
Sulla Torre non si è niente, se non parte del vuoto che la circonda. È per questo che Vanda decide di allontanare sua figlia Ginevra dal palazzone in cui vivono, ventidue piani di cemento all'estrema periferia di Roma, e iscriverla al liceo in un quartiere benestante della città, dove potrà mescolarsi ai figli della gente che conta. Per Ginevra infatti - Vanda ne è certa - una speranza di riscatto c'è: a quattordici anni il suo corpo è esploso di una bellezza inaspettata, che la rende diversa dagli altri abitanti della Torre. Sembra fatto apposta per conquistare qualunque cosa lei desideri, parla di una vita migliore, forse addirittura di felicità. Ginevra, più consapevole di Vanda della propria ineludibile diversità rispetto ai nuovi compagni di scuola, si trova così catapultata in un mondo sconosciuto. Stringe amicizia con Camilla, una bambina cresciuta, iper-protetta dal padre Claudio cui la lega un amore morboso, e in perenne guerra fredda con la madre Eleonora. Se Camilla combatte con il proprio senso di inadeguatezza nei confronti di tutti - il ragazzo di cui è invaghita, le sue coetanee, ma soprattutto se stessa - Ginevra vuole essere libera, dalla Torre, da una vita già segnata, ma anche da Vanda e dal suo amore colloso. Per farlo ha bisogno di soldi, e la gente che si ritrova a frequentare, di soldi, ne ha tanti. Ginevra, Vanda, Camilla, Claudio, Eleonora: nello sforzo disperato di contrastare l'inerzia che li ingabbia, ciascuno cercherà di districarsi tra i fili della propria storia, trovandosi a compiere scelte complicate, le cui conseguenze, spesso, non sono in grado di intravedere. "Il mondo che da qualche parte esiste" è un debutto vividissimo, che racconta dell'amore di due madri per le loro figlie, di corpi che crescono e altri che invecchiano, di differenze di classi e destini comuni, di scelte rimpiante e sogni di riscatto, ma anche del potere segreto che ha il luogo in cui nasciamo di determinare - o restringere - i confini dei nostri talenti.
«Quando desideri tanto qualcosa, fai come il colibrì: non aver paura di cadere. Anzi, impara a farlo a tutta velocità, per poi risalire.» Questa volta, però, a Teo sembra impossibile risalire: è stato bocciato in seconda liceo, ma soprattutto ha fatto qualcosa di davvero sbagliato, e ora dovrà scontare un'estate di lavori socialmente utili. Sa che è una punizione giusta, eppure c'è qualcosa dentro di lui che non riesce a tenere a bada. Teo la chiama la Cosa proprio perché non è in grado di darle un nome: sa solo che è un nemico troppo forte e di cui non ha il coraggio di parlare a nessuno. Di certo non ai suoi genitori, distanti anni luce, ma nemmeno a Peach, la sua migliore amica, l'unica che sa leggere i suoi silenzi e aggiustare con la musica i suoi giorni storti. Tutto cambia quando su una panchina incontra un signore anziano che dice di essere un ex professore di nome Francesco Bove. Giorno dopo giorno, il professore lo porta nei posti più disparati e gli parla di miti greci e filosofi con parole che Teo non ha mai sentito: parole che lo spronano a non arrendersi, a porsi le domande giuste, perché capisca che non è solo, che tutti siamo in cerca di una ragione di vita, di un dono che ci renda speciali. Solo che, per capire cosa sia, l'unico modo è non smettere mai di tentare, fallire e riprovare, coltivare l'arte dell'imperfezione per tirare fuori il capolavoro che vive dentro di noi. Anche a costo di scoprire verità che ci fanno paura, come la fine di una misteriosa ragazza di cui nessuno sa più nulla e la cui storia sembra voler dire qualcosa a Teo. L'autore è tornato con uno dei suoi personaggi più amati di sempre: il professor Bove di "Eppure cadiamo felici". Un romanzo sulle paure che ci impediscono di essere felici: paure che non vanno allontanate, ma ascoltate. Perché a volte bisogna attraversare il buio per scoprire la meraviglia di uno spiraglio di luce.
«Che cosa me ne faccio, ora, della mia vecchia vita, del mio lavoro ostinato e prezioso, di gioie e delusioni, dei miei pensieri, delle pagine che ho scritto?» si chiede Sergej Bogarëv mentre percorre il fronte nell'agosto del 1941, i tedeschi avanzano e le truppe sovietiche inesorabilmente retrocedono. È «una guerra mai vista prima», quella che si è abbattuta sul suo paese; una guerra che l'ha strappato all'insegnamento del marxismo e trasformato in commissario politico di un battaglione che, nel tentativo disperato di rallentare l'offensiva nazista, si ritroverà isolato oltre le linee nemiche; una guerra che per lui - come per tutti gli altri protagonisti del romanzo - segna una cesura netta e irreparabile. «Il popolo è immortale, la sua causa è immortale. Ma non si può risarcire la perdita di un uomo!» scriverà Grossman poco dopo la fine della guerra. E così, pur desideroso di infondere in chi combatteva ottimismo e coraggio, ci racconta i primi mesi dell'invasione tedesca - antefatto di "Stalingrado" e "Vita e destino" - attraverso pagine dure, che dipingono la distruzione e le disfatte, i pensieri dei soldati, la marcia dei contadini nella notte, sotto le "scie rosse dei proiettili traccianti che strisciavano lente verso le stelle», i campi e i boschi sottratti a chi ne conosceva da sempre ogni segreto e il vano eroismo di uomini semplici mandati a fronteggiare «l'esercito più forte d'Europa». Pagine di un 'romanzo sovietico', ma così audaci da abdicare a ogni ligia ortodossia. E, come sempre in Grossman, attraversate da un soffio epico che le trasforma in grande letteratura.
Nell'estate romana del 1943, Gina, una studentessa di famiglia benestante, si innamora perdutamente di Betto, un intrepido ragazzo ebreo che fa parte di un'organizzazione clandestina. Tra i due si sviluppa una relazione intensa e proibita, nel bel mezzo di una delle più sconvolgenti tragedie della recente storia europea. Dopo la caduta di Mussolini, infatti, Roma è piombata in un turbine di violenza culminato nell'occupazione della città da parte delle truppe di Hitler. Nel caos e nella disperazione generalizzati però, e mentre le SS si apprestano a intraprendere la famigerata razzia nel ghetto, una malattia sconosciuta, altamente contagiosa, inizia a circolare nel centro della capitale, gettando nel panico i tedeschi: il cosiddetto Morbo di K... Si tratta in realtà di un sofisticato inganno escogitato dai ribelli con la collaborazione del personale del Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina, una macchinazione geniale e audace che salverà la vita a moltissime persone ebree rifugiate nell'ospedale. L'ispirazione per questa eccezionale storia vera è nata quando l'autore è venuto a sapere dell'esistenza di preziosi documenti originali, rimasti nascosti per ottant'anni in alcuni archivi relativi alla Seconda guerra mondiale. Rintracciando i discendenti dei veri protagonisti del romanzo, ha ottenuto un tesoro di testimonianze, rivelazioni e dettagli storici che costituiscono l'anima del suo racconto, un vibrante intreccio di amore, eroismo e generosità.
«Queste e tant'altre cose ebbero origine quasi settant'anni fa in una città siciliana di provincia, in una città distrutta, in una comunità traumatizzata e isolata dai grandi centri. Ma Palermo non era, come la Spagna nel suo torpore franchista, una casa di morti. Giuseppe Lampedusa o Lucio Piccolo erano dei dilettanti, ma rientravano anche nella categoria dei sapienti appartati, erano l'humus di un mondo civile». Poiché il principe che scrisse Il Gattopardo fu il creatore di un mito, di un modo di dire, di una concezione del mondo (gattopardesco, appunto), questo suo ritratto, che si allarga a una città vissuta e a una classe sociale al tramonto, cerca di introdurre nel suo modo di leggere i libri degli altri e di assimilarli a se stesso, nel suo modo di specchiare nelle proprie le altre immagini letterarie, nel suo modo di guardare con il massimo ingrandimento i meccanismi delle narrazioni. Gioacchino Lanza Tomasi, suo figlio adottivo, fu per anni anche l'allievo della piccola accademia di lettura che Tomasi di Lampedusa teneva per alcuni giovani; ed è stato anche nel tempo l'artefice di un'opera filologica che «ha così propiziato - spiega Silvano Nigro nella Nota al volume - la rilettura critica del Gattopardo». «Gioitto» - così era chiamato nelle lettere del principe - inizia i suoi ricordi, dettati poco prima di morire, dalla biblioteca della madre spagnola. Testi spagnoli classici di grandi narratori e poeti: Tomasi di Lampedusa vi poteva esercitare ariosamente la sua arte «di indagatore del comportamento umano e di narratologo». «Asciutto e fascinoso racconto critico. È il ritratto intimo della Palermo negli anni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma è anche il romanzo di formazione di un giovane che arriverà a guardarsi nello specchio delle pagine scritte dal padre adottivo» (Salvatore Silvano Nigro).
Quante sono le città della nostra vita, e che cosa rappresentano? Questo libro è un viaggio nel tempo e nello spazio: dagli angeli sulle rovine di Bruxelles al sole elettrico di Battipaglia, dalla stanza dei bottoni di Washington alla madre dell'Italia infeconda di Veio, dai tizzoni bruciati di Volgograd alle sapienze perdute di Atene. Eraldo Affinati è un maestro della toponomastica lirica. Ha raccolto trecento città del mondo: conosciute, sognate, inventate, tutte descritte ed evocate in brevi ritratti di grande concisione fantastica e affettuosa adesione sentimentale, nei quali i lettori potranno riconoscere le proprie stesse preferenze e idiosincrasie, in un gioco di riflessi capace di favorire e moltiplicare le connessioni interiori. Ogni descrizione di città è un romanzo in miniatura. Ogni sezione è introdotta da un corsivo che racconta una città-guida: Charkiv, sconvolta dal recente conflitto russo-ucraino, nel fantasma della Seconda guerra mondiale; Venezia, segnata dal dolore della bellezza; Roma, caput mundi. Ci si può perdere nella polvere mesopotamica di Babilonia, tra le galline senza cresta di Acchiappa-citrulli, sulle tracce di Anguilla a Yuma, nei promontori di Rosberg a Fulgor. Il prologo è a New York, matrice urbana della modernità sfregiata e ricostruita, città simbolo con una costante vocazione alla decadenza; l'epilogo invece è a Gerusalemme, in grado di riassumere, nella sua storia splendida e drammatica, tutti i grovigli irrisolti del mondo. Le città del mondo è un libro che appassiona sin dalle prime righe, un labirinto magico nel quale si è felici di perdersi.
"In posti lontani abbiamo condiviso notti con le briciole di stelle cadenti, abbiamo respirato i loro pulviscoli incendiati dall'attrito con l'aria. Nel sonno abbiamo sentito la giravolta delle costellazioni con la Stella Polare fissa al centro, a pirolino di roulette. Abbiamo scippato certe notti così alla vita dei giorni. Distanti da candele, lampadine, fari e torri di guardia, abbiamo fissato nelle pupille la distesa dei puntini luce." Sono pagine di commozione trattenuta, e per questo tanto più commoventi e vivide, queste che Erri De Luca dedica alla guida alpina Diego Zanesco, che ha perso la vita nell'estate del 2023 sulla Tofana di Rozes: amico seguito sui saliscendi in Ecuador o sulle Dolomiti. Nell'indagare la causa della sua caduta, cercando il punto preciso del suo distacco dalla roccia, De Luca gli restituisce corpo e voce, riporta pagine dei suoi taccuini e passi dalle lettere che negli anni si sono scritti, tracciandone un ritratto concreto e poetico. E restituisce al contempo, facendoci sentire la roccia sotto le dita, anche il suono degli zoccoli dello stambecco che fugge, il peso del corpo sugli appigli, la ragione stessa di scalare. L'amicizia, la montagna e i libri si intrecciano in questo "Discorso per un amico" con dolcezza, gratitudine e dolore: "Per me rimani Diego, per me insisti, prosegui e io continuo a seguirti". Una serie di fotografie a colori segue passo passo le parole. Questo è per me il racconto di un'amicizia tra due uomini che si sono incontrati per due coincidenze: i libri e le montagne.
Nelle terre di confine del Popolo degli Uomini martoriato dagli Orchi si muove un ragazzo con un marchio sulla fronte. È nato in un lebbrosario, figlio di una lebbrosa e di un uomo sano che l'ha seguita nel luogo più disperato mondo. E nell'amore di una madre e di un padre è stato cresciuto restando, miracolosamente, indenne dalla malattia. Uscirà dal lebbrosario come «Melmoso», nome dato ai figli sani di lebbrosi. Le umiliazioni subite lo porteranno a infierire su chi, in quel momento, è considerato perfino più abietto di lui: gli Elfi, il popolo alleato degli uomini che, dopo averli protetti per secoli, non è riuscito a salvarli dalle ultime invasioni e a cui viene ora attribuita la colpa di tutto, anche dell'acqua che sta trasformando la terra in una palude. Dal fango dell'ignominia Yorsh saprà riscattarsi, ponendo le basi per la salvezza del mondo.
Milano, 1965. La famiglia di Costantino lascia la Valcamonica per un lavoro in fabbrica. L'impatto con la città è una ferita per il ragazzino che a 10 anni sogna di compiere gesta eroiche. Il suo compagno di banco napoletano, Salvatore, e il "borghese" Lorenzo, lo aiutano ad ambientarsi. Al liceo Beccaria, si fa coinvolgere da Piero nel collettivo studentesco e nel circolo del nuovo professore di filosofia. Vorrebbe cambiare il mondo, ma non ha il coraggio di dichiararsi a Sara.
Arrivato alla soglia dei novant'anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l'avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l'infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l'incubo dell'occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica». È un racconto che ha il calore e l'empatia della conversazione tra amici: la vita s'impara, ci dice Augias - soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile. A quasi novant'anni, Corrado Augias è un prezioso testimone del cambiamento. L'Italia di oggi - esclusi gli eterni vizi nazionali - assomiglia poco a quella di ieri. Augias ci racconta l'infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica; la guerra e i bombardamenti; l'incubo di una feroce e lugubre occupazione; gli anni in un collegio cattolico, per lui che oggi si confessa ateo. E poi la vita professionale, il giornalismo, i libri, le fortunate circostanze che lo hanno reso partecipe di tre eventi importanti nella vita culturale del paese: la nascita della Direzione centrale programmi culturali della Rai; la fondazione del giornale «la Repubblica» nel 1976, il rilancio di RaiTre nel 1987. L'invenzione di alcuni fortunati programmi televisivi da «Telefono giallo» a «Babele», da «Città segrete» alla più recente creatura «La gioia della musica», ultimo programma ideato per la Rai prima del passaggio a La7 ancora una volta con un fortunato programma di cultura: «La Torre di Babele». Accadimenti che sono però solo la parte pubblica di un percorso che ha una componente intima ancora più interessante: il lungo apprendistato a una matura dimensione d'intellettuale. Agli eventi che hanno scandito la sua vita, Augias affianca le letture di cui s'è nutrito e dalle quali ha «imparato a vivere». Da Tito Lucrezio Caro a Renan, da Feuerbach a Freud e poi Spinoza, Manzoni, Beethoven, Nietzsche, Leopardi, i suoi maestri sono pensatori, poeti, narratori, musicisti: una costellazione ampia che non esita a chiamare il suo pantheon, figure che hanno arricchito il suo percorso professionale e, insieme, la sua consapevolezza di cittadino.
La viva voce dell'intellettuale più lucida e appassionata del nostro tempo torna a visitarci per una formidabile resa dei conti sul potere, il femminismo, la fede, la letteratura. Ma soprattutto sulle dieci vite che ha vissuto con incantata sfacciataggine, senza paura, ripercorse oralmente nell'unica autobiografia organica possibile per una che ha attraversato il mondo correndo scalza, bruciando luminosamente ogni tappa. Alla vigilia di una morte che l'ha vista gioiosa come una martire capace di cantare mentre avanza verso i leoni, Michela Murgia ha trascorso una settimana a raccontarsi a Beppe Cottafavi, suo editor e amico. Le registrazioni di quella sua ultima estate, ancora piena di storie come lo erano state le cinquanta precedenti, danno sostanza a questo suo libro straordinario, arricchito da quattro splendidi racconti ritrovati e da altri testi perduti che l'autrice ha scelto e indicato tra un ricordo e l'altro. Da un simile stagno brulicante di vita, come quello sulle cui rive è cresciuta, affiora un arcipelago di dettagli intimi: innamoramenti e parentele queer, matriarche oristanesi che sgranano rosari di cinque colori per salvare ogni continente, madonne con la parrucca, uomini violenti e maestri sognanti, lezioni di lingua sarda e cultura coreana, di esegesi biblica e di scrittura magica, di politica attiva e di militanza culturale. Franca e visionaria, antifascista e immune dai compromessi, Murgia ci rivela com'è che una ragazza di provincia, addestrata a leggere il Vangelo e ad accontentarsi di sopravvivere, si sia messa in testa di cambiare il mondo invece, affidandosi a un'irriducibile aspirazione alla felicità.