
È notte. Un uomo è sul terrazzo di una stanza d'albergo sul mare; è qui per festeggiare il suo decimo anniversario di matrimonio. La donna dorme. L'uomo ripensa alla loro storia d'amore, a una relazione costruita sulla sincerità. Ritorna con il pensiero agli anni trascorsi e a un'unica bugia: un viaggio. Aveva mentito sulla destinazione, per vedere una partita di calcio: la finale di Coppa dei Campioni Juventus-Liverpool, a Bruxelles.
L'uomo ripensa a quella partita, allo stadio malandato dove si svolgeva, l'Heysel. Ritorna al dramma di una vicenda che doveva essere allegra e giocosa, grandi e bambini insieme per condividere una passione.
E che invece era diventata una battaglia, un insensato perdersi della ragione nella cecità della violenza. La parola Heysel avrebbe da allora significato morte: trentanove morti e seicento feriti innocenti. Una strage immane per una partita di calcio, una ferita aperta e non piú rimarginata. Nonostante la strage fosse già consumata, si era deciso, per motivi di sicurezza, di giocare egualmente.
Walter Veltroni ci offre con questo libro un toccante monologo, una narrazione lirica volta a ricordare una strage assurda, che ha stravolto tutto ciò che di positivo lo sport rappresenta. E lo fa con misura, attraverso lo sguardo commovente di una storia d'amore.
Tomàs è una persona come tante. E, come tante, crede poco in se stesso, subisce la vita ed è convinto di non possedere gli strumenti per cambiarla. Ma una sera si ritrova proiettato in un luogo sconosciuto che riaccende in lui quella scintilla di curiosità che langue in ogni essere umano. Incomincia così un viaggio simbolico che, attraverso una serie di incontri e di prove avventurose, lo condurrà alla scoperta del proprio talento e alla realizzazione dell’amore: prima dentro di sé e poi con gli altri. Con questa favola moderna che offre un messaggio e un massaggio di speranza, Massimo Gramellini si propone di rispondere alle domande che ci ossessionano fin dall’infanzia. Quale sia il senso del dolore. Se esista, e chi sia davvero, l’anima gemella. E in che modo la nostra vita di ogni giorno sia trasformabile dai sogni.
Massimo Gramellini, torinese di sangue romagnolo, è giornalista e vicedirettore de La Stampa. Ha pubblicato: Colpo Grosso (con Curzio Maltese e Pino Corrias), 1994; Compagni d’Italia, 1996; Buongiorno, 2002; Granata da legare, 2006.
"C'è voluto un inverno per riordinare questi quaderni di appunti, così come scorrono, rivivendoli in un calendario, gli impegni e i problemi rimandati e non risolti dell'anno passato. Gli appunti si inseguono senza alcuna pretesa sistematica, ma, nonostante possano talvolta apparire tra loro slegati, rimandano in negativo, come una radiografia l'immagine del corpo, l'immagine dell'esistenza umana: fanno vedere tutto ciò che non si vede mai, ma che quotidianamente, invisibilmente, inconsciamente, ci portiamo appresso svegli o nel sonno". Così l'autore presenta gli appunti raccolti in questo libro che, partendo da uno spunto di attualità, da una ricorrenza liturgica, da un ricordo, da un sogno sollevano domande e suggeriscono risposte ai grandi temi del dolore, dell'amore, della solitudine, della gioia. Un avvincente romanzo di parole e di pensieri. Il diario in pubblico di un inconfondibile scrittore.
Ogni viaggiatore fugge segretamente dall'angoscia di essere colui che attraversa il mondo senza conoscere nessun luogo. Ogni viaggiatore lo sa. I luoghi sono profondi. Se non ne conosci le storie, le parole e le cose, le storie annidate dentro le cose e le parole, stai solo calpestando un suolo.
La Riviera che trovi in queste pagine è un viaggio più nel tempo che nello spazio. Dalle sue profondità arrivano fino a te che leggi Portofino, dall'epoca di Landless John a quella di Rita Hayworth, e Bordighera, Rapallo, dai giorni di Ezra Pound a quelli di Marcello Mastroianni, e la Genova dei Doria e dei marinai senza nome, Camogli, i caruggi e Portovenere, i leudi, che possono arrivare fino a Buenos Aires, i gozzi che scintillano - gialli, celesti, bianchi, verdemare - al sole, le case, le finestre e i capitani, che abbandonavano la paura appena levate le ancore e che sapevano uscire da ogni mare. E la buridda di pesce, il vermentino, il macramé, il camallo e il bacàn, parole e cose che nel tempo non hanno esitato ad attraversare l'oceano per suonare differenti eppure uguali anche agli antipodi.
Accanto a cose, luoghi e parole ti trovi dentro alla storia del Saraceno, che viveva con i figli e i soldati in una torre a picco sul mare, a quella della bellissima polena naufraga al largo delle Azzorre, o a quella del Cristo miracoloso di Varazze. Ciò che ti porta su questa via lungo l'acqua, luogo circoscritto e a un tempo universale, non è mai nostalgia, non è in alcun modo un dolore del ritorno, ma al contrario la ricerca di un senso essenziale dell'esistere che l'autore insegue nelle storie del mondo sul filo di una scrittura avventurosa ed esatta. Sette milioni di anni fa, racconta Giorgio Ficara, migrando dall'Africa sul fondo di un Mediterraneo ancora senz'acqua, sono arrivati sul monte di Portofino i convolvoli rosa che ora ci sembrano così nostri. Come dire, se sei di queste parti, trovi te stesso solo se ti riconosci fatto di lontananze.
«Sono una donna bambina. Una donna segnata da un’infanzia e un’adolescenza trascorse in istituti per orfani. Io che orfana non sono. Nel chiuso di quelle stanze, mi è stata rubata la bellezza dei primi anni, la meraviglia della crescita, lo stupore per il mondo. E ho avuto in cambio dolore, umiliazione, ignoranza. Della famiglia, degli uomini, dei sentimenti, della vita.
Per questo, quando la porta di quelle stanze si è spalancata, ho dovuto imparare ogni cosa, mentre gli altri sapevano già. E ho scontato la mia inferiorità con enormi sofferenze. Marchiando la mia carne con le dure lezioni che il destino voleva impartirmi.
Un mattino di maggio, il giorno successivo ai miei diciotto anni, vengo espulsa dall’istituto. Buttata in mezzo a una strada, letteralmente. È una legge atroce che nessuno mi aveva mai comunicato. La suora apre la porta senza dire una parola, e senza dire una parola la richiude.
Mi ritrovo sola su una panchina, senza un soldo, senza una destinazione possibile. Tutti i miei averi sono un diario, un libro di scuola e gli abiti che porto addosso. Con quelli inizierò a percorrere la mia strada, senza sapere quale sia, senza sapere nemmeno se c’è per me, da qualche parte, una strada. Non so nulla, neppure il significato delle cose più naturali della vita. Le imparerò tutte sulla mia pelle».
«Il viaggio più lungo / è il viaggio verso l'interno», scriveva Dag Hammarskjöld; all'interno di noi poiché «la radice di ciò che ci desta meraviglia è nei nostri cuori» (Francis Ponge). Questo libro percorre, in 52 stazioni di sosta e di lettura (una per ogni settimana dell'anno), la memoria sapienziale delle Lettere e delle Scritture, in una cornice di piccole parabole e meditazioni, ritratti ed elogi, paradossi e luoghi dell'anima; libri e Maestri che hanno formato il Novecento e l'autore sono evocati nella luce dell'affetto, che fa crescere e illumina. Uno spazio di pensiero e di raccoglimenti, da Vittore Branca a Max Milner, da Archangelos a Cingoli, da Sainte-Marie de la Tourette alla Sagrada Familia, che fanno dell'Europa un lascito ricco di futuro. Così il simbolo in cui converge tutto il cammino è il «germoglio»: una promessa, un inizio, uno stelo di speranza - nell'incompiuto, nell'Aperto.
Nel 1953 Goffredo Parise si trasferisce a Milano, dove ha trovato lavoro presso un grande editore. Ha pubblicato due romanzi che pochi conoscono – Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza – e ha il vago desiderio di scriverne un terzo che lo diverta e commuova «tanto da cacciare il freddo e la solitudine»: un romanzo «con molti personaggi allegri», ma soprattutto «estivo». Uscito nel maggio del 1954, Il prete bello conoscerà un clamoroso successo e diventerà il primo best seller del dopoguerra. E rileggendolo oggi, quando ormai le etichette impugnate per celebrarlo o denigrarlo sono definitivamente alle nostre spalle, ci accorgiamo che il suo segreto sta tutto in quella genesi: nella festosa eccentricità dei personaggi che popolano un labirintico e fiabesco caseggiato nella Vicenza del 1940, e di colui che saprà stregarli tutti, e attirarli a sé con la forza di un magnete: don Gastone, il «prete bello». Personaggi quali la ricca signorina Immacolata, con i suoi strani cappellini a piume e l’occhialino d’oro cesellato; le Walenska, madre e figlia, che si scaldano ingrandendo con una enorme lente l’unico raggio di sole che al tramonto penetra nella loro stanza; il cav. Esposito, che tiene sotto chiave le cinque figlie concupiscenti; Fedora, la cui rigogliosa natura si spande dagli occhi e da tutto il corpo, quasi che «dai pori uscisse un polline dolciastro»; e la cenciosa banda di ragazzi truffaldini e sentimentali che nei vicoli e sotto i portici cercano ogni giorno di sopravvivere trasformandosi in ladri, ruffiani e mendicanti – in particolare Sergio, il narratore, e il suo amico Cena. In tutti loro, nelle vene e nel sangue, l’atletico, elegante, vanesio don Gastone si infiltra come una passione oscura, violenta ma capace di dare improvvisamente vita – e come nel Ragazzo morto e le comete ci troviamo di fronte a «una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti», a «un quadro di Chagall con orsi e streghe volanti» (Eugenio Montale).
Adelina ha un destino segnato: diventerà ianara, come sua madre, come sua nonna. Al pari di loro, potrà attraversare ogni porta, anche quella che separa la vita dalla morte. E sarà dannata. Vivrà in una capanna sui monti dell'Irpinia - una terra nel dopoguerra non ancora toccata da quel che avviene altrove, in un'Italia apparentemente remota - come una bestia selvatica; gli uomini e le donne verranno a supplicarla di aiutarli quando avranno bisogno di curarsi, di vendicarsi, o di liberarsi di un figlio non voluto - e la schiveranno come la peste se oserà avvicinarsi al paese. Per sfuggire a tale destino Adelina si incamminerà da sola per boschi e per montagne, finché non giungerà in vista di un grande e magnifico palazzo, proprietà di un Conte: vi entrerà come l'ultima delle sguattere e - sorta di funebre, allucinata Jane Eyre, schiava amorevole e possessiva fino al delitto - servirà e accudirà il padrone con assoluta, cieca fedeltà. Gli rimarrà accanto anche quando il palazzo sarà ridotto a una splendida rovina, quando più nessuno ci metterà piede per paura della maledizione che lo ha colpito dopo i tragici eventi di cui è stato teatro: il misterioso omicidio del figlio del Conte, l'orrendo suicidio della temibile Signora, la scomparsa della piccola Lisetta a cui il Conte era legato da un torbido affetto - e lei, Adelina, sarà rimasta la sola ad aggirarsi silenziosa nelle immense sale vuote.
Con una lingua asciutta, potente, evocativa, Licia Giaquinto ci trascina in una trama fitta di storie e di magia, dove animali, uomini, cose si fondono e si trasformano di continuo. Così come è destinato a trasformarsi, di fronte a una minacciosa «modernità», quel mondo arcaico che ci si squaderna davanti, e che ha anch'esso un destino segnato: quello di scomparire, per essere evocato solo da chi ancora ce lo sa raccontare.
A Rocca di Sasso - un paese di fantasia «imitato dal vero» sulla base dei tanti villaggi delle nostre Alpi - il tempo sembra non passare mai. La montagna, immobile, domina, rispettata e temuta, con le sue leggende e le magiche entità che si racconta dimorino qui. In primavera, sulle sue pendici, fioriscono genziane e ciclamini, e più in alto, verso gli alpeggi, lo strano giglio martagone, bianco e screziato di sangue. Nei prati a fondovalle, si spande il profumo carnale dei narcisi.
All'ombra del Macigno Bianco formicola la vita degli abitanti del villaggio, con i suoi piccoli e grandi andirivieni, dalla Prima guerra mondiale ai giorni nostri.
Vassalli disegna i caratteri e tesse i destini, facendo di questo piccolo mondo un frammento di vita universale. Nel coro spiccano il maestro Prandini, socialista, volontario in guerra, mutilato, poi legionario a Fiume, poi gerarca fascista; e Anselmo, detto Ansimino, autista di corriera e piú tardi meccanico, che ha un cuore grande e «l'intelligenza nelle mani».
Intorno a loro vive tutta la comunità, tra pettegolezzi, amori, lutti, aspre scene di guerra, cene dei coscritti e dei reduci: un mondo fatto di tante storie che si incrociano e che Vassalli annoda, con sapienza e ironia, in un'epica umanissima; un'intera civiltà, brulicante di vite, che si anima sulla pagina poco prima di sparire per sempre inghiottita dall'oggi.
Di tanti uomini vissuti qui nei tempi antichi, solo due hanno lasciato traccia del loro passaggio: l'Eretico e il Beato, «due contrari, in cui si riassumono e si annullano tutti i possibili contrari di questo mondo». La luce e le tenebre, il giusto e l'ingiusto, il bene e il male. Sono la premessa della storia ambientata in questi luoghi «dove il passato non riesce mai a passare del tutto e il presente non è mai davvero presente», come una musica che riecheggia nel tempo.
Tutto è cambiato, ma il Macigno Bianco resta là, al centro di tutte le valli, con il suo paradiso perduto e il suo inferno sotto i ghiacciai; e l'Internazionale, inno dell'umanità risuonato in tutto il mondo, è tornato nella quiete dei luoghi dov'era nato, tra rocce e foreste, a sussurrare forse nuove parole di speranza.
«Tutto incomincia con quattro spari che riecheggiano nel silenzio della montagna. Tutto incomincia con un corpo immobile nella neve macchiata di sangue».
«Perchè io ricordi quel preciso giorno non so;
a volte si incidono nella memoria dei gesti
che creano legami, simboli e resistono nel tempo;
ora capisco che essi racchiudono come un mistero
d'amore o di dolore e che mettono insospettate radici»
"Foravìa", ovvero "fuori mano", "deviazione", "lontano', "strano". Tutto ciò che scarta dalla quotidianità e che trasforma le eccezioni in sorprese. Per tre volte il narratore si trova a "deviare". Per andare a un appuntamento sulle colline fuori città, sbaglia strada e passa una singolarissima notte in macchina. Si trova in casa una creatura spaventosa e se ne fa carico, instaurando con lei una curiosa relazione. Sul corso incontra Elisabeth, che sta male, ha bisogno di aiuto - e la città notturna si svela in una peregrinazione fra ospedali e case, un mondo che esiste appena poco più in là, con tutta la sua urgenza e il suo fascino.
Orfeo in paradiso si apre sul parapetto delle guglie del Duomo di Milano, dove Orfeo, che ha perduto l’amatissima madre, accarezza l’idea del suicidio. L’improvvisa apparizione di un misterioso personaggio stravolge la vicenda: lo sconosciuto gli offre la possibilità di un viaggio indietro nel tempo, attraverso la giovinezza della madre, ripercorrendo la storia della sua vita. Orfeo, accettando, non sa o non comprende pienamente quale sia la posta in gioco del patto faustiano, che a poco a poco rivela la sua insidia demoniaca… Romanzo struggente e perfetto, costruito intorno all'ossessione della perdita e ll'incanto del possibile ritrovamento nell'amore, Orfeo in paradiso vinse il Premio Campiello nel 1967, consacrando Luigi Santucci come uno dei maestri della narratriva contemporanea.
GLI AUTORI
Luigi Santucci, 1918-1999, è ritenuto dalla critica il principale narratore milanese della seconda metà del Novecento. Frequenta da ragazzo il Collegio dei Gesuiti di Milano, l’Istituto Leone XIII, si laurea in lettere; antifascista convinto, si rifugia durante la Seconda guerra mondiale in Svizzera. Al rientro in Italia insegna lettere in un liceo di Gorizia e in seguito all'Università Cattolica di Milano. Rientra nella tradizione degli scrittori cattolici e lombardi, infatti Carlo Bo lo definì lo scrittore cattolico più importante dei suoi tempi

