
Non abbiamo bisogno di molte cose per sopravvivere. Ce ne servono invece alcune, essenziali, per vivere. Jacques Attali ci svela cos'è indispensabile per condurre un'esistenza bella, buona, libera e felice: non solo semplificarsi, vivere con poche cose materiali, ma incontrare, almeno una volta nella vita, i grandi capolavori della creatività umana. Ecco una lista degli "imperdibili della civiltà", raccontati uno per uno dalla penna di un grande pensatore dallo sguardo lungimirante e raffinato. Romanzi e saggi, opere musicali e teatrali, dipinti e sculture, luoghi e monumenti, film e persino serie televisive sono uno strumento privilegiato per aprire il cuore e la mente alla curiosità, alla tolleranza, alla pace; l'unica via per conoscere gli altri, il mondo e se stessi. Ci sono voluti decenni per costruire questo "inventario dell'essenziale", una lista preziosa a cui tutti - in modalità libera, gratuita e senza censure - dovrebbero avere accesso. «La sfida di questi tempi barbari è fare della propria vita un'opera d'arte», esorta Attali, «e allora: leggi, ascolta, guarda, vivi!».
Nonostante sia diffusa l'idea che nelle scuole statunitensi, come in quelle dei Paesi occidentali, si insegnino i valori democratici, ci troviamo di fronte un modello di insegnamento che non solo non incoraggia, ma impedisce di sviluppare il pensiero critico e indipendente, di ragionare liberamente su ciò che si nasconde dietro la rappresentazione del mondo offerta dal potere. Di rado è consentito agli studenti di «trovare da soli la verità», mostrando loro come farlo. Più spesso ci si aspetta che i ragazzi imparino attraverso un trasferimento di conoscenze: un approccio strumentale all'istruzione, la cui efficacia è misurata da esami che prevedono risposte corrette e risposte errate, predeterminate secondo i criteri stabiliti dalla cultura dominante. Le scuole non sono dunque luoghi democratici, ma istituzioni che svolgono un ruolo di controllo e di coercizione. In questa raccolta di saggi, Noam Chomsky rivela, con una serie documentata e puntuale di esempi tratti dalla storia recente, come gli Stati Uniti siano riusciti a rivendicare continuamente la loro superiorità morale proprio allontanando gli osservatori e i cittadini da una comprensione critica e globale degli eventi. E con la passione che da cinquant'anni sostiene le sue ricerche sui sistemi di potere e la sua competenza di studioso della comunicazione, fornisce gli strumenti utili a fare di studenti e insegnanti degli «agenti della storia» alla costante ricerca della verità, per rendere questo mondo meno discriminatorio e più giusto.
"Confine" è la parola che attraversa l'intero libro con la duplicità del suo significato: da un lato limite, linea che separa, barriera; dall'altro area condivisa, linea di contatto fra due regioni, soglia. Nunzio Galantino prova a ripercorrere, in queste pagine, i confini che ha conosciuto: quelli eretti a Lesbo col filo spinato per segregare persone esuli e affamate dipinte come nemici delle nostre culture, economie e democrazie; quelli che, in Romania, allontanano dai nostri occhi i bambini abbandonati; quelli, sottilissimi, dove abitano i malati sospesi fra la vita e la morte e, ancora, i confini rappresentati da quelle esistenze "periferiche" destinate a incarnare la società dello scarto. In un "diario pubblico" denso di esperienze vissute, di scambi con religiosi, politici e intellettuali impegnati ad affrontare le attuali emergenze sociali, di confronti con gli scritti di vari autori e gli insegnamenti di papa Francesco, Galantino invita a riflettere sui muri che abbiamo dentro di noi, sull'indifferenza, sugli sbarramenti innalzati per proteggerci da presunte minacce e che, invece, ci rinchiudono in orizzonti sempre più ristretti. E mostra che solo lasciandosi attrarre dall'oltre, solo attraverso il dialogo - che non è cedimento né compromesso, ma capacità di ascolto e desiderio di conoscenza - è possibile fare incontri che accrescono la nostra umanità, generano saggezza, danno origine a nuovi modi di vivere.
All'inizio è solo un bambino come tanti, nato in Senegal da un padre pugile che vive nel mito di Muhammad Ali e che sogna per il figlio un futuro importante. Poi quel bambino, il nome dato in onore del campione che per ben due volte riesce a incontrare, un pugile lo diventa davvero, costretto dal padre a durissimi allenamenti a ogni ora del giorno e della notte, chiuso in una palestra, piegato dai colpi quando tutti i suoi amici sono per strada a giocare. Ma come Ali comprende ben presto la via che gli ha aperto il padre è l'unica alternativa possibile a una vita segnata dalla criminalità e dalla droga. In breve tempo il ragazzo, ormai campione del Senegal, vede crescere in sé il desiderio di superare i confini di un Paese sempre sull'orlo del baratro. Da qui il viaggio verso la salvezza, la terra promessa. Dopo qualche mese in Francia, il visto che sta per scadere, Ali decide di andare in Italia e di provare a cercare lì la realizzazione di quel sogno che insegue da sempre. Non è facile, in un Paese di cui non conosce la lingua, senza il permesso di soggiorno, né una casa in cui stare, guadagnando qualche spicciolo per sopravvivere facendo l'ambulante sulle spiagge. Ma la sua tenacia e il desiderio inarrestabile di tornare sul ring lo guidano attraverso un percorso di crescita e lo portano dove voleva. Grazie all'incontro con Federica, una donna italiana conosciuta in treno e divenuta poi sua moglie, e agli amici di Pontedera, la piccola città che lo ha accolto, Ali potrà ricominciare a combattere e a vincere, e si troverà esattamente dove suo padre lo immaginava fin da bambino: sul tetto del mondo.
Il tentato "golpe” contro Francesco esplode come "bomba mediatica" a Dublino, la mattina del 26 agosto 2018, durante il viaggio-lampo in Irlanda per l'incontro delle famiglie, che nelle intenzioni del pontefice doveva servire anche a chiedere perdono per lo scandalo degli abusi su minori e seminaristi. È l'invettiva dell'arcivescovo Carlo Maria Viganò, che coinvolge gli entourage di ben tre papi e che accusa Bergoglio di aver coperto il cardinale Theodore McCarrick, arrivando a chiedere le dimissioni del papa. La "bomba" è solo la deflagrazione più forte e recente di una lunga guerra che si combatte negli anni del pontificato di papa Francesco: una battaglia senza esclusione di colpi che coinvolge gruppi di potere e attraversa la curia vaticana e le conferenze episcopali del mondo. Nel rigurgito magmatico di clericalismi, lobby gay e ansie scismatiche, non si può tuttavia leggere quel che accade oggi nella Chiesa con lo schema amici-nemici di Francesco. Occorre andare in profondità, occorre capire cosa c'è di vero e di falso, e quali omissis svelano la strumentalità di tante operazioni mediatiche, del tentativo di bollare come eretico Francesco e della rete politico-economica internazionale che sostiene la battaglia contro di lui, alleata con settori della chiesa statunitense e con appoggi anche nei palazzi vaticani. Occorre leggere documenti, scoprire retroscena e ascoltare le inquietanti versioni dei fatti dei tanti protagonisti chiamati in causa da questa inchiesta.
«Dall'Italia agli Stati Uniti, dalla Russia a molti Paesi europei, i muri si moltiplicano e i ponti crollano, i porti si chiudono davanti ai profughi e le dogane tornano in auge, la democrazia liberale che doveva estendersi su tutto il globo si ritrae a vista d'occhio: il nostro fallimento è grandioso. Noi, intellettuali progressisti, militanti umanisti, fautori della società aperta, difensori dei diritti umani e cittadini cosmopoliti, siamo incapaci di arginare l'ondata nazionalista e autoritaria che si abbatte sulle nostre società. Avevamo la religione del progresso, ma il riscaldamento globale prepara la peggiore delle recessioni. L'insurrezione populista e il disastro ecologico in corso dimostrano che la logica neoliberale ci porta all'abisso. Per non perdere tutto, dobbiamo uscire dall'individualismo e dall'egocentrismo. Se le generazioni passate hanno vissuto in un mondo saturo di dogmi e di miti, noi siamo nati in una società vuota di senso. La loro missione era spezzare le catene, la nostra sarà ricucire i legami e reinventarci una comunità. Esistono strade per uscire dall'impasse. Sapremo seguirle?» Da un intellettuale di riferimento, una riflessione profonda e quanto mai necessaria sulla perdita di senso e di appartenenza della nostra società che, dopo aver smantellato gli storici riferimenti collettivi, è preda del vuoto e dell'ansia. Ma una via di uscita dalla solitudine e dall'individualismo è necessaria e possibile.
Indimenticabile in "Vacanze romane", icona di stile in "Colazione da Tiffany" e "Sabrina", Audrey Hepburn è una delle star del cinema più amate. Della sua vita, dei suoi film e del suo impegno come ambasciatrice dell'UNICEF, giornali e rotocalchi hanno raccontato molto, dando l'idea che, nonostante la sua estrema riservatezza, di lei non ci fosse più nulla da scoprire. Ma così non è. Figlia di una baronessa olandese e di un sedicente conte inglese, dopo alcuni anni in Inghilterra, la giovane Audrey si trova in Olanda proprio negli anni dell'occupazione tedesca. Sarà l'uccisione da parte dei nazisti dell'amato zio Otto, unica figura maschile di riferimento dal momento che il padre viveva in Inghilterra dopo la separazione dalla moglie, ad avvicinare la ragazzina alla Resistenza. Mettendo a rischio la propria vita, Audrey comincia a consegnare cibo ai soldati britannici, a fare da staffetta per le informazioni e i giornali clandestini, a danzare per raccogliere fondi per i gruppi di resistenti nelle Serate nere, così chiamate perché le finestre venivano oscurate. Di questo impegno, Audrey parlò pochissimo e con vaghe allusioni. Né amava parlare della fame e degli stenti che aveva dovuto sopportare in quegli anni, la "dieta di guerra" la chiamava, e che ne avevano segnato la salute e il fisico. Con tenacia da investigatore e accuratezza da storico, Robert Matzen ha ricostruito gli eventi di quegli anni, perlustrando archivi, confrontando documenti - tra cui il diario dello zio Otto - e facendo rivivere una Audrey Hepburn segreta e inedita, dal coraggio e dalla generosità infiniti.
Genova, 14 agosto 2018 «Potevo esserci anch'io». Quanti di noi si sono fatti sgomenti questa domanda dopo le 11.36 del 14 agosto 2018? Il Ponte Morandi non era solo "il ponte levatoio" di Genova, ma l'accesso alla riviera, alle vacanze, agli affari del porto e della zona industriale. Per questo la tragedia poteva essere ancora più immane. Se non fosse stata la vigilia di Ferragosto, se avesse fatto bel tempo, se il Ponte fosse crollato sopra i condomini con oltre 700 persone. Su quell'asfalto percorso da un traffico superiore alle sue forze, che si è sbriciolato in una valle piena di lacrime, quel 14 agosto la città è cambiata per sempre. Si è spaccata in due come quel gigante di cemento armato, con un dolore impossibile da cancellare. Eppure, in quello stesso momento un popolo intero si è ritrovato nella voglia di combattere e ricostruire. Nessuno può raccontare quel dramma meglio di un genovese, uno che quelle strade le ha vissute, respirate - e poi studiate per lavoro -, sin dal 1989. Da quando un assessore della giunta comunale, di ritorno da Roma, gli confida: «Quel Ponte non ce la fa più, è a rischio crollo». Nello stesso anno, l'ingegner Riccardo Morandi, preoccupato più di tutti per la propria opera, ripeteva come un mantra ai suoi collaboratori: «Controllate quel Ponte, verificate il cemento». Come si tiene d'occhio un figlio che prende una cattiva strada. Con animo da cronista, grazie anche alle testimonianze dirette dei protagonisti, Franco Manzitti entra negli angoli più nascosti. E svela tutto quello che è successo. Prima e dopo. Lì dove permane quel tonfo sordo e indimenticabile, che ha rimbombato per giorni in tutto il mondo.
Per Federico Vespa, classe 1979, la vita sembra in discesa: il padre è un celebre giornalista, la madre un importante magistrato. Cresce nella Roma bene, Federico, ma ha una sensibilità particolare. Vive con disagio l'euforia spensierata degli anni '80 e '90: a ben guardare, non è tanto meglio del fervore e della violenza degli Anni di Piombo. Sente sulla pelle le derive del consumismo sfrenato, delle relazioni facili ed effimere, del precariato lavorativo e umano, dell'antipolitica che sfocia poi nel populismo. Da esponente dell'ultima generazione analogica partecipa con sgomento, più che curiosità, all'avvento di Internet e dei social. Mentre l'Italia cambia, declina e implode, Federico scopre i tormenti e le incostanze dell'amore, muove qualche passo in politica, segue il calcio con trasporto, inizia con buon successo la carriera di giornalista radiofonico. Ma c'è un buco nero, un nodo in gola, un senso di vuoto. Il male oscuro della depressione. I farmaci. Le incomprensioni con la famiglia. La sensazione che niente conti davvero, che niente possa distoglierlo dal suo torpore affettivo. L'appuntamento fisso con il bourbon, perché il demone dell'alcol «costa meno dell'analista». "L'anima del maiale" è un autoritratto senza reticenze e senza imbarazzi, sul cui sfondo possiamo leggere il paradossale disagio di una generazione intera, ingannata proprio da quei privilegi che avrebbero dovuto renderla felice. Non c'è una morale, nella storia personale di Federico Vespa. O forse c'è: a volte il disincanto e la chiusura in se stessi sono l'unico antidoto a una società vuota e isterica, che ha perso ogni punto di riferimento.
La lotta contro il cancro di Giacomo, dalla diagnosi alla remissione. Il coraggio e la dignità di una donna. La forza immensa dell'amore materno. Questa è la storia di una ragazza che nella vita aveva tutto ciò che si può desiderare: la favola e l'amore di suo marito, due figli meravigliosi, la popolarità, un lavoro gratificante nato per caso. Ma nella vita, un po' come a scuola, a volte arriva "l'interrogazione a sorpresa". E arriva proprio quando meno te l'aspetti. Il colpo che affonda il cuore e l'anima di questa mamma è una diagnosi terribile che riguarda il suo bambino di otto anni. All'improvviso, Elena Santarelli si trasforma semplicemente in "Mamma Elena". E deve imparare un nuovo modo per affacciarsi alla vita. Deve inventarsi come insegnare a Giacomo il significato di parole che nessun bambino dovrebbe ascoltare: "tumore" e "chemioterapia". Deve raccogliere i suoi capelli dal cuscino perché al mattino non li ritrovi, e trattenere fiumi di lacrime. Deve accompagnarlo in un inferno nel quale, però, si possono incontrare medici vestiti da orsacchiotti, piccole principesse bionde e magiche dottoresse dai capelli blu. Ma anche nelle difficoltà più impreviste e dolorose una mamma lo sa, come prendersi cura di suo figlio. Questa è una storia di dolore, di fatica, di rabbia, ma anche di amicizia, di coraggio e solidarietà. Elena Santarelli ha deciso di raccontarla perché il tumore (che fa paura, scoraggia, alimenta false illusioni) conosce anche la sconfitta. Il tumore può perdere. Il tumore se ne può andare. E attraverso i suoi pensieri, svela come una situazione inizialmente devastante può essere affrontata con determinazione e gentilezza. Si può vincere!
Nell'epoca dell'incertezza, tra i giovani serpeggia un grande malessere, mascherato da benessere. Un segnale chiarissimo è la dipendenza digitale: l'abuso dello smartphone può portare a disturbi del sonno, a stati di panico e di ansia, a isolarsi dagli amici, dalla famiglia e da ogni attività sociale o sportiva. Una vera e propria malattia che in Italia coinvolge ormai un adolescente su dieci. Paolo Del Debbio ci invita ad aprire gli occhi. Ci racconta le storie di ragazzi la cui esistenza virtuale è arrivata a confondersi con quella reale e ci insegna a riconoscere i campanelli d'allarme della dipendenza. Anche senza contare i casi patologici, troppo spesso la vita dei "nativi digitali" è tanto ricca di stimoli social quanto apatica, priva di slanci e di interessi reali: un viaggio senza meta e senza bussola. Precarietà del lavoro e mancata indipendenza economica si sommano alla crisi di valori fondanti come quelli cristiani o delle grandi ideologie politiche. E se la rete finisce per sostituire le tradizionali fonti di approvvigionamento culturale e sociale, il rischio più grande è quello di allevare generazioni deboli nelle capacità di scelta, privata e pubblica. Non è un fenomeno inesorabile, ma i divieti e i rimproveri non servono a contrastarlo. Dobbiamo invece sforzarci di far immergere i nostri figli nella vita vera, perché crescano a contatto con la strada, la natura e la gente in carne e ossa, non con le foto "filtrate" su Instagram; perché sentano la pelle d'oca dell'empatia profonda, non le emozioni artefatte dei social network. Più liti vere e più riappacificazioni vere, più amori folgoranti, più successi e più smacchi. Una volta provata la bellezza della vita, persino le sue inevitabili asperità la renderanno preferibile alla sua copia virtuale, povera e sbiadita.
«Abita la terra e vivi con fede»: il breve e poetico versetto del salmo 37 che dà il titolo a questo libro racchiude un progetto di vita per ogni cristiano, il proposito di uno sviluppo umano integrale per migliorare il mondo che Dio ci ha affidato e portare a compimento la sua opera. Viviamo in un'epoca segnata dal disorientamento, dai timori suscitati dall'incertezza economica e lavorativa, dalla preoccupazione per le catastrofi ecologiche. Un periodo di crisi, che potrebbe apparire come una corsa verso la distruzione, ma che Massimo Camisasca ci invita invece a leggere come l'occasione per un nuovo slancio umanistico che impegni in primo luogo i credenti, ovvero coloro che sono capaci di sperare, e quindi di operare. Nelle sue riflessioni, il vescovo affronta le sfide più impegnative che toccano i singoli e le comunità: l'esperienza della fragilità e della malattia; le difficoltà dell'educare; la disumanizzazione del lavoro, asservito al profitto e al consumo; la povertà della proposta politica; l'accoglienza e l'integrazione dei migranti; il rapporto dell'uomo con l'ambiente. E mostra come soltanto aprendo il cuore alla trascendenza, a Dio che è Padre di tutti, è possibile costruire una città per l'uomo. Perché, come ricorda Stefano Zamagni nella prefazione, un'economia efficiente ma non fraterna, una società civile pluralista ma non fraterna, una politica democratica ma non fraterna non sono capaci di soddisfare quel bisogno di felicità che sola può dare senso e bellezza ai nostri giorni.