cosa ha in quella testa così bacata da proporre idee e pensieri che fanno impazzire alcuni e incazzare altri, tanti altri. Soprattutto però mette a nudo il suo cuore, un cuore grande, così grande da riempirsi di tutte le debolezze, le fragilità, le schifezze che gli altri volentieri schivano o fanno finta di non vedere. «In questo libro non esiste la logica e, tanto meno, la continuità. Esiste la mia anima, perforata dalle vicende che la vita e il Padreterno mi hanno elargito con generosità. Un'anima che va avanti e indietro tra episodi, preghiere, riflessioni, dubbi, domande, gioie, tragedie. Ho raccontato perciò, alla mia maniera, la mia vita. Ripeto: non c'è logica, ma solo la mia anima sgangherata, la mia spiritualità grossolana, sparpagliata tra notti insonni, piccole vittorie, disfatte oceaniche e preghiere dislessiche. Perché in tutto questo ci sta il mio Dio. Non lo dico "mio" perché lo possiedo. Lo dico mio perché non so se sia anche quello degli altri, dei cosiddetti normali».
Il volume racconta la vita di Marianna Fontanella - la Beata Maria degli Angeli - , vissuta a Torino dal 1661 al 1717; monaca Carmelitana nel monastero torinese di Santa Cristina, ebbe doni straordinari e le vicende della sua vita si intrecciano con quelle di Casa Savoia. La biografia ripropone la sua testimonianza a quattro secoli dalla sua morte ed è arricchita da documenti inediti frutto della ricerca storiografica dell'autrice.