
In un'epoca in cui il dibattito sull'immigrazione ha assunto connotati sempre più aspri, tra respingimenti cruenti e legislazioni emergenziali, Passerini, autore da anni particolarmente attento a questo tema, torna a raccontare storie, esperienze e testimonianze che compongono il variegato mosaico del popolo migrante. Non solo per riportare l'attenzione sugli aspetti umani e sociali di un fenomeno così complesso, ma anche per evidenziare l'ottusità di alcuni provvedimenti, le ipocrisie della politica e le contraddizioni che si consumano ogni giorno sulla pelle di migliaia di persone in fuga dal proprio Paese. Con un inciso, puntuale e oggi più che mai necessario, sul tempo in cui gli immigrati eravamo noi.
La crisi dello Stato moderno e il trasferimento di alcune sue essenziali funzioni al mercato, da una parte, e alla società civile, dall'altra, hanno forse reso superflua la politica? L'hanno forse ridotta a compiti di mero controllo esteriore e di rispetto delle regole del gioco? Stretta fra l'universalismo dei diritti dell'uomo e il particolarismo delle comunità chiuse, la politica rischia di non trovare più il suo spazio vitale. Eppure proprio l'individualismo e il pluralismo stanno contribuendo a rivitalizzare l'istanza di una dimensione comunitaria dell'operare politico. Sono proprio le identità individuali e collettive a richiedere, non solo per la loro protezione e per il loro sviluppo, ma per la loro stessa costituzione un riconoscimento politico. Più che mai l'individuo ha bisogno, per elaborare e realizzare i propri progetti di vita, di un contesto pubblico che coltivi e renda accessibili una grande varietà di beni. Ciò vuol dire che per ben costruire la propria identità personale bisogna cooperare con gli altri nel mantenere aperto e vitale tutto l'orizzonte del bene umano. La tesi che sostiene quest'indagine è che non vi può essere politica come attività se non v'è politica come comunità, essendo questa il luogo dove si realizza l'autentica e piena fioritura della persona umana. In tal modo la politica, non più semplicisticamente identificata con gli apparati istituzionali, può ritrovare in un contesto democratico il suo senso morale.
Marco Polo è una delle figure più note del Medioevo e uno dei pochi viaggiatori dell’epoca a essersi spinto fino in estremo oriente. Mercante e avventuriero, ma anche molto più di questo: è un ‘cronista estero’, il primo viaggiatore europeo a descrivere con l’autorità del testimone oculare, a un pubblico pieno di stupore, gli spazi affascinanti del lontano oriente. Là, fra il 1271 e il 1295, trascorse quasi venticinque anni a servizio del Gran Khan Cubilai, svolgendo importanti funzioni amministrative alla corte di Khanbalik (l’odierna Pechino) e percorrendo quasi tutta l’Asia meridionale come inviato e ambasciatore del Kahn. Eppure, forse mai alcuna notizia della sua straordinaria vicenda ci sarebbe giunta se, poco dopo il suo ritorno a Venezia, egli non avesse partecipato a una battaglia contro i genovesi durante la quale venne fatto prigioniero. Proprio in carcere conobbe il pisano Rustichello, compilatore di opere cavalleresche, a sua volta detenuto, e dalla collaborazione tra i due nacque la fortunata narrazione degli anni cinesi di Marco: Le divisament dou monde, meglio noto come Il Milione. Tradotto già all’epoca di Marco Polo in latino, in francese, in dialetto toscano e veneziano e, prima della fine del XV secolo, in quasi tutte le lingue, il libro continuò a godere nel tempo di enorme fortuna in ambienti assai diversi e per finalità disparate. Ma se per il lettore medievale l’orizzonte era la meta del viaggio, l’Asia, con i suoi misteri e le sue prodigiose ricchezze, il quadro oggi pare capovolto e ad attirarci non è tanto l’itinerario percorso quanto la figura del viaggiatore. E tuttavia essa resta sfuggente ed elusiva, appena accennata dalla narrazione che poco lascia trapelare del suo autore. A ciò contribuisce la singolare genesi del testo con i problemi a essa legati: gli interrogativi sulla verità storica del racconto, le divergenze tra le diverse redazioni. Il Marco Polo mercante dei manoscritti toscani convive con il ‘cavalier cortese’ delle varianti franco-italiane e costui con l’autore ‘istruttivo’ della versione latina, il cui testo serviva all’elevazione spirituale. Impossibile decidere quale tra questi sia il ‘vero’ Marco Polo e, forse, sembra concludere il saggio di Marina Münkler, inutile. Egli esiste e affascina chi gli si accosta anzitutto come mito: il figlio di una famiglia di mercanti veneziani capace di diventare la figura ricca e multiforme che a tutt’oggi conosciamo.
Marina Münkler, nata nel 1960, laureata in filosofia, ha studiato germanistica, filosofia, scienza del teatro; lavora come traduttrice e critica letteraria ed è docente alla Humboldt-Universität di Berlino.
Il ventunesimo secolo si apre nel segno di un auspicio, ossia che quanto è stato in precedenza non voluto, o dimenticato o negato, acquisti d'ora in poi l'importanza che merita. In altri termini, s'impone che la famiglia, nella sua duplice variante di preparazione dei giovani ad essa e degli adulti sposati alla vita matrimoniale e domestica, diventi un obiettivo fondamentale dell'educazione degli adulti. I quattro punti indicati da J. Delors, imparare a conoscere, a fare, a vivere insieme, ad essere, da lui reputati i cardini dell'educazione nell'intero arco della vita, acquistano un significato speciale anche per la pedagogia della famiglia. C'è da augurarsi che gli adulti diventino fautori di un nuovo costume, siano affiancati dalle forze vive della comunità, abbiano intuizioni lungimiranti quanto ai contenuti e ai metodi, alle prospettive e alle innovazioni.
Norberto Galli, ordinario di Pedagogia generale nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e direttore del bimensile «Pedagogia e Vita» dell'Editrice La Scuola di Brescia, ha dedicato parte dei suoi studi ai problemi dell'adolescenza, della giovinezza, della famiglia. Circa quest'ultima, oltre a saggi e articoli apparsi in vari periodici, ha pubblicato le seguenti opere: Educazione familiare e società, Brescia, La Scuola, 1965; Problemi attuali di pedagogia familiare, Brescia, La Scuola, 1972; Nuovi problemi di pedagogia familiare, Brescia, La Scuola, 1974; Educazione dei giovani alla famiglia, Milano, Vita e Pensiero, 1981; Pedagogia dello sviluppo umano, Brescia, La Scuola, 1984; Vogliamo educare i nostri figli (a cura di), Milano, Vita e Pensiero, 1985; Educazione dei coniugi alla famiglia, Milano, Vita e Pensiero, 1986; La famiglia e l'educazione alla salute (a cura di), Milano, Vita e Pensiero, 1988; Educazione familiare e società complessa, Milano, Vita e Pensiero, 1991; Educazione dei giovarli alla vita matrimoniale e familiare, Milano, Vita e Pensiero, 1993; Educazione familiare alle soglie del terzo millennio, Brescia, La Scuola, 1997.
Inserito nell’ampio scenario degli studi sulle audiences, questo volume offre una chiave interpretativa della varietà di gusti, motivazioni e ‘letture’ di quel vasto pubblico italiano che quotidianamente si raccoglie di fronte alla televisione. La centralità attribuita all’appartenenza generazionale dei telespettatori e, quindi, all’esperienza di ambienti mediali che mutano nel tempo costituisce il filo rosso che attraversa e collega una serie di ricerche svolte nel triennio 1999-2001 dall’Osservatorio sulla Comunicazione dell’Università Cattolica su commissione della Struttura Scenari della Direzione Marketing RTI (Mediaset), condotte secondo una prospettiva capace di integrare approcci differenti: lo studio socio-storico dell’industria culturale, l’indagine qualitativa sul consumo, l’analisi semiotica dei testi. I risultati, frutto di un lavoro di confronto e interpretazione dei dati raccolti nel tempo, restituiscono i profili di quattro identità generazionali a cui è possibile ricondurre l’attuale pubblico televisivo, ciascuna caratterizzata da memorie mediali, aspettative e strutture di decodifica narrativa proprie. Tutto ciò costituisce il bagaglio esperienziale con cui ci si relaziona al medium televisivo e si costruiscono i significati di quanto si fruisce.
Piermarco Aroldi è ricercatore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e vicedirettore dell’Osservatorio sulla Comunicazione presso la stessa Università. Ha svolto attività di ricerca sui temi dell’industria culturale e delle comunicazioni di massa per la Fondazione Agnelli, l’Istituto Gemelli - Musatti, la Rai, la Camera di Commercio di Milano. Su questi temi ha pubblicato, tra l’altro, “La fabbrica di Pinocchio. Le avventure di un burattino nell’industria culturale” (con Fausto Colombo e Barbara Gasparini, 1994), “La meridiana elettronica. Tempo sociale e tempo televisivo” (1999).
Fausto Colombo insegna Teoria e tecnica dei media e Linguaggi e strumenti della comunicazione presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano ed è direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Le nuove tecnologie della comunicazione” (con Gianfranco Bettetini, 1993), “Dizionario della pubblicità” (con Alberto Abruzzese, 1994), “La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni Novanta” (1998), “Il piccolo libro del telefono. Una vita al cellulare” (2001), “Il prodotto culturale. Teorie, tecniche, case histories” (a cura di, con Ruggero Eugeni, 2001).
Nella società dell’informazione le agenzie culturali si moltiplicano e ci investono con messaggi di ogni genere; i mass media sono veicoli di saperi di consumo più efficaci e accattivanti di quanto possano ormai rappresentare, soprattutto per i giovani, i tradizionali mezzi di trasmissione della cultura, ossia la scuola e il rapporto tra le generazioni. Ma si tratta davvero di trasmissione della cultura oppure di semplice comunicazione di contenuti? Là dove, infatti, la comunicazione comporta lo scambio di un messaggio, la trasmissione chiama in causa dinamiche più complesse, implica un processo di rielaborazione e di riappropriazione dei contenuti appresi e non un semplice accumulo di informazioni. Per questo, afferma Mathiot, si ‘comunica’ un messaggio, ma si ‘trasmette’ la vita. In tal senso vanno rivalutate le conoscenze ‘grezze’ trasmesse dalla famiglia e dalla saggezza popolare, ad esempio quelle relative alle previsioni del tempo oppure alle abilità culinarie. È urgente, allora, interrogarsi sul vero senso del trasmettere che non è riproduzione pedissequa di una tradizione o rottura con il passato. La trasmissione è separazione e continuità, distruzione e sopravvivenza: un movimento che punta a costituire l’autonomia di colui che ne è coinvolto, che lo invita ad acquisire una distanza critica da ciò che apprende; che, infine, è proteso verso il nuovo senza tradire la fonte da cui scaturisce.
Pascal Mathiot, docente di lettere alle scuole superiori, è autore di saggi su Molière, Montaigne e Buzzati.
L'obiettiva problematicità con cui si pone oggi qualsiasi discorso sul sacro, secondo un'opinione diffusa, è legata agli stessi presupposti del pensiero moderno che mettono in dubbio la possibilità di articolare l'anelito religioso con la funzione critica della ragione. Nella riflessione contemporanea, inoltre, al venire meno del consenso sulla ragionevolezza della fede si è aggiunta una serpeggiante sfiducia riguardo alla legittimità dell'esercizio della ragione. Di là dai preconcetti ideologici e dall'intolleranza fideistica, questo volume si propone di indagare le condizioni di possibilità di un'ermeneutica pedagogica che comprende tanto la consapevolezza storico-critica quanto l'intenzionalità dell'appartenenza e della convinzione. La ricerca persegue un duplice compito: contribuire alla ridefinizione dello statuto epistemologico della pedagogia, ponendo in luce la specificità della dimensione religiosa in ordine al discorso dell'educazione; articolare una prospettiva di ricerca aperta ai significati educativi in vario modo suscitati dall'esperienza del sacro, dalla coscienza credente allo smarrimento della certezza della fede, dall'agnosticismo alla negazione di qualsiasi riferimento trascendente. Lo studio, secondo un'impostazione teoretico-pedagogica, si inserisce nell'odierno dibattito sulla 'cultura religiosa', indagandone la legittimità argomentativa e alcune irrinunciabili finalità. L'educazione religiosa, contraddistinta da 'principi regolativi', sempre da perseguire e mai del tutto realizzati, deve essere contrassegnata dal rispetto per la pluralità delle credenze, da non confondersi con un indistinto indifferentismo, e dal riconoscimento della dignità della risposta di fede, di cui sono parte integrante la ricerca dell'Assoluto e l'annuncio della speranza. In questa prospettiva, la possibilità della proposta e della scelta religiosa è condizionata dalla verità dell'invocazione, costituisce un appello alla responsabilità della testimonianza, designa una tensione orientata al compimento esistenziale e alla pienezza dell'amore fraterno.
Pierluigi Malavasi insegna Pedagogia generale nella sede bresciana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Poco più di dieci anni trascorsi tra la caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, e il crollo delle Twin Towers, nel settembre 2001, rappresentano una lunghissima cesura tra due epoche che si direbbero irriducibilmente opposte. Il mondo è cambiato dopo il 1989, con la fine del comunismo e l’avvento dell’era della globalizzazione e, ancora una volta, in modo assai più imprevedibile e meno rassicurante dopo l’11 settembre 2001. Quel giorno, un soggetto privato e non territoriale - l’organizzazione terrorista di Bin Laden - ha colpito duramente il più forte soggetto pubblico territoriale del pianeta - gli Stati Uniti - vanificandone il poderoso apparato di sicurezza e irridendone la sovranità. Da allora, antiche alleanze e sperimentate solidarietà si sono avvitate in una spirale di crisi dalle conseguenze ancora difficilmente prevedibili e nuove amicizie ridisegnano la carta geopolitica del pianeta. Mentre l’Atlantico si fa sempre più largo, gli Stati Uniti preferiscono affidare la propria sicurezza e l’ordine mondiale al concetto, rivoluzionario e controverso, di guerra preventiva, anche a costo di inasprire il proprio isolamento. Alcuni tra i più affermati e promettenti studiosi americani e italiani si interrogano su quanto profondamente sia cambiato il mondo da quella tragica mattina dell’11 settembre 2001.
Vittorio Emanuele Parsi è professore associato di Relazioni internazionali nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed è direttore del Master in Mercati e Istituzioni del Sistema globale presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI) di Milano. Con G. John Ikenberry ha curato la pubblicazione dei volumi “Manuale di Relazioni Internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale” (Roma-Bari 2001) e “Teorie e metodi nelle Relazioni Internazionali. La disciplina e la sua evoluzione” (Roma-Bari 2001).
A quali condizioni si dà una pace duratura dopo una guerra vittoriosa? Che genere di risorse deve mettere in campo la potenza vincitrice per trasformare i nemici sconfitti in alleati? Come è cambiata la politica internazionale negli ultimi duecento anni? Sono queste le domande alle quali Ikenberry offre una risposta, analizzando in chiave comparata le paci seguite ai grandi conflitti che hanno costruito il sistema politico contemporaneo. La fine della Guerra fredda ha causato un cambiamento nell’ordine internazionale paragonabile a quelli che si produssero dopo le guerre napoleoniche nel 1815 e dopo le due guerre mondiali nel 1919 e nel 1945. Ma il sistema unipolare che ne è emerso è ancora ben lungi dall’essersi assestato. Solo la diffusione della democrazia e la creazione di istituzioni internazionali innovative hanno consentito agli Stati Uniti di dare vita a un ordine quasi ‘costituzionalizzato’ dopo la Seconda guerra mondiale: questo il motivo del successo americano nel lungo confronto con l’URSS dell’epoca bipolare. L’abbandono di tale via, in favore di una politica di potenza fondata esclusivamente sulla supremazia militare, comporta rischi enormi per la stabilità del sistema e per la stessa leadership degli USA.
Un libro di straordinaria attualità che ha modificato i termini del dibattito teorico su unipolarismo del sistema politico internazionale e unilateralismo americano.
G. John Ikenberry è professor of Government and International Affairs alla Georgetown University di Washington e senior fellow presso la Brookings Institution. Ha prestato servizio al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ha collaborato con il Carnegie Endowment for International Peace, il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank. Da molti anni è docente presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore di importanti pubblicazioni tradotte in diverse lingue. In Italia, insieme a Vittorio Emanuele Parsi, ha curato la pubblicazione di due volumi: “Manuale di relazioni internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale” (Roma-Bari 2001) e “Teorie e metodi delle relazioni internazionali. La disciplina e la sua evoluzione” (Roma-Bari 2001).
INDICE
I. Il problema dell’ordine internazionale
1. Gli enigmi dell’ordine internazionale
2. La controversia sull’ordine
3. La tesi del libro
II. Tipi di ordine: equilibrio di potenza, egemonia
e costituzionalismo
1. Tipi di ordine politico
2. Equilibrio di potenza ed egemonia
3. L’ordine costituzionale
3.1. Tre elementi del costituzionalismo
3.2. Ridurre le implicazioni della vittoria
3.3. Come si manifestano le limitazioni costituzionali
3.4. Ordini costituzionali forti e deboli
4. Strategie di limitazione del potere
5. La stabilità dell’ordine postbellico
6. Conclusione
III. Una teoria istituzionale della formazione dell’ordine
1. La logica costituzionale
1.1. Strategia della moderazione e conservazione del potere
1.2. Lo scambio costituzionale
1.3. Accordi istituzionali e sostanziali
2. Strategie istituzionali della moderazione
2.1. Elementi di collegamento istituzionale
2.2. Dipendenza dal percorso e aumento dei dividendi istituzionali
3. Disparità di potenza e Stati democratici
3.1. Disuguaglianza di potenza e accordo istituzionale
3.2. Democrazia e accordo istituzionale
IV Gli accordi del 1815
1. Il contesto strategico
2. Le idee britanniche sull’ordine postbellico
2.1. Giungere a una pace generale
2.2. Il prolungamento della coalizione
2.3. Stabilizzare gli accordi postbellici
2.4. La strategia della moderazione
3. Vincoli istituzionali postbellici
3.1. Il vincolo dell’alleanza
3.2. Consultazione istituzionalizzata e moderazione
4. I limiti degli impegni e della tolleranza
4.1. Confini, pacchetti e finestre di opportunità
5. Conclusione
V. La sistemazione del 1919
1. La situazione strategica
2. Gli obiettivi strategici degli Stati Uniti e le loro idee sulla sistemazione successiva
3. Gli obiettivi strategici della Gran Bretagna e della Francia
4. Armistizio, riparazioni e la questione tedesca
5. Impegno, moderazione e Società delle Nazioni
6. Impegni sulla sicurezza in Europa
7. Il venir meno del sostegno interno
8. La rivoluzione democratica fallita di Wilson
9. Conclusione
VI. La pace del 1945
1. Gli assetti strategici
2. Due sistemazioni postbelliche
3. Visioni americane alternative dell’ordine postbellico
4. Dalla libertà di commercio all’apertura gestita
5. Dalla ‘terza forza’ all’impegno in materia di sicurezza
6. Limitare i dividendi della potenza
6.1. Egemonia riluttante
6.2. Democrazia ed egemonia aperta
6.3. Istituzioni vincolanti
7. Conclusione
VII. Il dopo guerra fredda
1. L’ordine occidentale e il crollo dell’Unione Sovietica
2. L’unificazione tedesca e l’acquiescenza sovietica
3. La costruzione istituzionale dopo la guerra fredda
4. La stabilità dell’ordine dopo la guerra fredda
5. Conclusione
VIII. Conclusione
1. Lo scambio istituzionale
2. Istituzioni, impegno e moderazione
3. Le sorgenti della stabilità politica
4. La potenza americana e il problema dell’ordine
Appendici
PREMESSA
La questione centrale affrontata in questo libro è: cosa fanno della loro nuova potenza gli Stati che hanno appena vinto una guerra importante? La mia risposta è che in questo tipo di situazione storica, gli Stati si sono preoccupati di conservare la loro potenza e prolungarne la durata, e che, paradossalmente, quest’obiettivo li ha spinti a moderare la loro forza per renderla accettabile agli altri Stati. In corrispondenza delle grandi sistemazioni postbelliche, gli Stati-guida hanno usato sempre di più le istituzioni sorte dopo i conflitti per stabilizzare la loro favorevole posizione internazionale e attuare una ‘strategia della moderazione’ riguardo all’uso della loro potenza, tale da procurare loro la fiducia e la disponibilità alla collaborazione degli Stati meno forti e influenti. L’ideale, per uno Stato-guida postbellico, sarebbe vincolare gli altri Stati a orientamenti politici fissi e prevedibili, evitando di farsi legare le mani da qualsivoglia istituzione. Ma se vuole ottenere un impegno istituzionale dagli Stati meno potenti – cioè, volendo vincolarli a un ordine postbellico – lo Stato-guida deve offrire qualcosa in cambio: un certo grado di autolimitazione credibile e istituzionalizzata del proprio esercizio del potere. Il tipo di ordine che prende forma dopo le guerre principali dipende dall’abilità degli Stati nel moderare istituzionalmente il loro potere e nel contrarre impegni a lunga scadenza.
Il visconte Castlereagh nel 1815, Woodrow Wilson nel 1919 e Harry Truman nel 1945: tutti questi statisti cercarono di usare il nuovo predominio del proprio Paese per modellare una sistemazione postbellica che legasse gli altri Paesi tra loro e allo Stato-guida. I rappresentanti degli Stati Uniti si trovarono in una situazione analoga dopo il 1989. Ma per legare gli altri Paesi all’ordine desiderato, gli Stati-guida non si sono limitati a usare la loro potenza: ne hanno anche circoscritto l’uso per ottenere la collaborazione altrui. Il successo degli Stati-guida ai quali ho accennato nella costruzione di uno stabile ordine internazionale è anche dipeso dalla loro abilità nel moderare la loro potenza per mezzo delle istituzioni. Un’abilità che ha influito profondamente sul tipo di ordine internazionale sorto dopo la guerra.
Il mio interesse per le giunture postbelliche e le sistemazioni di pace è nato agli sgoccioli degli anni Ottanta, in pieno dibattito su carattere e significato dell’egemonia americana. Il mio interesse non riguardava tanto la fase di declino dell’egemonia, ma, al contrario, il suo sorgere, e in senso più generale, la nascita di un ordine politico.
La fine della guerra fredda rendeva ancora più pressante la mia curiosità. E, in almeno due modi, alzò la posta in gioco del mio interrogarmi sulla questione dell’ordine: anzitutto, con la fine della guerra fredda studiosi e analisti politici cominciarono a sostenere che l’America si trovava di nuovo in una grande congiuntura postbellica, e su uno spartiacque simile a quelli del 1919 e del 1945. Una questione che immediatamente si trasformò in quest’altra: cosa possiamo apprendere dalle precedenti sistemazioni postbelliche circa il modo in cui dare vita a un ordine postbellico stabile e conveniente? L’altra circostanza che alzò la posta in gioco fu che la fine della guerra fredda rese più vivaci alcuni dibattiti teorici. Il momento sembrava il più adatto a chiarire se la minaccia esterna era stata il principale elemento di coesione e collaborazione tra le democrazie industriali. Durante la guerra fredda, le ipotesi sulla collaborazione erano state sopradeterminate. Sia i neorealisti che i liberali proponevano spiegazioni plausibili, ma non c’erano dati capaci di indicare con precisione quali fattori fossero più importanti. All’inizio del dopo guerra fredda, le due tradizioni teoretiche pronosticarono, per lo più, sviluppi diversi, e sembrò presentarsi la possibilità di valutare con più precisione il valore dei rispettivi sistemi concettuali.
Nell’autunno del 1991 mi sono recato a Washington, per una collaborazione di un anno col gruppo di Pianificazione politica del Dipartimento di Stato. La capitale risultò intellettualmente molto vivace in quel periodo. In agosto, il premier sovietico Mikhail Gorbachev si recò nel sud della Russia per un periodo di riposo, e durante la sua assenza un colpo di Stato fu tentato a Mosca. Il dramma si svolse sotto gli occhi del mondo, in diretta televisiva. Un politico riformista in ascesa di nome Boris Yeltsin, in piedi su un carro armato davanti al Parlamento, tenne un discorso alzando il pugno in segno di sfida. I golpisti furono sconfitti e i democratici ripresero il controllo della situazione, ma da quel momento l’Impero sovietico cominciò a disgregarsi. La guerra fredda era finita.
Assistere al dramma dal Dipartimento di Stato fu rivelatore. La diplomazia americana era terribilmente preoccupata per le condizioni di salute del governo civile guidato da Yeltsin. In Russia, l’inverno 1991-1992 fu rigido e si temeva che proteste per la scarsità di generi alimentari e altri disagi uccidessero la neonata democrazia. La più grande riunione di consiglieri dei ministri mai svoltasi al Dipartimento ebbe luogo nel gennaio 1992 per coordinare gli aiuti alimentari, medici, energetici e abitativi alla Russia. Ma al di là della crisi immediata, in privato i politici e i burocrati si interrogavano sul futuro. La guerra fredda era finita; cosa sarebbe venuto, dopo? Il containment e la competizione strategica tra Unione Sovietica e Occidente aveva dominato la scena internazionale per molto tempo. L’euforia della ‘vittoria’ della guerra fredda si mescolava all’ansia circa le strategie di fondo e gli scopi della politica estera americana nella fase successiva. Una delle grandi preoccupazioni del momento riguardava la futura coesione delle democrazie industriali, le nazioni del cosiddetto ‘mondo libero’ che avevano appena vinto la guerra fredda. La minaccia esterna che aveva alimentato il loro spirito di collaborazione era venuta bruscamente a mancare. Cosa avrebbe tenuto unite le potenze industriali avanzate? Uno dei miei colleghi della Pia nificazione politica continuava a chiedere quale ‘collante’ avrebbe tenuto insieme il sistema. Era il grande interrogativo del momento, e resta un tema importante del dibattito sull’ordine internazionale nel dopo guerra fredda.
Un altro modo di formulare la questione è: quali sono le sorgenti dell’ordine stabilitosi tra le democrazie industriali? In questo libro, sostengo che il luogo migliore in cui cercare la risposta è la situazione dopo le guerre, quando gli Stati affrontano i problemi fondamentali della ricostruzione dell’ordine: è allora che esso prende forma. La soluzione che propongo si ispira sia alla tradizione teorica realista che a quella liberale. Il realismo formula, riguardo al potere, molte delle domande giuste: chi lo possiede, come è esercitato, come reagiscono gli altri Stati a una forte concentrazione di potere a essi esterna? Ovvero, come mi sono chiesto in questo libro, secondo quale processo il potere si trasforma in ordine? Ma i realisti, o almeno gli attuali neorealisti, non conoscono nè tutte, nè le più importanti risposte alle loro domande. Certi tipi di Stati – le democrazie liberali mature – hanno la capacità di dispiegare istituzioni che, insieme all’apertura e accessibilità della stessa democrazia, permettono alle nazioni postbelliche di superare i problemi di ostruzionismo e diffidenza verso la potenza altrui che storicamente caratterizzano questi snodi storici. Nei secoli, gli Stati hanno fronteggiato problemi simili di ricostruzione dell’ordine internazionale dopo un grande conflitto, adottando ‘soluzioni’ di volta in volta diverse. E oggi, almeno tra le democrazie occidentali, le soluzioni appaiono molto simili a quelle date al problema dell’ordine all’interno degli Stati. Restano misteriose, secondo un’ottica neorealista, le ragioni per cui uno Stato potente si assoggetta ai vincoli delle istituzioni internazionali. Cosa spinge una Germania di nuovo unita, che si delinea come la principale economia europea del dopo guerra fredda, ad accettare di entrare in un ordine monetario continentale destinato a restringere il ventaglio delle sue opzioni? Oppure, per citare una delle questioni storiche affrontate nel libro, perchè gli Stati Uniti, usciti dalla Seconda guerra mondiale come la più potente nazione della Terra, hanno contribuito a tessere una fitta trama di istituzioni internazionali occupandone proprio il centro? In generale, i neorealisti hanno dato poca importanza alle istituzioni; per questo non sono nella condizione di avanzare ipotesi precise. Quella suggerita dall’autore è che in casi come quelli citati, la nazione in posizione preminente adotta una strategia di gestione del potere più sofisticata di quanto teorizzato dai neorealisti; ma egli sostiene che per comprendere bene il ruolo delle istituzioni in simili frangenti occorre superare anche la teoria istituzionale razionalista e contrattualista proposta dal liberalismo. Solo così apparirà chiaro come, anche nel quadro di rapporti di potere altamente asimmetrici, gli Stati industriali democratici abbiano potuto dare vita a un ordine stabile e legittimo.
C’è molto più ‘collante’ tra i Paesi industriali avanzati di quanto pensasse la maggior parte degli studiosi. Questo libro verte su come e perchè le cose stiano in tal modo.