
La forma del dialogo appartiene alla letteratura quanto alla filosofia, nella quale ha toccato il suo vertice nella produzione platonica. Senza il dialogo la filosofia, così come la conosciamo, non avrebbe prodotto quei risultati e quei valori ai quali ancora oggi attingiamo. Se la figura di Socrate è addirittura impensabile al di fuori di una relazione dialogica e il suo non sapere non avrebbe senso, potremmo dire che anche una gran parte del pensiero non avrebbe toccato la profondità né il livello artistico che gli va riconosciuto senza il ricorso a questo mezzo. Questo Dialogo filosofico, di Vittorio Hösle, è l'esposizione più completa della storia letteraria e filosofica della forma dialogica, che dalle origini platoniche si estende ai momenti più interessanti e cruciali della nostra cultura. Dalla figura e dal ruolo di Socrate prende piede una trattazione che percorre l'intera storia del pensiero occidentale, con un felice intreccio di autori che ne rappresentano le stazioni più autorevoli. L'esposizione si svolge fluida, da Cicerone, Boezio e Agostino attraverso Abelardo e Lullo, Petrarca, Cusano e Bodin, D'Alembert, Diderot e Hume fino alla nostra epoca (nella quale questa forma sembra in declino) con Feyerabend e Murdoch. Un tema che nella sua complessità e ricchezza tocca l'interesse di ogni lettore.
"Permettetemi un piccolo esame di coscienza su questa pia formula, l'ultimo dogma di un mondo senza dogmi, espressione di disagio e insieme di protesta contro il disagio, vale a dire "il dialogo delle civiltà". Che cosa vuol dire questo mantra, e che fare per esorcizzarlo?". Con queste parole Régis Debray illustra il carattere spesso contraddittorio di un dialogo che pretenda di essere autentico, in particolare del dialogo interreligioso - come quello tra cristianesimo, ebraismo e islam, qui focalizzato dalla prefazione di Salvatore Abbruzzese, segnato da difficoltà che una genuina esperienza dialogica fatalmente comporta. Il testo segna un punto di svolta cruciale, "smitizzante", nella riflessione del dopo 11 settembre.
Il determinismo è stato uno dei temi più discussi nel pensiero occidentale, attraversando campi assai diversi, dalla filosofia alla religione, dalla scienza alla poesia. Ciò sembra dipendere dallo stretto legame che esso intrattiene con una delle questioni centrali nella vita umana: la natura e l'estensione della nostra libertà. Ma il determinismo è davvero una teoria che non lascia scampo al libero arbitrio, trasformando ogni individuo in una marionetta, illuso però nel profondo di essere lui a far muovere lo spiedo? Per rispondere a tale domanda, l'autrice ripercorre le opere degli autori che più hanno contribuito all'elaborazione di tale concetto, mettendo in luce i diversi significati che il determinismo ha assunto nei tre ambiti tradizionali della metafisica (mondo, Dio, uomo).
Il "destino dell'essere" nella ricerca di Emanuele Severino si dispiega nell'analisi puntuale delle concrete determinazioni in cui l'essere storicamente si dà. Per questo motivo il suo discorso filosofico, tenendo ferma la destinazione centrale - l'essere che è e non può non essere -, riesce a scandagliare in maniera decisiva l'ampio spettro dell'umano sapere, dall'economia alla società, con le sue acute analisi sul capitalismo, le ideologie e le forme del potere, così come sull'arte e sul bello quali forme della praxis, ma soprattutto sul dominio inarrestabile della tecnica. Una costellazione di figure in cui si scompone la cosiddetta Follia dell'Occidente, ovvero l'abbandono del senso fondamentale dell'essere. Un'insistenza logica e una lezione di rigore filosofico che incalza chi prenda sul serio la filosofia, spingendo a uscire dal quieto vivere di compromessi che fondano il pensare e l'agire. La filosofia così intesa diviene un pungolo che rende possibile e alimenta il dialogo, quando non dimentichi lo sfondo decisivo e si interroghi sull'orizzonte che dà significato alle cose rinnovandone l'interesse essenziale e che, in principio o in ultimo, risponde alla domanda: che cosa è l'essere? In questa prospettiva tre generazioni di allievi, diretti e indiretti, e studiosi discutono nei saggi qui raccolti Severino, mettendosi appunto in dialogo.
Uno dei maggiori filosofi italiani riflette sul desiderio, tema molto in voga nella recente saggistica italiana. Questo fondamentale tratto antropologico viene letto paradossalmente nella sua valenza positiva, come segno di una mancanza radicale dell'essere umano. È lo spazio dove si manifesta l'alterità a cui è costitutivamente aperto l'uomo, la cui identità dipende dall'altro da sé (come nel bisogno del cibo, ma anche e soprattutto nella relazione). Questa mancanza non può mai essere saturata, come vorrebbe l'inganno della società dei consumi, che infatti si ingegna a contornare le merci di un'aura di desiderabilità estetica sempre nuova. Questa mancanza è piuttosto la radice di un'identità sempre aperta e in movimento, dove l'altro non rappresenta una minaccia, ma la sorprendente possibilità della libertà di realizzare se stessa attraverso l'esperienza. Il saggio termina con un'efficace è inusuale riflessione sul rapporto tra desiderio umano e Dio. Dio non è il compimento del desiderio, a modo di un tappabuchi: sarebbe come una proiezione dell'uomo. Dio è invece la fonte del desiderio, che dilata lo spirito umano nell'incessante è felice rapporto con l'oltre della realtà.
L’acquisizione delle istanze provenienti dal “paradigma evolutivo” genera la possibilità di motivare, tra le tante proposte riflessive, anche il senso della moralità umana. Essa, essendo dimensione propria dell’agire umano, si definisce come costituente essenziale dell’umanità dell’uomo, perché è intrinseca al movimento stesso della sua esistenza, che nello scegliere il proprio progetto di vita sceglie, al contempo, la prospettiva dell’ordine della vita buona e riuscita. Una prospettiva che va oltre la semplice “voglia di vivere” per concretarsi nel “desiderio di essere”, che trova compiutezza nella fioritura dell’umano, la quale, nell’oggi, è il nome etico più adeguato a dire la “ricchezza antropologica”, nelle molteplici attuazioni creative nelle varie fasi delle età della vita. Le riflessioni contenute nel libro, cercando di delineare un’“etica fondamentale”, si pongono l’obiettivo di dare corpo ad un’“etica del compimento umano” come orizzonte di significato che rende ragione del passaggio evolutivo che va dall’ominizzazione all’umanizzazione.
In un intenso dialogo con Francesco Comina e Genny Losurdo, Ágnes Heller, la grande filosofa ungherese, conduce il lettore attraverso un viaggio appassionato sul tema dell'amore, dalle origini del pensiero fino ad oggi. Un viaggio che corre dentro un filo narrativo serrato dove si mescolano le intuizioni dei filosofi con le leggende mitiche, letterarie e artistiche fra eros, philia, agape, amor passio, amor intellectualis e l'etica della cura e del prossimo. Senza dimenticare i riferimenti all'oggi, al rapporto tra amore e politica, in un'Europa bifronte, piena zeppa di paradossi inconciliabili, uscita dal flagello della guerra invocando l'universalità dei diritti umani, la solidarietà, la libertà e poi finita, con la caduta del muro di Berlino, nell'alzare fili spinati, barriere e nuovi muri. Il libro si chiude con uno scritto inedito della Heller, un ricordo vibrante, pieno di amore per i novant'anni dalla nascita di Anna Frank, sua coetanea. Entrambe condivisero la triste sorte riservata agli ebrei stritolati dal nazismo. Ágnes si salvò, dopo la liberazione del ghetto di Budapest, Anna venne invece deportata e uccisa nel lager di Bergen Belsen.
Gli interrogativi sollevati da una rilettura della tradizione fenomenologica ed ermeneutica del Novecento, da alcuni elevata a paradigma filosofico, sono numerosi e non riassumibili in un singolo testo. L'intento è soprattutto quello di ricostruire l'unità del pensiero fenomenologico-ermeneutico, restituendo legami in grado di suggerire una direzione ad un panorama filosofico frastagliato e prospettico. Viene così affrontata nei diversi autori l'ispirazione fenomenologica che, sia pure in nuce con esiti teorici alquanto differenziati, ha comunque caratterizzato unitariamente e originalmente una grande stagione filosofica, annettendo nuovi motivi al tradizionale quadro teorico (Husserl - Heidegger - Gadamer), come il rapporto tra Gadamer e Derrida e il debito fenomenologico di autori quali Lévinas e lo stesso Derrida. Le indagini svolte e gli spunti provocati vorrebbero dimostrare l'importanza e l'attualità di una impostazione di pensiero che ha dovuto fare i conti, fino a considerarsi superata, con le nuove tendenze filosofiche impegnate a ribattere in modo parassitario i risultati delle scienze positive.
Il cuore è uno dei simboli universali della vita affettiva, diffuso in molte civiltà sin dai tempi più antichi. Oggi, tuttavia, questo fondamentale simbolo richiama quasi unicamente un vago e impalpabile sentimentalismo, assai lontano dalla consistenza ontologica e dalla capacità di apertura alla trascendenza che l'immagine del cuore ha sempre teso a delineare. In questo breve testo, Hildebrand mostra come il "cuore" sia la sede di un'intensa attività vitale e affettiva, indispensabile per accedere alla conoscenza vissuta di tutta una serie di strati di beni e valori che compongono la realtà. Inoltrandosi nella via aperta da Max Scheler, Hildebrand offre uno dei maggiori contributi all'analisi fenomenologia di questa fondamentale sfera della persona umana, incidendo con apporti determinanti su una riflessione che ancora oggi è al centro dell'interesse filosofico. Il testo di Hildebrand, però, non contiene soltanto una raffinata analisi filosofica dell'affettività umana, ma anche una riflessione intima e meditata sul mistero del Sacro Cuore di Cristo, che aiuta a comprenderlo nella sua profondità teologica evitandone letture superficiali e sentimentalistiche.
Il tema è il classico dualismo cuore/ragione che rappresenta un tutt'uno nella teoria della conoscenza delle cose della natura e dello spirito secondo Pascal.
Al suo inizio e fino alla sua "esplosione", il mondo di internet ha promesso di dare un volto nuovo all'intera umanità: al suo modo di comunicare, di presentarsi al mondo, di informarsi e farsi conoscere, ma anche al suo modo di decidere, di investire, di governare. Oggi assistiamo a una fase di profonda crisi di tutto questo: la moderna "torre di Babele" un mondo unito in cui tutti parlano la stessa lingua e si sentono allo stesso titolo cittadini sta per crollare, per generare una probabile nuova dispersione dei linguaggi e delle esperienze. Gli scricchiolii del grande edificio sono diversi: non riusciamo più a stare in rete con i nostri corpi e le nostre voci, non sappiamo più chi siamo e cosa pensiamo, non possiamo fidarci di nulla, né compiere un passo verso un nuovo progresso, di cui abbiamo smarrito ogni mappa. Il crollo è inevitabile. Cosa ci attende all'indomani del clamoroso evento? Un mondo connesso, ma forse non più così dipendente, che non conosciamo ancora.
Il libro è il ritratto della crisi religiosa e filosofica verificatasi agli albori del mondo moderno, ai tempi di Newton, Cartesio, Rembrandt e, soprattutto, di Leibniz e Spinoza, il logico e matematico inventore del Calcolo. Al centro del racconto è Dio. Lo scenario è quello di un'Europa appena uscita dalla guerra dei Trent'anni, segnata dalle difficoltà di un'altissima conflittualità religiosa, scossa da rivolgimenti politici altrettanto profondi. Le due "idee" del divino che Leibniz e Spinoza elaborano sono tutt'altro che estranee a questo sfondo, rispetto al quale emergono come conseguenze e contromisure. L'autore contribuisce a fare di questa ricostruzione del passato un'immagine ben viva per l'attuale panorama politico, diviso tra rinascite di vario segno, dai neoilluminismi ai neotradizionalismi cristianeggianti.