
Il libro prende lo spunto dalla domanda: è possibile educare, dal momento che sia nel mondo ecclesiale che in quello laicale si parla sempre più frequentemente di emergenza educativa? La risposta è positiva, a patto che si verifichino determinate condizioni. Questa la struttura del libro: siamo in situazione di emergenza educativa (cap. 1), che si concretizza soprattutto nel bullismo a scuola (cap. 2). L'esperienza educativa di Don Bosco nella scuola (cap. 3). La scuola come comunità educativa (cap. 4). La relazione del docente con allievi, colleghi, genitori (cap.5). Stili e strategie nella dinamica apprendimento/insegnamento (cap. 6). Quando manca la volontà (cap. 7). Scuola e famiglia: una relazione complessa (cap. 8). Come aiutare i figli a crescere (cap. 9).
Il volume fa seguito - anche nel titolo - al precedente "Educare si può" (2010). Il libro ha una struttura molto semplice. Ogni capitolo è diviso in due parti: analisi del problema e suggerimenti per l'intervento educativo, sempre attraverso testimonianze e fatti concreti. Le situazioni prese in esame riguardano il mondo interetnico e interculturale, la famiglia, i giovani, la comunicazione tra docenti e studenti, il successo e l'insuccesso scolastico, i compiti a casa, la crescita armoniosa degli adolescenti, il burnout degli insegnanti, l'orientamento, come modalità educativa permanente.
Per educare in famiglia a scuola si richiede intelligenza del cuore, che non sta solo nei manuali, ma nella capacità di aprirsi all'altro dell'educatore, cioè nel suo volere amare l'altro in quanto soggetto e non in quanto oggetto della sua azione educativa. Si pone al servizio di un soggetto dotato di libertà e quindi di un progetto. Rivoluzione copernicana che ogni educatore sa di dover affrontare e senza la quale riceverà solo frustrazioni dal suo ruolo, perché tenderà al controllo, che è il contrario dell'amore: chiude, addestra, invece di aprirsi e servire. Gli oggetti si controllano, i soggetti si amano. La fede cristiana e la visione dell'uomo che essa comporta non esalta un tempo della vita a scapito di un altro, ma vede in ogni stagione la possibilità di essere quell'uomo che è inscritto nella mia carne e di usare quelle potenzialità che sono mie e che sono chiamato a sviluppare in modi divezzi.
Perché le tre religioni monoteistiche, pur avendo un capostipite comune, non hanno mai cessato, sul piano storico, di dar luogo a violenze e a guerre estremamente feroci e sanguinose? È possibile pensare a un impulso fratricida? Sarà mai possibile prospettare una soluzione duratura in nome del riconoscimento della comune paternità?
Se è vero che solo attraverso l’incontro fra culture e religioni differenti e anche violentemente contrapposte sarà possibile trovare una via d’uscita dalla crisi odierna di un mondo frammentato, in cui non esiste più alcuna garanzia contro l’auto-sterminio dell’umanità, nessuna cultura o religione può considerarsi sovranamente auto-sufficiente e strumento esclusivo di salvezza. E nessuna gerarchia fra le varie religioni e le varie culture come sistemi di simboli e significati appare oggi sostenibile. Solo l’accettazione e la convivenza di culture e religioni diverse mediante l’elaborazione del concetto e della pratica di «co-tradizioni culturali» sembrano aprire una via d’uscita dalle contraddizioni che oggi pesano sulla vita quotidiana dell’umanità e ne segnano duramente il destino.
Sommario
1. La crisi della coscienza storica europea. 2. Il minimalismo suicida. 3. «Pubblico» non è solo «statuale». 4. Le radici culturali della coscienza storica. 5. La forza delle differenze. 6. Il multilinguismo non è la nuova Babele. 7. Elogio della crisi. 8. Abitanti del villaggio e cittadini del mondo. 9. Una geopolitica di grande complessità. 10. Oltre il pregiudizio eurocentrico. 11. Convivere culturalmente. 12. Il viaggio salvifico condiviso.
Note sull'autore
Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all’Università di Roma «La Sapienza», direttore della rivista La Critica sociologica, è stato deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963. Tra i fondatori, a Ginevra, del Consiglio dei Comuni d’Europa, ha assunto la responsabilità della divisione Facteurs sociaux dell’Ocse. Nominato Directeur d’études alla Maison des Sciences de l’Homme di Parigi, ha ricevuto il premio per la carriera dall’Accademia nazionale dei Lincei ed è stato nominato Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica. Con EDB ha pubblicato: La religione dissacrante. Coscienza e utopia nell’epoca della crisi (2013); Rivoluzione e trascendenza (2013); La concreta utopia di Adriano Olivetti (42016); Scienza e coscienza. Verità personali e pratiche pubbliche (2014); Elogio del piromane appassionato. Lettura e vita interiore nella società digitale (2015); Al Santuario con Pavese. Storia di un’amicizia (22016); Il conte di Vinadio. Felice Balbo e il marxismo come eresia cristiana (2016); Attualità di Lutero. La Riforma e i paradossi del mondo moderno (22017); Un greco in via Po. Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano (2017); Il viaggiatore sedentario. Internet e la società irretita (2018).
Si è a lungo parlato del nuovo millennio come di un tempo contrassegnato dal crollo dell'esperienza religiosa, dal trionfo dell'irrazionale, dalla secolarizzazione, dal "disincanto" e dall'eclissi del sacro, che si presenta in ambito cattolico come l'equivalente della filosofia della crisi nella cultura laica. Eppure - afferma il sociologo Franco Ferrarotti in questo saggio - sta accadendo esattamente il contrario. Nuove forme di razionalità premono dietro la facciata chiusa e dogmatica delle strutture istituzionali della tradizione e la crisi che attraversa le chiese non tocca, ma paradossalmente stimola, l'emergere di nuove forme di associazione di base che consentono di riscoprire in profondità l'esperienza religiosa come "irruzione della grazia". Il sacro non è solo ciò che è determinato e amministrato dalla gerarchia ecclesiale, ma la riscoperta del mistero di Dio, del servizio all'uomo e della tensione collettiva verso un progetto. In questo senso, esso sta alla base di ogni convivenza per consentire alla società di non perdere la propria coscienza problematica e di non privarsi della funzione sociale dell'utopia.
Imprenditore illuminato, "utopista tecnicamente provveduto", sindaco e deputato al Parlamento, Adriano Olivetti (1901-1960) è stato uno degli italiani più originali e lucidi del Novecento. Idealmente inserito nel solco della tradizione di un socialismo consapevole e riformista, ha intuito con anticipo la crisi dei partiti politici e dei sistemi urbani metropolitani.
Uomo intimamente religioso, di padre ebreo e madre valdese, si era convertito al cattolicesimo, leggeva con passione Emmanuel Mounier, Jacques Maritain e Simone Weil e amava costellare i suoi discorsi di citazioni evangeliche. Laureato in Chimica industriale al Politecnico di Torino, Olivetti aveva soggiornato negli Stati Uniti per studiare i metodi produttivi e la struttura organizzativa delle grandi fabbriche americane, un'esperienza che lo aveva portato a rinnovare radicalmente l'azienda paterna di Ivrea - la prima a produrre in Italia macchine per scrivere - trasformandola in una multinazionale. Alla ricerca di un rapporto armonico tra città e campagna, fra industria e comunità - ma senza angustie municipaliste e paternalismi strapaesani - Olivetti aveva rinunciato al sistema a cottimo e aveva modificato la catena di montaggio affinché la sua fabbrica diventasse un modello di socialità e di industrializzazione senza disumanizzazione.
Sommario
Prefazione. L'uomo e le sue idee. Un imprenditore creativo. Politica e comunità. La terza via. Vangelo e rivelazione. Documenti. La Dichiarazione di Ivrea 22 gennaio 1955. L'esperienza sindacale di Ivrea. Il «Fordismo».
Note sull'autore
Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all'Università La Sapienza di Roma, direttore della rivista La Critica sociologica, deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963, è stato tra il 1948 e il 1960 tra i più stretti collaboratori di Adriano Olivetti. È stato tra i fondatori, a Ginevra, del Consiglio dei Comuni d'Europa nel 1949, responsabile della divisione Facteurs sociaux dell'Ocse a Parigi. Nominato Directeur d'etudes alla Maison des Sciences de l'Homme di Parigi nel 1978, è stato insignito del premio per la carriera dall'Accademia nazionale dei Lincei nel 2001 e nominato Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica dal presidente Ciampi nel 2005.
La guerra e la resistenza, le notti nelle piòle per celebrare la "frase giusta" nelle traduzioni per Einaudi, i consigli e le domande che viaggiano tra Torino e Londra, i discorsi sulla fede. Un'amicizia che si alimenta di ammirazione intellettuale e concretezza, di dialoghi e di silenzi, ma anche di insolite proposte: convincere il regista di "Riso amaro" ad assegnare a Ferrarotti e non a Gassman la parte del "cattivo" nel film con Silvana Mangano.
«Nel giugno del 1945, a Torino, leggo un annuncio sul giornale. Una famiglia facoltosa sta cercando un precettore di lingua inglese a domicilio. Mi precipito, ma nella fretta sbaglio piano. Mi apre un signore distinto, magro, con gli occhi chiari, in vestaglia di seta. Non vuole saperne di lezioni di inglese, ma io sono senza un soldo, ho bisogno di lavorare e digiuno da almeno dieci ore. Lo convinco che l’inglese è la lingua del futuro. Mi fa entrare. Mi dà da mangiare. Parliamo per due giorni e due notti. Lui è Felice Balbo, conte di Vinadio, ancora convalescente a causa di un malanno contratto da ufficiale del Regio Esercito in Albania. È un uomo complesso e profondo. Intuisce che il marxismo, nelle sue molteplici incarnazioni, altro non è che un’eresia del cristianesimo. Nel modo più insolito, inizia un’amicizia profonda che si interromperà solo con la sua morte».
«E' morto da qualche anno. Da quanti? Non lo so. Non voglio saperlo. Per me è ancora qui, si aggira silenzioso fra noi. Il dialogo cominciato settant'anni fa è ancora aperto. Il silenzio dei morti è eloquente. Basta saperlo ascoltare». «Nicola Abbagnano aveva imparato per tempo a rinunciare, in parte almeno, alla vitalità in favore della serenità, all' emotività anche geniale per restare fedele all' imperativo della misura. In questo senso era un greco nell' accezione classica del termine, un greco apollineo e imperturbato, più che dionisiaco». Con questo ritratto del filosofo che fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza di Heidegger, Jaspers e Sartre, Franco Ferrarotti conclude un'ideale «teatralogia dell'amicizia», inaugurata con la figura di Adriano Olivetti e proseguita con Cesare Pavese e Felice Balbo. Gli incontri all' Università di Torino in anni «che sanno ancora di guerra», il confronto tra le aspirazioni e i metodi della filosofia e della sociologia, le lunghe silenziose passeggiate fianco a fianco che solo una rara e raffinata intesa può spiegare. «E' forse venuto il tempo - scrive Ferrarotti - per una riconsiderazione serena di quel nesso fra esistenza, progetto, ricerca sociale che non ha nulla di artificioso o di occasionale, ma che al contrario si lega necessariamente all' insieme del pensiero di Abbagnano come suo sbocco necessario».
"Accendere la passione per la lettura è un processo misterioso. Non ci sono regole e non si danno istruzioni per l'uso. È in gioco la motivazione. Il docente appicca un fuoco destinato a bruciare in modo autonomo. Non è solo un docente. Casualmente, come accade, è un piromane". Quando Stendhal scopre che del suo libro De l'amour, dopo anni dalla pubblicazione, si sono vendute solo tre copie si fa dare dal libraio l'indirizzo dei tre compratori e vuole conoscerli di persona per chiedere loro un giudizio su quelle pagine. Oggi anche gli scrittori dispongono di profili Facebook e i lettori hanno dimestichezza con i mezzi di comunicazione elettronicamente assistiti, che velocizzano ogni ricerca, ma ridimensionano la funzione che la pagina scritta ha sempre esercitato: il raccoglimento interiore e la conoscenza di sé. Il pamphlet di Franco Ferrarotti riassume i rischi individuali e sociali del tramonto della "civiltà della carta" e critica la pervasività del digitale. "Non credo, come molti dicono, che si tratti solo di usare bene Internet. Usato bene o male, questo straordinario strumento ha effetti collaterali inevitabili: schiaccia sul presente, non consente il ritorno critico su di sé e sulle proprie esperienze passate, attenua il vincolo logico nella costruzione delle proposizioni, privilegiando l'affastellamento dei temi su un piano orizzontale".
Alle origini della democrazia, nell’Atene di Pericle, solo al presidente della boulé, il consiglio cittadino, era consentito prendere appunti sulla sua tavoletta di cera. Gli altri membri dovevano parlare a braccio, per garantire la sorgiva sincerità del confronto faccia a faccia. Oggi, al tempo di Internet, si può comunicare tutto a tutti, in tempo reale, su scala planetaria, ma non c’è più nulla da comunicare di umanamente significativo e profondo. Si sono persi il contatto diretto, il linguaggio del corpo, il fatto e l’antefatto, il peso e la complessità dell’esperire umano. Tutto è semplificato, alleggerito, velocizzato. Basta cliccare. Ma l’uomo numerico è preciso e svuotato nello stesso tempo. È rapido, veloce, perpetuamente nomade o navigatore nell’oceano-pattumiera del web, ma sedentario. Vede tutto e non tocca niente. È frenetico e immobile nello stesso tempo, informato di tutto e concentrato su niente. Perché nella nostra società irretita, sempre interconnessa e fragilissima, Internet e gli altri innumerevoli media celebrano e consacrano la confusione fra valori strumentali a valori finali.
Sommario
Prologo. I. Il miracolo dell’«ordine sociale». II. Macchina e persona. III. Filosofia della miseria e miseria della filosofia. IV. Alienazione e relazione umana. V. La protesta che non propone. VI. L’atrofia della memoria come collante sociale. VII. La socialità fredda e superficiale. VIII. La nuova preghiera del mattino. IX. L’avvento degli uomini vuoti. X. Conversare con se stessi. XI. Lacrime di coccodrillo. XII. La realtà de-realizzata. XIII. Il nomadismo sedentario. XIV. Una sfida al momento perduta. XV. I nuovi esclusi. XVI. La vita interiore in pericolo.
Note sull'autore
Franco Ferrarotti, professore emerito di Sociologia all'Università di Roma «La Sapienza», direttore della rivista La Critica sociologica, è stato deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963. Tra i fondatori, a Ginevra, del Consiglio dei Comuni d'Europa, ha assunto la responsabilità della divisione Facteurs sociaux dell’Ocse. Nominato Directeur d’études alla Maison des Sciences de l'Homme di Parigi, ha ricevuto il premio per la carriera dall'Accademia nazionale dei Lincei ed è stato nominato Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica. Con EDB ha pubblicato: La religione dissacrante. Coscienza e utopia nell'epoca della crisi (2013); Rivoluzione e trascendenza (2013); La concreta utopia di Adriano Olivetti (22016); Scienza e coscienza. Verità personali e pratiche pubbliche (2014); Elogio del piromane appassionato. Lettura e vita interiore nella società digitale (2015); Al Santuario con Pavese. Storia di un'amicizia (22016); Il conte di Vinadio. Felice Balbo e il marxismo come eresia cristiana (2016), Attualità di Lutero. La Riforma e i paradossi del mondo moderno (22017).
«Sarai sempre e solo un uomo di carta». L’impietosa sentenza del padre che rimprovera al figlio l’amore per i libri riaffiora alla memoria a distanza di decenni e risuona involontariamente profetica. Nella Bassa Vercellese, fra i miasmi e i vapori delle risaie e gli squarci delle colline del Monferrato, si staglia la figura torva e silenziosa del padre. Un uomo che conosceva i nomi di tutti gli alberi e riusciva a stabilire ad occhio il peso di un cavallo, ma credeva solo in ciò che le sue robuste mani toccavano e odiava l’arroganza del sapere libresco. Nel suo testo più intimo e sofferto, Ferrarotti opera uno scavo quasi archeologico della figura del padre per elaborarne l’incolmabile distanza, salvarne la memoria e riconoscersi pienamente nella profezia dell’«uomo di carta».